Fushigi no manga 03. Makoto Shinkai, La voce delle stelle

©Makoto Shinkai

Ciao e benvenutə, questo è il terzo episodio di Fushigi no Manga, la rubrica di racconti semi-personali su manga belli e magari strani che dovrebbe uscire ogni mese ma poi la vita è quella cosa che succede quando non stai scrivendo racconti semi-personali su manga belli e magari strani.

Oggi come oggi sembra incredibile, impensabile perfino, ma c’è stato un momento in cui l’animazione giapponese si chiamava Satoshi Kon e invece Makoto Shinkai, con i suoi cieli con le nuvole fatte in cgi e i suoi body swap in cui a nessuno viene in mente di prendere lo smartphone e chiamare il proprio numero, non esisteva. Lo so, fa strano. Tieni a mente Makoto Shinkai, ché ci torniamo tra poco perché parliamo proprio di lui.

In quel periodo là, stiamo parlando della prima metà degli anni 2000, anche il contesto editoriale del manga era ben diverso. J-Pop non era ancora nata per cui le protagoniste assolute erano Star Comics e Panini che, all’epoca, non avevano ancora preso la direzione odierna fatta almeno in parte di albi di lusso, grandi formati fatti per durare e ricerca sul contemporaneo. Per dirla in altri termini, il grosso del manga era composto da Shojo e Shonen di basso costo e largo consumo – con le dovute eccezioni, beninteso. La svolta autoriale di Manga San era ancora di là da venire, e buona parte del fermento arrivava da case editrici che ormai poi ricordano e fanno sentire vecchio chi invece ce le ha, magari con una certa nostalgia, in mente. Mi torna in mente quel meme da Il signore degli anelli, con Elrond che dice “I was there, 3000 years ago…”.

Ma non divaghiamo. Tra i vari attori che a cavallo di metà anni Zero – periodo tumultuoso! – comparivano e scomparivano c’era d/books, divisione editoriale dell’audiovisiva d/visual nata se la memoria mi assiste da una diaspora interna a Dynamic. E boy oh boy se d/books era una cosa! I loro volumi, che hanno anticipato di un decennio l’idea di manga cartotecnicamente di lusso (anche sul fronte economico) sono tuttora qualcosa da custodire con gelosia: la loro edizione di Slam Dunk e di Ken il guerriero è la migliore che si sia mai vista, l’operazione di recupero di Go Nagai e di Leiji Matsumoto era tale che J-Pop può accompagnare solo e pure sul fronte scouting sul contemporaneo qualcosa si muoveva. Insomma, pur con tutti i problemi del caso, d/books è stata un piccolo ma fondamentale tassello nel percorso che ci ha portato dai primi tentativi di “Mangazine” della Granata Press alla fioritura odierna. Ma che c’entra Makoto Shinkai?

Nel 2002 era uscito un mediometraggio che il buon Shinkai, armato di tanta buona volontà e di un computer in grado di renderizzare i suoi strabilianti cieli con quelle nuvole che se le vedi ti innamori della pioggia, si era prodotto da solo. Da solo del tutto: dal character design al montaggio. Si intitolava La voce delle stelle ed era un po’ meh. Impressionante se considerato che era fatto da una persona sola, ma tutto sommato niente di che. Poi, qualche anno dopo, ne era uscito un adattamento a fumetti a firma Sahara Mizu. E quanta melodrammatica bellezza c’era in quel fumetto!

La storia in breve. Noboru è un ragazzo delle medie, è super innamorato della sua compagna di classe Mikako e desidera ardentemente di frequentare il liceo assieme a lei. Fin qua storie di ordinario manga sentimentale. Ma. Sta per partire una spedizione spaziale per fare della ricerca su una razza aliena di cui si conosce poco o niente. Makiko viene arruolata.

È qui che Shinkai ha un’idea furba furbetta ma tanto efficace. Se La voce delle stelle dev’essere una storia sulla distanza, che lo sia davvero. Man mano che l’astronave su cui viaggia Mikako si allontana dalla Terra, gli sms con cui comunica con Noboru ci mettono sempre più tempo ad arrivare. Così come le risposte di lui, che devono fare la strada all’indietro. La cosa è ancora ancora gestibile fintantoché si tratta di qualche minuto, magari un quarto d’ora. Ma poi succede un macello, la nave fa un balzo nell’iperspazio fin fuori dal sistema solare e Mikako non fa a tempo a premere invia. Quel messaggio lì, che avrebbe informato il ragazzo del salto e che sarebbe stato l’ultimo per molto, molto tempo, non parte. Partirà a salto effettuato, solo che ora quel segnale elettromagnetico arriverà non tra qualche ora ma tra mesi.

Ecco questa cosa mi colpiva la prima volta che la leggevo e in un qualche modo mi colpisce adesso. C’è un che di genuinamente drammatico in quell’sms non inviato. Nell’impossibilità per Noboru di sapere cosa lo aspetta, una lunga, lunghissima attesa foriera di dubbi e di tristezza. Nella disperazione di Mikako che forse solo in quel momento realizza la portata di quel suo viaggio che pure l’emozionava tanto, ma che la porterà lontanissimo sia nello spazio che, soprattutto, nel tempo. Ed è quella lì la vera distanza: l’impossibilità di comunicare, l’sms che dovrebbe essere una cosa immediata e invece si presenta con tutte le limitazioni della posta inizio secolo ma con un numero limitatissimo di caratteri, l’attesa. Spasmodica, disarmante, ineluttabile.

Va detto che La voce delle stelle poi ripubblicato nel 2015 da Star Comics – quindi anni dopo la dipartita di d/books dalle scene e in un momento in cui Makoto Shinkai si era imposto nell’immaginario collettivo adolescenziale e post adolescenziale come il fine narratore che non in realtà non è mai stato –, non è che sia poi ‘sto gran fumetto. Certo, Sahara Mizu fa un ottimo lavoro nel tratteggiare con dolcezza questa storia di normalità che dissolve poco alla volta nel nulla dell’attesa ma il suo disegno non è niente di memorabile. Shinkai dal canto suo chiude la vicenda con tutta la piacioneria per cui sarebbe diventato famoso, quasi rovinando l’arco narrativo. Una manciata di pagine in meno e l’effetto sarebbe stato tutto diverso, infinitamente più potente. Ma sai com’è, non sempre si sa quando fermarsi.

Però quell’idea lì, quel “ti devo scrivere ora perché poi sarà troppo tardi”, quell’idea di lontananza incolmabile, quel “da adesso in poi potrò parlare con te solo 150 caratteri alla volta e solo una volta ogni 18 mesi”… Ecco, quell’idea lì è forte. Fortissima. Risuona. Mi torna in mente il finale di una canzone dei The Florist. Si intitola 1914 e fa:

“A farewell letter from a 100 years ago

Please remember to feed the cat

Please remember that I’m never coming back”. (Matteo Gaspari)

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