Pitagora – così ci racconta ad esempio Giamblico nel suo “De vita pythagorica“ – teneva il suo insegnamento ai discepoli, seppure solo a quelli (gli “acusmatici“) del più basso iniziale livello di iniziazione alla verità da lui svelata, nascosto dietro una tenda.
Ne udivano dunque, gli acusmatici, la voce; ne intuivano magari la figura, se la tenda non era troppo spessa. Ma di Pitagora dunque non dovevano vedere nulla, nè del corpo nè del volto. Pitagora era dunque per loro, all’incontro con la verità da lui incarnata, esclusivamente la parola di Pitagora.
Nel cerchio di una stanza, da dietro una tenda, dunque, un volto vuoto, un corpo vago articolano l’approccio ai significati, proposti come sapienziali, da un dire indicati.
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Pitagora dunque è, nello scenario di iniziazione alla vita filosofica che si dispiega nella sua scuola, innanzitutto e di primo acchito, una parola. Che dice quel che dice avvolta in un dispositivo comunicativo che, evidentemente, non è nè casuale nè privo di significato. Ma è anzi piuttosto modo intenzionale che apre e dispone uno spazio, col quale la filosofia ha inevitabilmente a che fare, almeno nella misura in cui, tra l’altro, è a Pitagora che si deve per primo l’uso del termine philo-sophia per indicare il sapere da lui ricercato e in tal modo – da dietro una tenda – ai novizi trasmesso.
La tenda di Pitagora dunque è immagine che richiede attenzione, è un’indicazione non eludibile. Componente l’epifania di quello spazio orginario e decisivo (decisivo perchè originario) entro cui la filosofia si dispone e espone – istituendo modo della relazione tra quanti la sophia ricercano – nell’ascolto o nel dire.
La tenda di Pitagora è, in questo spazio, l’ inframezzo tra il dire il vero e il porgervi ascolto. Non irrilevante nè casuale, è enigma che serba un senso che reclama decifrazione.
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Certo, quella pitagorica è, assai probabilmente, anche una messinscena, funzionale all’evocazione di una qualche aura ieratica intorno al personaggio Pitagora, finalizzata a circondare la dottrina pitagorica di una qualche sapienzale autorevolezza, utile al proselitismo, nell’accentuare così l’impressione di poter accedere, tramite essa, alla soluzione di misteriosi enigmi, immergendosi in chissà quali profondità abissali. Certo, magari la messinscena consentiva anche di far sì che a impartire l’insegnamento fosse, dietro la tenda, non necessariamente il mitizzato maestro, ma – chissà – invece uno qualsiasi del gruppo dei pitagorici. Chiunque tra questi poteva così fingersi Pitagora, che sembra tra l‘altro essere stato più figura leggendaria (secondo alcuni studiosi persino nemmeno mai davvero esistita) che reale persona in carne e ossa.
Ma quel che è certo è che comunque Pitagora, o chi per lui, in tal modo si espone e propone innazitutto come una maschera. Come un emblema quindi in cui, in un certo specifico modo atteggiata, si raccoglie ed espone la verità, che le dottrine elaborate dai “cosiddetti pitagorici“ (così non a caso li denomina Aristotele, considerandone dunque le elaborazioni come il prodotto della scuola che li accomuna, dando ad essi tutti uno stesso volto che ne maschera le identità) nel loro specifico modo articolano.
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Volti si nascondono dunque dietro una maschera, dall’altro lato di una tenda. Nella scena originaria della filosofia dunque una maschera e una tenda definiscono la filo-sofia stessa come tale. E se la maschera è anche volto di nessuno come di chiunque, allora essa è, come la tenda di Pitagora, superficie in cui un chiunque – sia che sia nascosto dietro, sia che sia di fronte ad essa – dispone in piani di realtà il percepito e l’oltre, in un gioco di evidenze e apparenze, latenze e rimandi.
Una parola (philosophia) indica così un saper di non sapere (la filosofia), il quale perciò ricerca – dall’apertura dello spazio, attraversato da un framezzo, in cui il filosofo appare e si disloca – un sapere (la sophia), che la cesura di un confine pone come esistente al di là del limite che la maschera circoscrive. Un indice (una maschera, una tenda, una parola: filosofia) vi allude. Esso perciò va intenzionato. In quanto e perchè latente.
Una scena (filosofica) dispone dunque uno spazio d’ascolto verso un luogo nascosto, separato da una tenda, ove una maschera parla all’orecchio teso a una parola sapiente. Un dire si espone, teso all’accordo tra dire e apparire.
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In questo intreccio, nello snodo del passaggio tra un mondo arcaico dell’acropoli, dominato dal mito e dalla figura della sapienza, e il mondo della polis percorso dalla discussione nello spazio dell’agorà, la scuola pitagorica non è più peraltro solo trasmissione di oracolare sapienza. In essa si costruisce ed elabora filosofia e matematica in una ricerca comune alla quale, discutendo – così si narra – liberamente, ogni affiliato contribuiva.
Ma nel momento in cui il sapere acquisito veniva trasmesso all’esterno, innanzitutto ai nuovi iniziati, tale sapienza veniva dogmaticamente asserita, da dietro una tenda. Pitagora, o chi per lui, parlava e infine concludeva il discorso, rivolto ai non ancora iniziati, non ancora ammessi al cenancolo – così si narra – sancendo con un “Ipse Dixit” l’inammissibilità di ogni replica o discussione.
Da dietro la tenda il filosofo si atteggia a sapiente. Una formula chiara e netta sancisce infine il suo dire, la cui verità sta nell’Ipse da cui essa proviene.
Nell’ “ipse dixit” è l’autorevolezza del luogo da cui parla che rende verità la voce che viene da dietro la tenda. Ma cosa c’è in questo luogo? A chi allude dunque lo “Ipse”?
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Da dietro la tenda dunque parla Pitagora, o chi per lui, e un ascolto ne accoglie il dire perché crede che in Pitagora una sapienza sia incarnata.
Pitagora così trasmette sapere e parla – così si tramanda – di numeri e musica, filosofia e purificazioni, politica e diete. Forse parla pure di sé, con cenni autobiografici. Ma sempre nasconde il suo volto ai troppo poco iniziati e, così facendo, nasconde il luogo da cui la sapienza proviene. In fondo così nasconde Sophia cui la filosofia tende l’orecchio.
Così facendo, innanzitutto lascia spazio a immaginare presente dietro la tenda chiunque si voglia. Chi sia Sophia è l’acusmatico dunque a immaginarlo. E quindi in qualche modo a determinarlo, posto che sarà la soddisfazione di un’aspettativa a definire sapienza la corrispondenza a un’immagine attesa di essa.
Ma quanto l’acusmatico avrà a disposizione per saturare di contenuto l’immagine sarà, così, il puro significato di quanto detto da dietro la tenda. Detto dunque da un altrove, emesso da un corpo nascosto.
Anche per questo chiunque può essere il luogo da cui la parola proviene, qualunque può essere il volto dell’ipse emittente, qualsiasi il suo corpo. L’immagine della verità, il contenuto che rende Sophia desiderata, è così tutto raccolto e sancito nell’ipse dixit, nel dettato preciso e inequivocabile di quanto detto. Tutto il resto in fondo è vago, indeterminato.
Solo nel detto dell’ipse dixit si impone l’irrevocabilità del “così è”. Da dietro la tenda, una pratica si inaugura: la filosofia, in quanto irrevocabilità e rigore.
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Ma nella scena delineata anche un’altra pratica prende forma, anch’essa tratto d’origine del filosofico. Pratica poco evidente forse, là dove risuona la parola piena di un sapiente. Ma purtuttavia tratto ineliminabile e specifico del filosofico che qui si apre. In ricerca infatti (in filo-sofia), sulla scena al di qua della tenda di Pitagora, c’è l’acusmatico, l’ascoltatore.
La pratica in cui dunque la filosofia qui accade è pratica dell’ apertura di un ascolto. In quest’ascolto molte biografie sono sottese (sono vite con le loro specifiche storie quelle che si accostano, ciascuna per i suoi motivi, alla parola pitagorica), ma tutte sono raccolte nello spazio ove risuona l’ipse dixit in cui la sophia consiste. Filosofo è dunque l’acusmatico e la filosofia accade in un ascolto. A seguito di esso, e all’averlo inteso, l’iniziazione è avviata e i pitagorici potranno quindi, poi, tra loro – presente o meno Pitagora, esistente o meno Pitagora – discutere e da sé, nello spazio dialogico con gli altri, nella scuola-comunità in cui convivono, fare in prima persona filo-sofia.
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Ma anche qualora poi, dopo l’ascolto, il novizio, ora iniziato, abbia finalmente accesso al cenacolo pitagorico e quindi all’incontro faccia a faccia con il maestro, l’insegnamento della tenda di Pitagora resta anch’esso acquisito.
In ogni apparire attuale infatti alberga un oltre dietro ad un velo. In ombra, nascosto. Esso è l’invisibile che innerva il visibile. Esso è l’assente, in quanto tale serbato nel nascondimento. Nascosti sono i rimandi delle relazioni che mostrano in evidenza sempre solo un polo di esse: polo che è snodo dell’invisibile intreccio. Nascosta è ogni dimensione esito di un’attesa: nascosta perché indeterminata. Nascosto è quanto è dimenticato.
In genere, come oltre una tenda o dietro un velo sta quanto nella presenza non è però rilevato.
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Tutto quanto è ascoso è velato. Dietro il velo, ha una forma l’indeterminato (fosse essa anche pur solo la forma di essere indeterminato).
Non si tratta solo della maschera evocata da Nietzsche o di schopenhaueriano velo di Maya, che peraltro di quanto nascosto hanno cura, rimemorandolo. La tenda di Pitagora è attenzione al fatto che ogni evento e esperienza sono velati. La tenda di Pitagora mette in chiaro che persino nell’esposizione della verità inoppugnabile e della sua matematica struttura (cui ambivano, si sa, nello specifico i pitagorici) un velo ovatta e tiene a distanza.
Alimentando perciò il desiderio.
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In ogni scrittura il corpo della lettera funge da velo. Dietro esso si cela il senso che dal corpo del segno emerge. Come una parola detta da dietro una tenda.
Così ogni volto è velo attraversato dal mondo psichico da esso nascosto. Così lo sguardo raccolto in una pupilla. Parlano. Come da dietro una tenda.
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Il corpo tutto è un velo, inframezzo attraversato da iscrizioni e attribuzioni di senso. Sia esso il corpo nudo o il corpo rivestito – adornato quindi e perciò posto come superficie d’iscrizione di segni, – sempre il corpo è velo. In ogni caso nasconde e rimanda ad altro. A un senso da scoprire, custodito oltre la superficie esposta: richiamo enigmatico e allettante, possibilità di desiderio e bellezza. In ogni corpo è questa possibilità, che sta nell’occhio di cui il corpo incrocia lo sguardo.
Senza velo, senza sguardo desiderante che lo attraversa, il corpo è inespressivo e muto. Perciò i popoli tutti lo segnano per lo meno con oggetti, o tatuaggi. Di per sé inespressivo e privo di senso, è perciò sempre disponibile a ogni possibile senso, capace di accogliere sensi e farsi quindi parola nelle sue pieghe, tensioni, consistenze e aperture. Capace di diventare cioè corpo seducente, o sessuato, o parlante sensi e parole che lo attraversano come un velo, provenienti sempre da altrove. Provenienti dallo sguardo che di significato, e magari di desiderio, lo investe. O dalla massa oscura che il corpo riveste e in cui esso corpo consiste.
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Da dietro la tenda di Pitagora dunque balena e si vela – questa è la scena – la nuda verità. Non importa in fondo se essa sia tale o meno. Questo lo si vedrà. Ma essa è e va anche velata, sapientemente pure nascosta. Allocata, oltre il velo. Ad alimentare, anche, il desiderio di essa.
Nell’indicare, così, in ogni possibile inframezzo, in ogni corpo, la possibilità che poi prende, letteralmente, corpo, nello sbocciare alfine, nell’evento di un tempo cairologico, in uno specifico luogo (in un singolo corpo), dell’ascolto di una parola e un respiro.
Si riapre sempre di nuovo la scena: c’è un velo, da attraversare e da alzare (per trovare, dietro esso, altri veli).
Salve Paolo,
sto facendo una approfondita ricerca su questo personaggio. Trovo il suo articolo molto interessante. Potrebbe cortesemente scrivermi la fonte? La ringrazio in anticipo. S.
Salve, volevo collegare questo articolo ad un articolo sul velo dipinto nel tempio di Minerva Medica a Montefoscoli. E’ possibile? grazie infinite.
[…] è all’interno, la decorazione del drappeggio della parete dell’orchestra, il velo di Pitagora. Viene tramandato che Pitagora fosse solito fare le sue lezioni agli acusmatici, cioè agli […]