Il mio nome è Nessuno

Ninguém aveva gli occhi grandi e arrotondati, la pelle nerissima da africano purosangue, e una zazzera arricciata sul cranio. Quante di quelle persone a cui lustrava le scarpe dalla mattina alla sera sapevano il suo vero nome? Nessuno, probabilmente. Nessuno era anche il nome con cui era conosciuto – Ninguém, in portoghese, significa appunto “nessuno” – ma non era una citazione omerica, piuttosto una condanna, per la verità comune a molti ragazzi come lui, nati nel ghetto di Mafalala a Lourenço Marques, Mozambico. Poco più in là stavano i quartieri degli indiani, arrivati via nave da Goa, e poi, lontanissimi, i quartieri ricchi e puliti di quegli esigui bianchi che si erano trasferiti laggiù per gli affari coloniali.

L’Estado Novo di Salazar si vantava del suo multiculturalismo. I tempi erano cambiati, dopo il 1945: il fascismo aveva un senso solo nell’ambito della grande lotta dell’Occidente al comunismo, e i portoghesi avevano dovuto fare come gli spagnoli, ammorbidire la propria immagine internazionale. Ma per le strade di Lourenço Marques, se eri nero, la tua vita era già segnata. Però i bianchi della Madre Patria avevano ambizioni sportive, frustrate da una nazionale di infimo valore. Così, i portoghesi avevano scoperto che os negros ci sapevano fare, col pallone. Negli anni Cinquanta, Matateu faceva impazzire le difese europee (e segnava un gol anche all’Italia, nel 1957), poco più tardi Mario Coluna si imponeva come uno dei principali fuoriclasse del continente. Erano entrambi, ovviamente, di Lourenço Marques.

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Sebastião Lucas da Fonseca, in arte Matateu: fu la stella del Belenenses degli anni Cinquanta e il primo grande calciatore africano della storia.

Poi c’erano i brasiliani, che non erano portoghesi ma parlavano la stessa lingua, e i loro giocatori più forti erano neri, nipoti di africani strappati dall’Angola, dal Mozambico, da Capo Verde, e trapiantati in Sudamerica. Ademir, Jair, Zizinho, Didì, Djalma Santos: leggende verdeoro ai Mondiali del 1950 e del 1954. Non era un caso che, quando finiva di lucidare scarpe, Ninguém tornasse di corsa a Mafalala, riunisse gli amici, e inscenasse partite di calcio del loro club improvvisato, Os Brasileiros.

Si giocava scalzi perché le scarpe costavano, e si tiravano pedate a un pallone di terz’ordine. Ognuno, di ritorno dai lavoretti nei quartieri benestanti, raccoglieva pagine di vecchi giornali, che venivano accartocciati fino ad assumere una forma più o meno rotonda, quindi infilati dentro un calzino, che veniva poi annodato alla cima. Ninguém non poteva permettersi nulla di meglio, lui che era figlio di un angolano impiegato presso le ferrovie nella bellissima stazione della capitale, e di una mozambicana che si barcamenava come poteva. Quando, nel 1950, suo padre morì per il tetano, mamma Elisa dovette ricorrere a innumerevoli sacrifici, e Ninguém divenne anzitempo uomo di casa, a soli otto anni, assieme ai suoi tre fratelli maggiori.

Il calcio restava un sogno. Nel 1957 sostenne un provino con il Grupo Desportivo. E se entravi lì e facevi bene, poi passavi al Benfica, cioè a Lisbona, e voleva dire un contratto vero, soldi veri. Ma Ninguém si presentò così com’era: senza scarpini, senza maglietta, senza calzoncini, senza borsone. Fu rimandato a casa prima ancora di poter toccare il suo primo pallone di cuoio. Il secondo provino lo dovette fare, allora, con i rivali cittadini dello Sporting. Due palleggi e fu preso, senza il minimo dubbio. Pochi mesi più tardi, appena quindicenne, divenne capocannoniere del campionato mozambicano.

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Il lungomare di Lourenço Marques nel 1960, popolato dai volti bianchi dei colonizzatori portoghesi.

Ora, cosa ci facesse sulla panchina di una squadretta africana degli anni Cinquanta Ugo Amoretti – leggenda del calcio ligure, ex-portiere di Fiorentina e Juventus, nonché in una sola occasione della nazionale azzurra – non lo si è ben capito. Le informazioni a riguardo sono talmente sparute che viene il sospetto che si tratti solo di una leggenda nata chissà come. Ma Amoretti – uno che aveva giocato con Luisito Monti, Mario Varglien e Felice Borel – un talento come quello di Ninguém lo sapeva riconoscere al volo. Telefonò in Italia e cercò di proporlo a diverse sue ex-squadre, come Sampdoria e Juventus, ma nessuno se la sentiva di prendere un africano così a cuor leggero. Sì, certo, campioni neri ce n’erano stati – Andrade, la maravilla negra del grande Uruguay degli anni Trenta, tanto per dirne uno – ma neri e africani mai, gli africani forse non sapevano neppure cosa fosse, il calcio. Non se ne fece nulla.

Ci provò allora Bauer. Mediano gigantesco, nero seppur di padre svizzero, Bauer era stato la colonna del centrocampo del Brasile vicecampione del mondo nel 1950, e dieci anni più tardi si trovava in Mozambico come osservatore per il San Paolo, che passava dall’Africa di lingua portoghese per una serie di amichevoli. Nel match contro i brasiliani, Ninguém fece due reti, Bauer lo segnalò subito ai suoi dirigenti, ma anche in Brasile non è che i calciatori africani fossero ben visti. Saprà veramente giocare a calcio? Ne abbiamo veramente bisogno? Non se ne fece nulla. Ma Bauer ci credeva, e allora passò la sua velina a un vecchio allenatore ungherese giramondo che qualche anno prima era stato sulla panchina paulista, Béla Guttmann.

Nel 1960, Ninguém lasciava le strade sudice e desolate di Mafalala per Lisbona. Guttmann era interessato a vederlo dal vivo, e per farlo era disposto a spingere il suo club, il Benfica, a entrare in contrasto con lo Sporting Lisbona, che di fatto deteneva i diritti di cartellino di quell’attaccante africano. Iniziava così una nuova fase della sua vita, in Europa avrebbe iniziato fin da subito ad essere sempre meno ninguém per diventare finalmente qualcuno, noto con il suo nome d’anagrafe, una volta tanto: Eusébio da Silva Ferreira, o per brevità Eusébio.

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Béla Guttmann regge la Coppa dei Campioni vinta dal Benfica nel 1962, affiancato da Eusébio e Coluna.

Nel frattempo, il Mozambico cambiava. Due anni dopo la sua partenza nasceva il FRELIMO, all’interno dei cui ranghi iniziava a farsi largo Samora Machel. Nel 1964 sarebbe iniziata una guerra civile durata un intero decennio, conclusasi infine con l’indipendenza dal Portogallo. Lourenço Marques cambiò nome in Maputo. Eusebio restò per tutti Eusebio, a Pérola Negra (la Perla Nera), e da figlio delle colonie divenne padre nobile del calcio portoghese, ma quella parte della storia la conoscono già tutti.

Storia originariamente pubblicata su Footbal Pills.