ATTUALITÀ

ANTONIO GRAMSCI, INTERPRETE DELLA MODERNITÀ. INTERVISTA AL DOTT. LEONARDO POMPEO D’ALESSANDRO

La città di Cesena ha dato il via al nuovo anno offrendo un tributo interessante e particolarmente prezioso alla memoria di una delle più spiccate personalità della storia politica italiana del Novecento; proprio qui, presso la Biblioteca Malatestiana, il 17 gennaio 2019 è stata inaugurata l’esposizione “Gramsci. I quaderni del carcere e le riviste ritrovate“.

Un’occasione di incontro, di riflessione e di divulgazione del pensiero e dell’opera gramsciana fortemente voluta dall’amministrazione comunale della ridente cittadina romagnola che, fregiandosi dell’organizzazione dell’associazione MetaMorfosi, del patrocinio della Regione Emilia Romagna, e dell’indispensabile contributo della Fondazione Gramsci in collaborazione con la Fondazione Casa Gramsci di Ghilarza e con la Fondazione Radici della Sinistra di Cesena, ha dato vita ad un fermento culturale assai degno di nota e ad un percorso di conoscenza collettivo, peraltro già cominciato con precedenti iniziative che di città in città sono andate arricchendosi di spunti e materiali nuovi.

Si amplia ulteriormente la mostra di Cesena con l’esposizione inedita, accanto a “I Quaderni”, delle riviste lette da Antonio Gramsci tra il 1907 e il 1914, gli anni del ginnasio e del liceo in Sardegna e poi della Facoltà di Lettere all’Università di Torino, e rinvenute solo lo scorso anno nella soffitta della casa di Ghilarza; si tratta di materiale fondamentale che, grazie al fortunoso rinvenimento, potrà fornire a studiosi ed appassionati una visuale ancora più ampia ai fini della lettura e della comprensione della formazione di Gramsci e della sua produzione letteraria.

Peraltro Antonio Gramsci si avvicinò al giornalismo attivo proprio negli anni del liceo, grazie al suo docente di lettere italiane, Raffa Garzia, direttore del quotidiano L’Unione Sarda. Con Garzia Gramsci instaurò subito un’intesa destinata ad andare oltre il rapporto di mero discepolato, visitò in più occasioni la redazione del giornale, meritò nel 1910 la tessera di giornalista ed il 25 luglio di quello stesso anno pubblicò proprio sulla testata diretta dal Garzia, il primo pezzo a sua firma.

Che Gramsci sia un personaggio decisamente noto nel panorama storico e politico del Novecento è un dato di fatto, al punto da indurre qualcuno a sostenere che “ormai lo conoscono anche quelli che non lo hanno mai letto”; ma quanto sia altrettanto e davvero conosciuto è cosa ben più difficile a dirsi. Certo è che si tratta di una figura che da sempre attira l’attenzione degli studiosi e degli storici, per lo spessore e l’attualità del suo pensiero.

Il “maggior storico della storia italiana”, “il più celebre marxista-leninista indipendente del periodo staliniano”, il grande teorico del “potere culturale”, l’uomo dall’aspetto sgraziato ma dall’intelligenza acuta e sopraffina, il politico che coniuga “il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà”, lo storico, il teorico, l’educatore, l’Individuo che ci insegna che “solo la verità è rivoluzionaria”, che ci racconta la vita, che muore per dire no al fascismo; l’Uomo per il quale anche il cielo piange lacrime amare, in occasione del suo funerale.

Ma chi è Antonio Gramsci? Ce lo racconta il Dott. Leonardo Pompeo D’Alessandro, membro del Consiglio di indirizzo della Fondazione Gramsci, componente della redazione dell’Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, studioso e ricercatore che da diversi anni si occupa dello studio della biografia del personaggio, con la passione che lo contraddistingue.

Buongiorno Dott. D’Alessandro, darei il via alla nostra chiacchierata chiedendole, innanzitutto, chi è oggi Antonio Gramsci e qual è la sua eredità?

Buongiorno a Voi. Mi pare davvero un’ottima domanda per cominciare a parlare di Gramsci!

È ormai una consuetudine per gli studiosi sostenere che Gramsci sia divenuto un classico del pensiero politico del Novecento. Come ha affermato lo storico Silvio Pons in occasione della commemorazione di Gramsci alla Camera dei deputati per l’ottantesimo anniversario della sua morte (aprile 2017), Gramsci è «entrato a far parte del panorama delle culture globali del nostro tempo». Basta gettare uno sguardo sugli innumerevoli studi gramsciani nel mondo scorrendo gli oltre ventimila titoli in 41 lingue raccolti nella Bibliografia gramsciana online per rendersene conto.

Il suo pensiero non è dunque patrimonio esclusivo di una ristretta cerchia di studiosi, ma è citato, utilizzato (e in alcuni casi travisato) anche da scrittori, fumettisti, registi, blogger, giornalisti, pittori, scultori, graffitari, che ne hanno fatto una vera e propria icona. Negli ultimi anni anche le mostre sulla sua figura e la sua opera si sono moltiplicate. Insomma, Gramsci è quello che si dice un patrimonio collettivo, non solo in Italia. Ma Gramsci è in primo luogo un autore italiano, con ciò intendendo non solo che egli vada collocato nel tempo in cui ha vissuto, in quelle battaglie politiche e ideali, ma anche che è quella la chiave più genuina per comprendere appieno i nessi tra il suo pensiero e la sua vicenda biografica. Da questo punto di vista, sebbene sia impossibile scindere e distinguere, possiamo parlare di un’eredità intellettuale, quella dei Quaderni del carcere (ma anche delle Lettere dal carcere) e di un’eredità storico-politica, quella del dirigente del maggiore partito di opposizione al regime fascista che proprio per mano del fascismo avrebbe poi trovato la morte.

Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto della sua biografia. Nella tarda sera dell’8 novembre 1926 Gramsci, a capo del Partito comunista d’Italia e deputato dal 1924, venne tratto in arresto e tradotto nelle carceri dell’Italia fascista ove rimase in stato di prigionia e poi di semilibertà praticamente fino alla morte. Cosa ci dice in merito a questa pagina decisiva della vita di Gramsci? 

Quando Gramsci viene tratto in arresto non ha ancora compiuto trentasei anni. La sua figura emerge nel periodo della direzione della rivista “L’Ordine nuovo”, animatrice delle lotte operaie a Torino nel dopoguerra. Come lei ha giustamente ricordato, dalla metà di agosto del 1924 era segretario del Partito comunista e allo stesso anno (in aprile) risale la sua elezione alla Camera dei deputati, dove nel maggio dell’anno successivo pronunciò il suo unico discorso parlamentare contro il disegno di legge Mussolini-Rocco sulle associazioni segrete.

Anche a seguito di un mandato di cattura spiccato contro di lui, trascorre gli ultimi due anni fuori dall’Italia, prima a Mosca, dove si era confrontato con i maggiori dirigenti del comunismo internazionale (tra cui Lenin), e poi a Vienna, dove aveva riversato gran parte delle sue energie nella organizzazione del nuovo gruppo dirigente del Partito comunista in contrapposizione alla segreteria di Amadeo Bordiga.

Quando torna in Italia, nel maggio 1924, è proprio l’elezione alla Camera che gli garantisce l’immunità parlamentare nei confronti del mandato di cattura che pende sulla sua testa. Non avviene lo stesso in quel novembre del 1926 da lei ricordato. Gramsci è arrestato a Roma, nella sua abitazione di via Morgagni, la sera dell’8 novembre. Nelle stesse ore viene arrestato gran parte del gruppo parlamentare comunista, composto da 19 deputati. Per il giorno successivo è prevista, dopo cinque mesi, la riapertura della Camera e Mussolini è pronto a far approvare i “provvedimenti per la difesa dello Stato” che prevedono, tra l’altro, la reintroduzione della pena di morte e l’istituzione di un Tribunale cosiddetto “speciale”, controllato dallo stesso Mussolini e funzionale a reprimere l’attività antifascista.

In quella stessa giornata del 9 novembre furono dichiarati decaduti 123 deputati dell’opposizione sulla base di una mozione approvata del tutto illegittimamente in dispregio delle norme statutarie. D’altronde, una parte di essi, e tra questi Gramsci, erano già stati arrestati e a nulla valsero i richiami all’immunità parlamentare e le denunce che si stesse procedendo in evidente violazione delle leggi vigenti.

Gramsci finisce nel carcere giudiziario di Regina Coeli in assoluto isolamento; poi è mandato al confino, a Ustica, in attesa dell’entrata in vigore della legge istitutiva del nuovo Tribunale speciale che per una parte degli italiani di idee avverse al regime significò la fine dello Stato di diritto.

Perché per Gramsci e gli altri deputati non fu possibile fare appello all’immunità parlamentare che pure era garantita dallo Statuto Albertino del 1848?

Vale la pena soffermarsi brevemente su questo aspetto, tanto più che oggi l’immunità parlamentare è vista e interpretata dai cittadini come uno strumento di privilegio dei deputati (e spesso, peraltro, i deputati la vivono come tale).

In realtà all’epoca l’immunità, garantita dall’art. 45 dello Statuto Albertino, era uno strumento giuridico che mirava a limitare le ingerenze dell’esecutivo e a tutelare i deputati dalla presunta insufficienza di garanzie dell’ordine giudiziario.

Nel tempo, e almeno fino all’affermazione del fascismo, riuscì a garantire l’ampliamento della rappresentanza parlamentare a nuovi e diversi strati sociali prima esclusi dalla vita politica. Uno strumento di estensione della democrazia, insomma. Tutto ciò venne meno proprio in quel novembre 1926, data in cui il regime fascista si stabilizza definitivamente in una dittatura.

“Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare” aveva affermato il pubblico ministero Michele Isgrò durante il processo celebrato davanti al Tribunale Speciale che condannò Gramsci ad oltre vent’anni di reclusione. Perché era così importante per il regime privare Gramsci non solo della libertà, ma anche e soprattutto della dignità umana e culturale?

In realtà, andrebbe anzitutto dissodato il campo da quello che viene solitamente presentato come un fatto storico certo, ma che in realtà tale non è. Per quanto, infatti, la frase del pubblico ministero da lei giustamente richiamata sia spesso citata quando si parla della condanna di Gramsci (basta digitarla su un qualsiasi motore di ricerca per rendersene conto), in realtà non siamo certi che Isgrò l’abbia pronunciata. Si può ipotizzare che sia stata annotata e poi divulgata dai pochi testimoni presenti al dibattimento. In ogni caso, dai sommari verbali del processo la frase non risulta e se andiamo a consultare i resoconti dei giornali dell’epoca, ad esempio il Corriere della sera del 3 giugno 1928, leggiamo che Isgrò “invita i giudici ad esser severi” perché la sentenza avrebbe dovuto “essere d’esempio per i nemici della Patria”. Ma non troviamo quella frase, che invece, a quanto risulta, fu utilizzata per la prima volta da Palmiro Togliatti in un saggio dal titolo “Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana”, pubblicato nel 1938 in un volume destinato, dopo la morte di Gramsci, a fissarne la figura di “capo” e “maestro”.

Tra le maggiori accuse contro Gramsci vi era quella di aver commesso atti diretti a suscitare la guerra civile in Italia. Con lui, fu condannato l’intero gruppo dirigente del partito comunista. Poco importava al regime che le prove raccolte non bastassero a suffragare la condanna. Va ricordato che in quasi diciassette anni, dal 1927 al 1943, furono deferiti al Tribunale speciale poco meno di 16.000 antifascisti e che nello stesso periodo ne furono inviati al confino politico oltre 12.000. Molti furono invece gli antifascisti costretti all’esilio. Un’attività repressiva consistente, nella cui rete finirono, tra gli altri, personalità come Umberto Terracini e Sandro Pertini, solo per ricordare due delle figure che hanno contribuito alla vita democratica dell’Italia dopo la caduta del fascismo: il primo in qualità di presidente dell’Assemblea costituente e il secondo come presidente della Repubblica.

Peraltro, non occorreva essere degli antifascisti attivi per finire in prigione, bastava anche solo aver pronunciato in pubblico una frase contro il regime o contro lo stesso Mussolini. Per questo, la rete dei delatori organizzata dal fascismo era davvero impressionante.

Certo, i comunisti erano maggiormente perseguitati per la loro capacità di riorganizzare l’azione clandestina all’interno del paese. Ancora nel 1933 in un discorso ai giudici del Tribunale speciale lo stesso Mussolini riconobbe che “i comunisti non si rassegnano al fatto compiuto”. E aggiunse: “È questione di vita o di morte: o loro, o noi”.

Eppure durante gli anni della detenzione è nota l’intensa attività intellettuale di Gramsci, sebbene il suo corpo fosse particolarmente provato dalle pessime condizioni di salute che andavano via via aggravandosi. Cosa spingeva Gramsci a leggere e a scrivere?

Direi in primo luogo l’interesse per il mondo che lo circondava, per il modo in cui esso stava mutando e si stava aprendo alla modernità.

Quando è arrestato, Gramsci non può prevedere quanto sarebbe durata la sua permanenza in carcere e già nei giorni successivi alla condanna al confino egli teme che una lunga detenzione avrebbe potuto provocargli una sorta di “abbrutimento intellettuale”, come scrive all’amico economista Piero Sraffa, che di lì a poco si sarebbe trasferito a Cambridge.

Sull’isola di Ustica egli organizza quindi, insieme a Bordiga, una scuola per confinati e dopo il suo trasferimento a Milano, in attesa del processo, comunica il suo proposito di dedicarsi ad alcuni studi e ricerche secondo un piano organico. Agli inizi del marzo 1927 inoltra un’istanza per avere nella sua cella la penna, l’inchiostro e la carta “per scrivere dei lavori di carattere letterario”, ma non ottiene l’autorizzazione. Il permesso di scrivere giunge soltanto nel gennaio 1929, sei mesi dopo il suo trasferimento nella Casa penale per minorati psichici e fisici di Turi, in provincia di Bari, dove vi rimane (matricola 7047) per oltre cinque anni.

La pagina iniziale del primo dei quaderni che egli scrive reca la data dell’8 febbraio e sotto il titolo Note e appunti riporta i 16 “argomenti principali” che intendeva trattare, che andavano ben oltre il suo piano iniziale.

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Un programma di ricerca ambizioso al quale egli lavora prevalentemente nel periodo di detenzione a Turi, fino al novembre 1933, quando, a causa delle pessime condizioni di salute, è trasferito nella clinica di Formia e poi, dopo aver ottenuto la libertà condizionale nel novembre 1934 grazie all’amnistia del decennale della Marcia su Roma, nella clinica Quisisana di Roma. Ma negli ultimi anni il suo lavoro, portato avanti a fatica, si era andato diradando.

Il risultato, dopo la sua morte, furono 33 Quaderni scritti con una calligrafia fittissima e allo stesso tempo chiara, con pochissime cancellature.

Come aveva organizzato in carcere il suo lavoro di studio e di scrittura?

La chiarezza della calligrafia e le pochissime correzioni contenute nei Quaderni sono il frutto di un metodo di lavoro che Gramsci, come ricordano diverse testimonianze, adoperava già ai tempi della sua attività giornalistica: egli, cioè, componeva mentalmente gli articoli e poi, all’ultimo momento e senza esitazioni, li scriveva.

Gustavo Trombetti, il detenuto che nel 1932 è a stretto contatto con lui nel carcere di Turi, ha ricordato che Gramsci in carcere leggeva, scriveva, spesso andava su e giù per la cella “concentrato nei suoi pensieri. Poi, all’improvviso, si fermava, scriveva ancora poche righe sul quaderno e riprendeva a camminare”.

In un primo tempo, per mettere “ordine nei [suoi] pensieri” ˗ così Gramsci scrive alla cognata ˗ si dedica esclusivamente alle traduzioni dal tedesco, fa alcuni esercizi di lingua e traduce da un’antologia scolastica per lo studio della lingua russa. Può contare sul conto illimitato che l’amico Sraffa gli ha aperto presso la libreria internazionale Sperling & Kupfer di Milano. In base al regolamento carcerario, chiede e ottiene dal direttore del carcere il permesso di poter leggere alcuni quotidiani e riviste. Presto, però, nuove restrizioni glielo impediscono.

Nonostante le condizioni proibitive, nel novembre 1930 è animato dalla voglia di scrivere: “ogni cosa importante che leggo mi eccita a pensare: come potrei costruire un articolo su questo argomento? Immagino un cappello e una coda piccanti e una serie di argomenti irresistibili, secondo me, come tanti pugni in un occhio e così mi diverto da me stesso”.

Dal 1929 al 1932 esegue le traduzioni e redige note di vario argomento e poi si dedica alla costruzione di quaderni che lo stesso Gramsci definisce “speciali”, cioè di carattere monografico, in cui parte di quel che ha già scritto viene ripreso e rielaborato in seconda stesura. Man mano che le note vengono riordinate negli “speciali”, Gramsci barra con tratti di penna molto larghi (per permettere comunque la lettura del contenuto alle guardie carcerarie) le pagine contenenti le vecchie note. Chi sfoglia i Quaderni ha l’impressione di trovarsi di fronte a dei normali e semplici manoscritti, in realtà, come ha scritto Gianni Francioni, il curatore della nuova edizione critica dei Quaderni del carcere per l’Edizione nazionale degli scritti di Gramsci, “si tratta di pagine falsamente limpide, e i quaderni si rivelano un vero e proprio labirinto nel quale è facile perdersi”.

Ci può dire, in breve, quali sono i temi principali trattati nei Quaderni?

Una sintesi non certo facile. Basta dire che il programma di ricerca dei Quaderni ha origine dalla riflessione sulle conseguenze della sconfitta della rivoluzione socialista in Europa nei primi anni Venti, sulle ragioni del successo del fascismo e sul mutamento della natura e della funzione internazionale dell’Urss in seguito alla “rivoluzione dall’alto” condotta da Stalin.

Attraverso i concetti di“guerra di posizione”, “rivoluzione passiva”, “egemonia” Gramsci non solo intraprende un’analisi differenziata delle due forme di totalitarismo che tengono il campo nell’Europa fra le due guerre, il fascismo e il nazismo in occidente e la dittatura del proletariato in Urss; ma nelle note su Americanismo e fordismo riconduce le vicende della storia mondiale all’espansività dell’industrialismo di tipo americano che Gramsci giudica il più progressivo.

Nella sua visione la contraddizione principale dell’età contemporanea è nel contrasto fra il cosmopolitismo della vita economica e il nazionalismo della vita politica, fondata ancora sulle prerogative dello Stato-nazione. La prima guerra mondiale era scaturita dalla incapacità delle classi dirigenti di risolvere quel contrasto. I tentativi di soluzione seguiti alla guerra – la rivoluzione mondiale progettata dai bolscevichi e la creazione della Società delle nazioni proposta da Wilson – erano presto falliti e ancora una volta il contrasto fra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica aveva dato origine alla grande crisi economica del 1929-32. La soluzione, per Gramsci, andava cercata in una politica che fosse in grado di tenere insieme sviluppo e democrazia.

In definitiva, il pensiero di Gramsci in carcere racchiude un nesso di problemi divenuti ancor più stringenti dopo la seconda guerra mondiale. Sono i problemi della globalizzazione dell’economia e del suo impatto sui sistemi nazionali. Se guardiamo al dibattito politico attuale, su scala mondiale, ci si rende facilmente conto di come i problemi affrontati e le soluzioni proposte da Gramsci siano ancora di una pregnante utilità.

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Tra le persone importanti nella vita di Gramsci un posto speciale merita senza dubbio la cognata Tatiana, sorella dell’amata moglie Giulia Schucht. Era proprio attraverso Tatiana che Gramsci intratteneva i suoi contatti con l’esterno. Cos’ha fatto Tatiana per Gramsci, o cosa non ha fatto e cosa conosceremmo oggi di “Nino” se Tania non fosse mai esistita?

Tatiana giunge in Italia seguendo le sorti della famiglia, che aveva lasciato l’impero zarista per motivi politici. Arriva a Roma nel 1908, dunque ben prima di conoscere Gramsci, con il quale, invece, entra in rapporti solamente nel 1925 per aiutarlo in alcuni lavori di traduzione.

Dall’arresto, Tatiana assiste materialmente e moralmente Gramsci durante tutto il periodo della detenzione e poi durante il ricovero in clinica, fino alla morte. Dal 1929 ne diviene la principale corrispondente. È attraverso Tatiana che il detenuto riesce a comunicare con il mondo esterno, con il mondo degli affetti, ma anche con quello politico. È lei infatti che inoltra la corrispondenza ai familiari e che trascriveva le lettere da inviare a Sraffa, il quale, a sua volta, le inoltra ai dirigenti del partito comunista italiano.

Alla morte di Gramsci è ancora Tatiana a salvare i Quaderni, l’archivio di Gramsci e la sua biblioteca, mettendo tutto in salvo a Mosca. Senza quest’opera di salvaguardia non sappiamo quale sarebbe stata la sorte dell’eredità politica e letteraria di Gramsci. Tania è dunque una figura centrale nella vita carceraria del detenuto e grazie a recenti studi sta emergendo sempre più nella sua complessità.

La carcerazione di Gramsci spezzò irreparabilmente la relazione sentimentale con Giulia, dalla quale ebbe due figli. Attorno alla figura di Giulia si adombrano dubbi, misteri e questioni controverse, legate all’amore che le fu negato dalle evenienze, alla lontananza obbligata dal suo compagno di vita, al sopravvenire della nevrosi mentale, all’antagonismo ed alla gelosia nutrita nei confronti della sorella Tania, la quale, dopo l’arresto di Gramsci possiamo dire che rivestì il ruolo della moglie legittima al suo posto. Ma Giulia aveva la sua identità, chi era Giulia e cosa rappresentava per Gramsci? 

“Siamo stati troppo poco insieme, e quel poco ancora l’abbiamo rubato al caso: la nostra felicità era un contrabbando del giorno per giorno, goduto in una misteriosa capanna della foresta. Ciò ha lasciato troppo rimpianto in tutto il nostro essere, troppe vibrazioni che continuavano e continuano ad agitarci insoddisfatte”.

Questa lettera scritta da Gramsci a Giulia il 16 aprile 1924 ben rappresenta la complessità di questo amore, che per Gramsci fu totalizzante.

Giulia era nata a Ginevra nel 1896 e, come la sorella Tania, aveva seguito la famiglia in Italia, dove aveva studiato violino all’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Torna a Mosca nel 1915 e qui, nel settembre 1922 conosce Gramsci.

In realtà, in un primo tempo Gramsci si era invaghito, di un amore corrisposto, dell’altra sorella di Giulia, Eugenia, ricoverata come Gramsci nel sanatorio di Serebrjiani Bor. In ogni caso, quando alla fine del 1923 Gramsci lasciò Mosca per trasferirsi a Vienna, Giulia era già incinta del loro primo figlio Delio (che nascerà nell’agosto del 1924). Così le scrive il 13 gennaio 1924: “Spesso mi struggo di non poterti abbracciare, di non sentirti vicina, buona, buona, tanto cara, di non poterti abbracciare e accarezzare lungamente. Non posso stare senza di te. La mia vita che aveva ripreso a rinverdire con te, per te, qualche volta mi pare che nuovamente si dissecchi e sia amara tanto. Ma passerà, ci incontreremo ancora”.

Gramsci e Giulia si rivedono poi nel 1925, tra marzo e aprile quando Gramsci si reca a Mosca per partecipare ai lavori del V Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista; e poi ad ottobre, quando Giulia con Delio e la sorella Eugenia lo raggiungono a Roma dove rimangono fino all’agosto 1926. La decisione di fare ritorno in Unione Sovietica è dovuta anche alla seconda gravidanza di Giulia (Giuliano nascerà a Mosca nell’agosto del 1926 e Gramsci non potrà mai conoscerlo).

Un rapporto profondo, ma poco vissuto che negli anni del carcere si alimenta solo tramite una corrispondenza altalenante e discontinua. Gramsci se ne lamenta più volte, tanto che il 6 ottobre 1930 le scrive: “Nella nostra corrispondenza manca appunto una “corrispondenza” effettiva e concreta: non siamo mai riusciti a intavolare un “dialogo”: le nostre lettere sono una serie di “monologhi” che non sempre riescono ad accordarsi neanche nelle linee generali”.

Epistolario

Due furono i figli nati dall’amore per Giulia Schucht, Delio e Giuliano. Proprio per i due figli, durante la prigionia, Gramsci – privo dei contatti con il mondo esterno, attraverso confini non fisici ma decisamente dilatati del suo mondo interiore – scrisse delle favole e rielaborò una raccolta di storie popolari per fanciulli che egli intese reinterpretare per adattarle al contesto socio-politico del suo tempo. Gramsci non era un pedagogista, né aveva vissuto in un mondo di favole, anzi tutt’altro; ma allora perché scrivere un delle favole per i propri figli? Cosa avrebbero dovuto apprendere da quelle favole?

Forse, come dice lei, Gramsci non ha vissuto in un mondo di favole, ma la curiosità e la fantasia non gli mancavano essendo un precoce e vorace lettore. È lo stesso Gramsci a scrivere nelle sue lettere che “a 7 anni [aveva] letto Robinson e l’Isola Misteriosa” e con la sorella Teresina “divoravano i libri” soffrendo di “non averne abbastanza a disposizione”. Le suggestioni gli giungono dai classici di quella letteratura per ragazzi: come ricorda alla madre, da piccolo parlava “sempre di brigantini, sciabecchi, tre alberi, schooners, di bastingaggi e di vele di pappafico”, conosceva “tutte le fasi delle battaglie navali del Corsaro Rosso e dei Tigrotti di Mompracem, ecc.”.

Il suo autore preferito era Kipling, con i racconti della giungla e la storia di Kim. È questo mondo che egli prova a comunicare ai suoi figli nelle lettere che invia loro dal carcere; un mondo fatto di falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini, canarini, fringuelli e allodole. “Ti scriverò un’altra volta ˗ scrive a Delio ˗ sul ballo delle lepri, dell’uccello tessitore e dell’orso, e su altri animali ti voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la storia del polledrino, della volpe e del cavallo che aveva la coda solo nei giorni di festa ecc. ecc. Mi pare che tu conosca la storia di Kim, le novelle della jungla e specialmente quella della foca bianca e di Rikki-Tikki-Tawi?”.

Ma Gramsci traduce in carcere anche alcune favole dei fratelli Grimm. E lo fa, in questo caso, pensando ai nipoti a Ghilarza (i figli della sorella Teresina). Per comprenderne i motivi, forse vale la pena rileggere lo stralcio di una lettera che Gramsci invia proprio alla sorella, nel gennaio 1932: “Ho tradotto dal tedesco, per esercizio, una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini e che anzi in parte rassomigliano loro, perché l’origine è la stessa. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera ecc. non è ancora penetrata abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro d’allora. Vedrò di ricopiarle in un quaderno e di spedirtele, se mi sarà permesso, come un mio contributo allo sviluppo della fantasia dei piccoli”.

È questo, complessivamente, un modo attraverso il quale Gramsci tenta di partecipare allo sviluppo cognitivo dei suoi figli e dei suoi nipoti, per mettersi in connessione con loro, seppur a distanza.

Gramsci si spegne all’alba del 27 aprile 1937 nella clinica Quisisana a Roma all’età di soli quarantasei anni. È sorvegliato e piantonato, sino al momento della morte pur essendo in stato di semilibertà, ma non è assistito con la dovuta perizia e diligenza medica nonostante le sue condizioni siano gravissime e rese ancor più estreme da una emorragia cerebrale sopraggiunta negli ultimi giorni prima della dipartita. Muore per il partito, per i suoi ideali, per le sue convinzioni, per la necessità di non rinnegarsi, per la libertà di pensiero; addolorato per l’assenza della moglie Giulia della quale ignora le condizioni di salute, ma con l’assistenza costante ed assidua della cognata Tania. Muore ammazzato dal regime. Pensa che la morte di Gramsci possa considerarsi una vittoria per il fascismo?

Gramsci muore pochi giorni dopo aver ottenuto la piena libertà. Sperava dipoter raggiungere Giulia e i figli a Mosca dopo una breve permanenza in Sardegna.

Le sue condizioni di salute si erano aggravate nel corso del 1933. Il medico che allora lo visita gli diagnostica il morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare e dal referto risulta che aveva perduto molti denti e diversi chili; in quelle condizioni, sostenne il medico, non avrebbe potuto sopravvivere a lungo.

In clinica la situazione era migliorata, ma ormai il fisico era minato. Due settimane dopo la morte compare su Il Messaggero un articolo anonimo, ma attribuito a Mussolini, in cui si arriva ad affermare che Gramsci aveva comunque potuto “terminare i suoi giorni in una soleggiata clinica di Roma”.

In realtà la sua morte lo aveva definitivamente trasformato in un’icona, un martire dell’antifascismo. D’altronde, già prima di morire la sua immagine era divenuta, insieme a quella di altri antifascisti imprigionati dal regime, un simbolo nelle manifestazioni contro il fascismo che si tenevano all’estero.

Da questo punto di vista non credo, dunque, che la morte di Gramsci fu una vittoria del fascismo. Anzi, al contrario, dopo alcuni anni si avverano le parole che, secondo alcune testimonianze, Gramsci avrebbe pronunciato contro il fascismo nel corso del processo a suo carico nel maggio 1928: “Voi condurrete l’Italia alla rovina e a noi comunisti spetterà di salvarla!”.

Ed effettivamente, dopo aver sconfitto i fascisti in una sanguinosa guerra civile, tocca ai comunisti, e più in generale agli antifascisti, ricostruire le basi democratiche e civili del Paese. Pochi mesi dopo la Liberazione, nel giugno 1945, a Montecitorio si tiene una cerimonia commemorativa di Gramsci con la collocazione del suo ritratto in marmo nel Corridoio dei busti assieme a quello di Giovanni Amendola e Giacomo Matteotti.

Gramsci era divenuto un simbolo della nascente democrazia italiana.

 

N.B. Si ringrazia sentitamente la Fondazione Gramsci onlus per aver concesso a Metis Magazine l’utilizzo delle immagini di cui alla su estesa intervista.

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