Aspettando il Bifest 2019: Io e te, un incontro con Bernardo Bertolucci

In attesa del Bif&st 2019 – a Bari dal 27 aprile al 4 maggio – ricordiamo il significativo incontro di Bernardo Bertolucci con la città durante la sua masterclass al Teatro Petruzzelli il 28 aprile 2018.

Ieri non sono stata sul pezzo. Avrei dovuto scrivere subito quello che ho visto, ma non ho voluto per un pudore che di solito mi prende quando sento di assistere a qualcosa di miracoloso e forse perché è vero: è più facile raccontare i sorrisi immaginati che i sorrisi incontrati. Bernardo Bertolucci ieri al Bif&st ha portato un sorriso meraviglioso. Umano, nel senso più pieno e coraggioso del termine.

È stato più facile scegliere il titolo di questo pezzo (Io e Te, un incontro con Bertolucci) che pensare come cominciare a scriverlo. Allora, dovendo cominciare, preferisco svelarvi il gioco: anche se non ho potuto stringere la sua mano, Bertolucci era lì per tutti. Quando sul palco del Petruzzelli intrecciava le sue mani per ringraziare chi lo applaudiva e si alzava in piedi per omaggiarlo, stringeva le nostre. Stava salutando tutti, persona per persona. Il rapporto non era uno a oltre mille, ma uno a uno. È stato un Io e Te collettivo, viscerale, limpido e sincero da far bruciare gli occhi. Non siamo abituati a questo, anche se molti di noi lo sperano segretamente.

Durante la settimana ho ascoltato spesso spettatori che si stupivano nel vedere da vicino attrici, attori e registi, perché troppo spesso le riviste patinate, i sorrisi tirati sulle riviste patinate, fanno credere loro di seguire ombre lucenti di uomini e donne indistruttibili, altissimi, morbosamente lontani; quando in realtà chi sta dietro e davanti e intorno alla macchina da presa è umano: forte e fragile (e per questo molto più alto, molto più lontano ed eterno di quello che si riesce ad immaginare, ma tutto ciò si comprende sempre e solo dopo). “Mi aspettavo di più da questo personaggio” ho sentito dire e a volte ho creduto che chi stava parlando si riferisse ai personaggi in senso tecnico, a quelli che si muovono nelle storie: poi ho cominciato a scoprire che mi sbagliavo, molti si riferivano alle persone che agiscono sulla scena. Allora ho pensato che è ingiusta la banalità del gossip e che gli artisti vanno difesi (quelli veri sono proprio i tanti che hanno a cuore l’umanità e non è poi così difficile riconoscerli, di solito non si autodefiniscono tali). Dovremmo smetterla con questa pornografia indagatrice che vuole sapere smaniosamente di più di quella forza e di quella fragilità e che si disinteressa del perché si scrive, si dirige e si recita seguendo un certo, determinato ragionamento. Eppure, quanto mi ha sorpreso Bertolucci alla conferenza stampa dopo la proiezione della versione restaurata di Ultimo tango a Parigi (che mi limiterò a dire folgorante), quando ha risposto con estrema gentilezza perfino alle domande che si ripetevano (banali e un po’ fuori luogo, lo dico per dovere di cronaca) di certi giornalisti.

Bertolucci mi ha fatto pensare a questo: incontrare un intellettuale, un poeta dell’immagine (e della parola), incontrare e basta, deve essere la meraviglia che fa tacere e sorridere. Dovremmo limitarci a guardare i sorrisi e a parteciparne. Ha avuto una grande potenza la chiusura del Festival, perché è arrivato un maestro di umanità politica come lui, con la sua camicia rossa, a parlarci di soffi, di porte da tenere aperte sul set e nella vita perché può sempre arrivare qualcuno che (non) stavamo aspettando.

Bertolucci ha dialogato con David Grieco, ecco un altro Io e Te (solo per loro ma anche per noi che partecipavamo all’incontro). L’abbiamo sentito ricordare di quando anche il privato era politica e ci è venuto il desiderio di continuare a fare domande sul Sessantotto e su quello che è venuto prima e su quello che è venuto dopo. Soprattutto: su quello che non è mai accaduto e che non è mai stato.


Poi la voce di Bertolucci si è velata ricordando un certo Pier Paolo che al primo sguardo gli era sembrato un ladro sulla porta di casa e forse è così, è proprio così: Pasolini è un derubato che sorride e ruba qualcosa al ladro, diventando ladro anche lui. La parola è venuta meno anche a noi (che già in silenzio ascoltavamo) quando ha ricordato quei due versi “Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, / finirà non chiesto, si perderà non detto” che Pasolini scrisse proprio per lui, A un ragazzo si chiama quella poesia (La religione del mio tempo, 1961), perché Bertolucci aveva chiesto di sapere del fratello, di Guido, partito partigiano con la pistola nascosta nel libro di Montale e assassinato a Porzûs.

Non dirò, sempre per via di quel pudore cui ho già accennato, della commozione discreta di David Grieco accanto a Bertolucci, del suo spostarsi verso l’ombra del palco per lasciargli tutto la luce e per guardarlo davvero. Non dirò nemmeno troppo del sorriso dolce di Tornatore, un sorriso aperto e sincero mentre lo premiava e fuori esplodevano – del tutto casualmente – fuochi d’artificio.

“Io è Te”. E tutto quello che hanno vissuto, visto, amato e perduto, fuori e dentro al Cinema i nostri occhi. Quel Cinema che oggi nostalgicamente rimpiangiamo come un paradiso che abbiamo paura di dimenticare, ma che non abbiamo il coraggio di riprenderci, perché non abbiamo il coraggio di sostenere, godere e ammirare i sorrisi degli altri. Ma a volte i miracoli, qualche uomo ancora li compie. 

Articolo* e foto di IRENE GIANESELLI

*Questo articolo è stato pubblicato su Globalist.it in una prima versione il 29 aprile 2018

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