JL

Il corridoio davanti a me è illuminato da una luce artificiale, a tratti troppo forte.
“Sarebbe bello poter tornare indietro”, medito, persa in mille pensieri. Ciò che è successo questa mattina mi sta pressoché ossessionando. Non so se ho fatto bene a reagire così a quella proposta; non so nemmeno se chi me l’ha fatta si sia reso conto di quello che avrebbe potuto significare, per me, in quel momento. A volte si parla troppo e senza pensare troppo. Eppure sarebbe così bello se tutti valutassero con accortezza l’opportunità di aprire bocca, di tastare l’atmosfera, di valutare i segnali tipici della comunicazione, anche non verbale. Ora, cosa possa aver fatto credere a Fabrizio che io avrei potuto anche solo prendere in considerazione una proposta di matrimonio, non mi è dato sapere. Il contratto vitalizio dei sentimenti. L’istituzione più obsoleta e sopravvalutata. La sua domanda era inopportuna, la mia risposta scontata. La reazione di Fabrizio, invece, piuttosto singolare. Ha preso il cofanetto ancora chiuso e si è ritratto, come colpito da una lancia. E io mi sono sentita tradita. Era un modo per avermi più vicina, ma è servito solo per allontanarmi definitivamente.
Mi fermo per cogliere l’offerta di un altro bicchiere d’acqua e continuo a osservare il corridoio. Pranzi pronti in confezioni sottovuoto iniziano a invadere gli spazi: verdure, carni, salse colorate, sapori e odori che mi portano alla mente la mensa scolastica della terza elementare. Ancora acqua. Comincio a essere insofferente, a non sopportare più le persone intorno a me. Le osservo da ore e potrei descrivere esattamente la curva dei loro capelli e il colorito della loro pelle. Parlano, sfogliano riviste, premono i bottoni posizionati di fronte a loro e ascoltano musica con gli auricolari.
Provo ad alzarmi, ma qualcosa mi trattiene, non ho più equilibrio e i timpani mi fanno male. Penso alla perdita della libertà, agli incubi che avevo da bambina, alla spiacevole sensazione di essere destinata a vivere tutte le situazioni peggiori che la vita può riservare.
Forse avrei dovuto essere più diplomatica, dire che ci avrei pensato su. Troppa sicurezza, a volte, non fa bene. Non mi sono presa nemmeno un minuto, non ho esitato un istante prima di rifiutare. Ecco cosa lo ha ferito di più: il fatto che io non abbia dimostrato di volerla prendere in considerazione, la sua proposta. In effetti, avrei potuto essere meno precipitosa, guardare dentro i suoi occhi e immaginarmi con un abito bianco, in mano un bouquet di fiori d’arancio, con tanta gente intorno che festeggia la mia conquista della felicità. Eterna. La purezza che mi acceca, le scarpe bianche con il tacco sottile. Antipasti, tartine, calici di vino sorseggiati con le braccia incrociate e i regali, le lacrime dei parenti, le amiche commosse, i cugini lontani che sussurrano «finalmente» a denti stretti. E i saluti a tutti, amici, parenti ritrovati, colleghi, ex colleghi, conoscenti e perfetti estranei che si accompagnano a loro, i loro auguri. Auguri di vedermi sempre così felice, così ben pettinata, così ben vestita, così radiosa. Chiudo gli occhi e vedo la torta nuziale, poi un forte botto mi scombussola la pancia. La cerimonia è finita.
Guardo l’orologio da polso. Le cinque. Il pollo con la salsa tailandese mi rigira nello stomaco. Mi addormento per la terza volta in poco tempo.
Mi risveglio con le labbra secche e cerco con lo sguardo la hostess addetta alla distribuzione dell’acqua. Sento i piedi pesanti e le gambe bloccate, l’insofferenza aumenta. Ho perso qualsiasi cognizione del tempo e dello spazio e la mia vita sembra così lontana. Cerco di riuscire ad affrontare tutto, ma non è semplice.
Mi viene in mente una cosa successa da ragazzina.

Avevo quattordici anni e mi trovavo da un parente, all’estero. Dormivo nella camera degli ospiti, una piccola stanza con il letto singolo, un armadio a due ante e una grande finestra che si apriva sui tetti a punta marroni. Ero solita lasciare la persiana della finestra sollevata per metà, in modo che nella stanza non ci fosse mai buio totale. Una notte, qualcuno, entrato prima di me, aveva abbassato del tutto la persiana. Non me ne accorsi subito perché ero andata a letto che era già notte. Mi addormentai e mi risvegliai dopo qualche ora, come al solito, per andare al bagno. Aprii gli occhi e non vidi nulla. Non riuscivo a focalizzare niente, ero immersa nel buio più totale. La finestra che di solito rischiarava la stanza sembrava scomparsa. Non c’era differenza tra tenere gli occhi chiusi o aperti. Una sensazione bruttissima. Cominciai a esplorare a memoria le pareti, alla ricerca dell’interruttore del lampadario, più le mie mani tastavano il muro, più l’angoscia cresceva. Non riuscivo a riconoscere le cose al tatto, non distinguevo un’anta dalla parete ruvida, la finestra da un quadro. L’interruttore sembrava introvabile. Un giro, due giri, tre giri, niente. Decisi allora di cercare direttamente la porta, ma non trovai neppure quella. Iniziai a sudare, in quell’agosto afoso, dentro quella stanza buia, persa completamente nella notte. Gli occhi totalmente inutili. Alla fine, credo per assoluta casualità, riuscii a trovare la maniglia e spinsi forte. Mi ritrovai nel corridoio che, seppur poco illuminato, permetteva ai miei occhi di percepire di nuovo le linee e le distanze.
La paura provata all’epoca torna immutata. Provo di nuovo ad alzarmi, ma senza successo. L’acqua che riesco a farmi dare questa volta è gassata ma sta perdendo l’effervescenza. Non riesco a capire come i miei vicini riescano a stare fermi, seduti, tranquilli e a chiacchierare come fossero seduti al tavolino di un bar, davanti a un tè.
Penso ai carcerati, alle loro giornate. Guardo di nuovo l’orologio, anche se mi rendo conto che è un gesto totalmente inutile. Mi riaddormento e mi risveglio dopo un tempo imprecisato. Mi guardo intorno, le persone vicino a me sembrano diverse. Una voce altisonante ci parla. Cerco di capire il significato di quell’annuncio ma troppe parole straniere mi sfuggono. Mi porto le mani alle orecchie e cerco di poggiarle come fossero conchiglie, ma il dolore ai timpani non cessa.
Mi torna in mente l’impossibilità di ritornare indietro nel tempo e, nello stesso momento, prendo coscienza della falsità di questo pensiero. Posso ancora cambiare idea, posso evitare di escludere a priori la proposta del contratto vitalizio dei sentimenti, posso ancora mettere in discussione tutto. In tutto questo tempo, sono stata cieca, sorda, immobile, stanca.
Mi rendo conto che tutto sta per finire quando torna il dolore al basso ventre, come un pugno. Mi piego e porto le mani sulla pancia. Il fastidio dopo qualche minuto passa e posso riprendere a respirare regolarmente. Sento l’aria artificiale che mi arriva dal bocchettone. Una voce, questa volta più chiara, ci comunica che non manca molto e capisco di avere un’altra possibilità. Passo da uno stato all’altro, dall’aria alla terra, in un attimo. Si accendono le luci rosse di divieto. “Vietato uscire”, “vietato alzarsi”, “vietato fumare”. Ma è quasi tutto finito. Ma il tempo è passato, o no?
Finalmente riusciamo ad alzarci tutti. Usciamo.
Una grande sala alla fine del corridoio. Il gelo che invade sin dentro le ossa. Una mattina gelida ci accoglie. Un grande orologio segna le dieci. È passato così poco tempo da quando ho incontrato Fabrizio? Non è successo niente di irrecuperabile, posso ancora cambiare il corso delle cose, posso dire di aver avuto il tempo di rifletterci. Potremmo chiamarlo destino, seconda possibilità, magia.
Ma è semplicemente il fuso orario, unito allo stordimento del jet lag.

JL di Daniela Piras
Racconto pubblicato sull’antologia “Racconti dalla Sardegna” (Historica Edizioni, 2018)

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