“Ai bordi di un quadrato senza lati” di Marco Onofrio, Marco Saya Edizioni, letto da Dante Maffìa

copertina AI BORDIIn qualche piega delle opere di Orazio si può leggere che cosa pensa delle pagine dense e di quelle anoressiche. Non ci sono condanne, soltanto la raccomandazione che siano vere, profonde, caustiche, libere e focosamente leggere. Leggendo Ai bordi di un quadrato senza lati (Marco Saya Edizioni, 2015, pp. 80, Euro 10) si ha l’impressione che Marco Onofrio abbia preso alla lettera la raccomandazione di Orazio, ovviamente portandola verso la densità, l’irruenza, la pienezza, com’è nel suo carattere, nella sua inesauribile voglia di vivere e di agire. Ha le qualità necessarie per rendersi conto attimo dopo attimo di ciò che sta compiendo la sua scrittura (non si dimentichi che è autore ‒ poesia e narrativa a parte ‒ di illuminanti saggi su Dino Campana, su Giuseppe Ungaretti e su Giorgio Caproni, per fare soltanto qualche nome) e se ha scelto il concerto composito, spesso utilizzando i timpani, qualche ragione ci deve essere, forse più di una.

Intanto si nota che egli è stanco di avere vissuto gli ultimi decenni davanti a proposte poetiche che di poesia non avevano nulla, soprattutto non avevano la voce, il timbro, la cadenza, il ritmo, e non avevano l’anima. E dunque Onofrio vuole dimostrare invece che lui l’anima ce l’ha, ed è ampia e ricca, pronta a incantarsi e a sbalordirsi, a confrontarsi. Da qui la sfrenatezza del canto, che riesce a restare indenne da esibizioni e punta dritto alla coscienza del lettore. Non ho usato per caso la parola coscienza: per Onofrio la poesia, oltre che rivelazione estetica e possibilità di andare oltre il visibile, è anche messaggio che deve scuotere, che deve porre delle problematiche. Poesia civile, dunque, gridata, con voli che hanno del prodigioso, perché non era facile, come ha scritto giustamente Fabio Pierangeli, navigare “nel mare in tempesta della modernità, a bordo di un quadrato senza lati”. Metafora scintillante, che squarcia d’un colpo i veli del conformismo e scardina le assuefazioni, facendoci vedere il lato nascosto della realtà. Un’operazione simile, specificando che si tratta di tempi e modi diversi, la fece Gregory Corso quando si scagliò contro la società dei consumi e contro la muffa delle istituzioni corrotte e sfrenatamente abbarbicate nella indecenza del compromesso. Onofrio si muove nel grande fiume dei poeti che sanno protestare. Si sottolinei quel sanno che ci fa intendere le ragioni etiche del suo ragionare per versi. A volte però il ragionare scantona e diventa grido di angoscia che non trova la parola adatta per esprimersi in totale compiutezza, ed ecco che il poeta ricorre al pastiche, ai neologismi, agli orgasmi di parole inventate sull’onda di musiche che gli battono dentro e lo spingono a decifrare l’indecifrabile.

Una poesia così, anche se prende le mosse da lontano, anche se ha spesso movenze e “ragioni” teatrali, va oltre tutte le inutili diatribe del momento e dà inizio a una svolta che ormai ha bisogno di intemperanze. E di intemperanze (volute, cercate, insistite e giocate come un prestigiatore raffinato ed esperto) nel libro ce ne sono quante se ne vogliono: «E questo rovinio di piatti rotti / e cose volte, rotolate, perse / che entra con gli spifferi ai pensieri / delle fortune alterne»; «Sentivo fermentare la natura / costretta e rovinata / in dissolvenza / tra spurghi pestilenti di latrina / per le profonde forre, alla fiumara / le sponde gialle e bige / dell’assenza». «E vidi il sole che divorava il sole / pezzo a pezzo, in parti d’infinito / le palpitanti macule arancioni / sulla criniera a fuoco dei leoni / dal ruggito muto». Potrei continuare con molti esempi ma credo che si comprenda subito la maniera in cui il poeta ha portato avanti questo lavoro che soltanto a un lettore superficiale può sembrare eterogeneo. In realtà, a chiusura del volume resta l’impressione di avere attraversato un poema compatto, i cui fermenti, perfino deliranti, servono a dare l’idea di una società odierna che corre in direzioni opposte facendo la parodia a se stessa.

E che ci sia anche una piccola dose parodica in questo fluire di versi scintillanti è vero, ma solo per non essere infossati nella seriosità barbosa dell’accusatore tout court. Non si dimentichi lo stile di Marco Onofrio, la ricchezza del suo vocabolario, la dimensione universale che assegna a ogni poesia. Non si dimentichi neppure la consapevolezza del poeta vigile in ogni istante, anche se «L’immenso è troppo vasto / per farsi quietamente / una ragione».

Dante Maffìa

TUFFARSI

Basterebbe uno scatto di follia.
Una bestemmia di ribellione.
La forza di volerci come siamo
al di là di tutto.

Ogni accenno di rivoluzione
ci infervora a un dissenso
d’illusione, al fulgore inane
della vita, che cerchiamo vera.

Tuffarsi e via, lasciarsi andare
lungo il sottilissimo crinale
che separa l’ora dalla fine!

E il senso?

LA BESTIA

Le trombe spalancavano la luce
tagliando vasti cerchi di silenzio
il veleggiare ai falchi in alto fumo.
Formicolava l’aria degli scavi:
io scorsi in fondo al cielo le visioni
trascorrere nel vuoto universale
le ali remiganti, i folti stormi
passare ombre nere e poi cadere
tra gli ominosi gesti, i sortilegi
e il lembo sconfinato del sentore
non si lasciava intendere o afferrare
la preveggenza acuta e illuminante
indizi come più nefasti segni:
allora che più ardente la potenza
il palpitare ignoto della vita
la brace agli occhi accesi e roteanti
sputava dalla lingua biforcuta
apriva a forza varchi dentro muri
spallava monti, abbatteva ponti
seccava fumigando i gialli fiumi
e poi, scoccando le saette dai suoi archi
mieteva a frotte martiri innocenti
come le spighe verdi in mezzo ai campi:
e fece tenebra di notte a mezzogiorno
e il mondo più non vide cosa alcuna
e da se stesso ovunque il suo contorno
sparì nel lato opposto della luna.

Cercammo Dio: non c’era.
La bestia ci sorprese tutti quanti.
Di tante anime ritornò nessuna.

LA SCROFA

La morte ci tiene nel suo grembo
ci culla, madre della bocca
che usiamo per mangiare
baciare, parlare, vivere
del cielo che racchiude il nostro corpo:
la soglia da cui esce lo spirito, nel mondo
ed entra il vuoto dell’immensità
lungamente s’insinua, faticosamente
ovunque intorno a noi
è dentro noi. Soffia, mastica, grugnisce
ci impasta lentamente le budella.
È una scrofa che ci nutre
ci mangia, ci fotte, ci caca
ci semina, ci frutta, ci raccoglie.

Siamo i porci della morte:
rotoliamo nel fango
e mastichiamo i ruvidi diamanti
della sua beltà.
Ingrassiamo di dolore
per la baldoria guasta
di una festa grande
che verrà.

«Ascolta bene: è già con te, lì, qui.
Ti sta aspettando da una vita
oltre la porta del tuo ultimo respiro».

CERTE LUCI

Che cosa c’è stasera nei tuoi occhi?

Hai lo sguardo strano, e acceso
delle bestie che annusano la morte.
Il battito ti ha, ormai, nella fiamma
terribile del tempo. Sei avvolta
dal futuro che ti fa carbone.
Niente ti potrà salvare.

«Certe luci» dicevi «sarebbe meglio
non spegnerle mai».

Ma tutto – ricordi? – era ancora possibile:
fino a ieri, non so perché è cambiato,
le cose si piegavano a qualunque
desiderio, in fluttuazioni
liquide, in carni tenere
come le onde che si sfasciano
nel mare. Poi, il culmine estatico
coi suoi picchi di magnificenza:
e lo splendore della tua presenza
ti ha portato via, nella fiamma
terribile del tempo. Cantava cantava
il giallo misterioso dei limoni
contro il cupo ardore delle arance
e intanto vedevi sorgere
da dentro, sotto il manto d’aria
il bianco incenerito sulle guance:
l’argento degli ulivi si spargeva
ovunque, diventavi lo sguardo
del vuoto. Ora lo senti il profumo
del tempo, il suono che dorme
sotto i grandi alberi? Brillano ancora
le strisce di sole nell’erba. La gioia
è tutta nel segreto dell’attimo
che accende l’ultimo fulgore
prima della tenebra finale.

LO SPLENDORE

Lo splendore che tu vedi nelle cose
nasce dalla luce dei tuoi occhi.

L’universo brama eternamente
di specchiarti in Sé
se Lo rispecchi,
e ha bisogno della tua bellezza:
devi crescere,
essere migliore.

La forza dell’amore non finisce
col respiro ultimo dei morti:
al di là del muro che trattiene
l’infinita altezza nel profondo
c’è un mare senza porti, smisurato.
Tu racchiudi il mondo!

Imparerai a rinascere dal dono.
Ti spetta giusto quello che avrai dato,
specialmente quando non potevi.

Così ti riconosci nella vita
perché dovunque varia.
I tuoi occhi brillano, nel palpito
dei cieli, sono fatti d’aria.

OLTRE L’ORIZZONTE

L’aria si prolunga da ogni parte
dentro la rete dello spazio vuoto
dal mio corpo oltre l’orizzonte.

Che ci sarà dall’altra parte?
Chi mi attenderà?

In quale Africa del cielo, in quale Itaca
troverò me stesso?

Il sole sarà l’ultimo gradino
dopo il grande passo:
verso le sorgenti del mattino.

Marco Onofrio

3 commenti
  1. Eccellente recensione di un libro splendido.
    Mi compiaccio di aver scelto in privato, appena l’ho letto, alcune poesie che mi rendono vicina al sentire di Marco Onofrio: “Tuffarsi”, “Oltre l’orizzonte” e una che qui non è riportata, “Ore marine” (pag. 51).
    Giorgina Busca Gernetti

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