Cinque maggio, dia mundial da língua portuguesa

Uno dei motivi per cui ventitré anni fa ho scelto di fare la richiesta dell’Erasmus a Lisbona è stata la lingua: no, non conoscevo assolutamente il portoghese, ma fra le prove da sostenere per ottenere la borsa c’era anche il colloquio in lingua e, non essendoci un professore di portoghese all’università di Economia di Torino, per Lisbona era previsto un colloquio in inglese. Il che era perfetto perché all’epoca l’inglese era l’unica lingua che sapevo oltre all’italiano. Ovviamente, da ragazza poco previdente che ero, non ho pensato di prendere lezioni prima di partire: ho pensato, figurati, il portoghese è una lingua così poco parlata nel mondo che di sicuro a Lisbona parleranno tutti inglese.

Primo grande errore: il portoghese non era una lingua poco parlata, anzi, era fra le più parlate al mondo. Non riesco a recuperare la classifica di quegli anni ma di sicuro era fra le prime cinque (oggi è secondo alcune classifiche la quinta, secondo altre la sesta). Su una cosa però avevo ragione: a Lisbona tutti parlavano e parlano inglese. I motivi sono vari, di sicuro avere film non doppiati al cinema aiuta molto.

Arrivai quindi a Lisbona senza sapere una parola, aspettandomi di sentir parlare una lingua molto simile allo spagnolo. Altro grande errore: il portoghese del Portogallo, quando lo leggi, essendo una lingua latina, è molto simile allo spagnolo o all’italiano, ma quando lo senti parlare la prima volta ti chiedi se per caso sei stata teletrasportata all’improvviso in un paese slavo o arabo, insomma NON CI CAPISCI NULLA.
Il punto è che il portoghese che si parla in Portogallo (quello parlato in Brasile ha una pronuncia molto diversa e più comprensibile) ha una pronuncia molto chiusa, molto fechada, molto veloce, poco cantata. Avete presente quei suoni dolci e musicali che in Italia si usano per parlare del portoghese, quelle parole che finiscono in -ão tipo – per chi non è più giovanissima come me – cacão meravilhão? Ecco, quelli sono suoni che arrivano dal Brasile, non dal Portogallo.

Per fortuna la mia università, l’Instituto Superior de Gestão, aveva previsto un corso di portoghese per noi Erasmus. Mi servì per la struttura della lingua: fu in quel periodo che cominciai a pensare alle lingue straniere come ad alberi, e ai verbi come al tronco e ai rami, fondamentali affinché tutto il resto (parole, suoni, espressioni) crescesse nella mia testa come foglie: scrissi su vari fogli A4 tutte le declinazioni e tutti i verbi irregolari e li appesi ai muri di camera mia, in modo da averli sempre davanti agli occhi. Giorno dopo giorno, velocemente come succede quando sei in un posto e hai poco più di vent’anni, cominciai a comprendere e a parlare quella lingua così fechada (e così bella). Mi aiutarono molto anche le lezioni che frequentavo: tutti i corsi erano in portoghese, così come gli esami che avrei poi dovuto sostenere. Fu però un professore, se non sbaglio di Economia Industriale, a svelarmi un segreto: Quando ti innamorerai di un ragazzo portoghese, mi disse molto lentamente, scandendo le parole, allora sì che comincerai a parlarlo bene.
Tutta la classe scoppiò a ridere, io anche, e con la coda dell’occhio guardai proprio quel ragazzo che cominciava a piacermi.

A Casa Castilho ridevamo molto su questo concetto relativo all’apprendimento delle *lingue*. Bisogna limonare, ci dicevamo nella nostra lingua di famiglia che chiamavamo portugnol, un misto di portoghese e spagnolo (ai miei compagni di casa piaceva molto il verbo italiano limonare).

A dicembre ero completamente innamorata di quel mio compagno di corso e avevo amici simpatici che cominciavo a capire quando parlavano del più e del meno ma con i quali non riuscivo a scherzare. Perché quando non domini una lingua magari riesci a dire cosa hai fatto nel fine settimana ma non riesci a fare ironia, a scherzare, a fare battute. In quella mia testa in cui erano cresciuti velocemente il tronco e i rami e anche molte foglie, dovevano ancora nascere i fiori, quelli che ti fanno capire a fondo una cultura e fanno sì che tu possa davvero comunicare con chi hai di fronte.

Tornavo a casa dall’università e studiavo. Studiavo sui libri, ascoltavo la radio, guardavo la televisione. Volevo uscire con quel ragazzo e capire ogni sua espressione, volevo ridere con i miei amici all’università, volevo fare battute senza paura di offendere qualcuno o di pronunciare le parole sbagliate, volevo sentirmi parte di quel mondo nuovo in cui ero andata a vivere.
Ci riuscii. Intorno a febbraio mi resi conto che ormai il portoghese era per me automatico, mi ritrovavo a pensare in portoghese, a sognare in portoghese, e riuscivo persino a capire il calão, lo slang che parlavano i miei amici portoghesi.

Oggi, cinque maggio, è il dia mundial da língua portuguesa. Una lingua che oggi è un ponte. Un ponte fra tante culture, un ponte che va dall’Europa all’Africa passando per l’America e per l’Asia. Una lingua che può essere fechada o cantata, una lingua che tanti secoli fa è partita dal punto più occidentale dell’Europa per andare a solcare gli oceani e che ha anche significato sofferenza e guerre ma che oggi è un ponte. Una lingua plurale, arricchita dalle differenze, una lingua che tiene uniti tanti popoli oggi in pace fra loro. Una lingua in cui più di duecentosessanta milioni di persone si riconoscono. Una lingua che è diventata patria.

Minha patria è a lingua portuguesa
Fernando Pessoa

Pubblicato da Valentina Stella

Torinese, vivo in Lussemburgo, scrivo, racconto la cultura portoghese e accompagno gruppi a Lisbona. Ho scritto Se mi lascia non vale, per Zandegù, e Il resto è ossigeno, per Sperling & Kupfer.

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