Tattica e etica

di György Lukács

[Taktika és etika, 1919] 

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972


Questo primo studio e i due successivi (Il problema della guida intellettuale e i «lavoratori intellettuali» e Che cos’è il marxismo ortodosso) furono scritti ancor prima della dittatura del proletariato. La mutata funzione dell’etica verificatasi con l’evoluzione della dittatura conferisce un valore documentario e storico al significato attuale di questi studi. Nel leggerli, fatta eccezione per l’ultimo, Partito e classe, occorre tener presente questa prospettiva (G. L., 1919).


Nell’azione politica, la posizione e il significato della tattica per ogni partito e per ogni classe variano, e di molto, in relazione alla struttura ed al ruolo storico-filosofico dei partiti e delle classi: se intendiamo la tattica come un mezzo per la realizzazione di obiettivi posti dai gruppi agenti, come una congiunzione tra obiettivo finale e realtà, si avranno delle differenze di fondo a seconda che tale obiettivo sia determinato come un momento situato all’interno o al di là della realtà sociale data. Questa immanenza o trascendenza dell’obiettivo finale cela anzitutto in sé tale differenza: che nel primo caso l’ordine legale esistente viene dato come un principio destinato a determinare necessariamente e normativamente il limite tattico dell’azione; nel caso di un obiettivo finale socialmente trascendente esso invece si presenta come pura realtà, come potere reale, e dover tener conto di esso può, al massimo, avere il senso di una convenienza rispetto allo scopo. Rileviamo questo significato di convenienza rispetto allo scopo nel caso attuale, perché un tale obiettivo finale qual era, ad esempio, quello della Restaurazione legittimistica francese, vale a dire di arrivare a riconoscere in qualsiasi modo l’ordine legale della Rivoluzione, somigliò piuttosto a un compromesso. Tuttavia, anche questo esempio mostra come i diversi obiettivi trascendenti nell’ambito della sociologia assolutamente astratta e spoglia di qualsiasi valore, vanno definiti su uno stesso piano. Così se la struttura sociale cui si mira esisteva già in passato, se si tratta della pura e semplice restaurazione di un’evoluzione attuatasi precedentemente, allora il misconoscimento dell’ordine legale esistente è solo un’apparente trasgressione dei limiti degli ordinamenti giuridici dati; in tal caso, a una legalità reale si contrappone una legalità altrettanto reale. La continuità dello sviluppo non viene negata rigidamente, l’obiettivo estremo è allora semplicemente di annullare una fase intermedia. Ogni prospettiva essenzialmente rivoluzionaria nega invece agli ordinamenti giuridici presenti e passati il diritto etico all’esistenza nonché la loro attualità storico-filosofica; per essa diventa perciò un problema esclusivamente tattico, se in generale si debba tener conto di essi e – nel caso affermativo – in quale misura.

Ma se la tattica si svincola dalle normali limitazioni dell’ordinamento legale, è necessario trovare qualche nuovo criterio per la finalità che regola la presa di posizione tattica. Poiché il concetto di «convenienza rispetto allo scopo» è ambiguo, occorre conseguentemente distinguere se con esso s’intenda una meta attuale e concreta, o al contrario un obiettivo finale ancora lontano dal terreno della realtà.

Per quelle classi e quei partiti il cui obiettivo finale sia già stato propriamente realizzato, la tattica si regola necessariamente in corrispondenza alla raggiungibilità delle mete attuali e concrete; e per essi non esiste né l’abisso che separa la meta attuale dall’obiettivo finale, né i conflitti che nascono da questo dualismo. Qui la tattica si manifesta nella forma della Realpolitik legale; e non è un caso che allorquando un tale conflitto affiora in via del tutto eccezionale, come ad esempio avviene in connessione con la guerra, queste classi e partiti seguano la Realpolitik più superficiale e catastrofica. Né possono fare diversamente, perché la prospettiva presente non consente altro che una simile Realpolitik.

Questa opposizione è quanto mai appropriata a chiarire la tattica delle classi e dei partiti rivoluzionari. Per essi la tattica non si regola su vantaggi momentanei e raggiungibili immediatamente. Anzi devono rinunciare a parecchi di questi vantaggi perché essi potrebbero mettere in pericolo ciò che è realmente importante, vale a dire l’obiettivo finale. Tuttavia, poiché l’obiettivo finale non è determinato come un’utopia sibbene come una realtà che si deve attuare, la collocazione di questo obiettivo al di là del vantaggio momentaneo non può in alcun modo significare un’astrazione dalla realtà o un tentativo di imporre alla realtà determinati ideali, ma sta piuttosto a significare che vengono individuate e impiegate quelle forze che operano all’interno della realtà sociale, quelle forze, dunque, che sono volte alla realizzazione dell’obiettivo finale. Senza questa conoscenza, la tattica di qualsiasi classe o partito rivoluzionario oscillerebbe confusamente tra una Realpolitik senza ideali e un’ideologia priva di contenuto reale. Questa conoscenza mancò alla lotta rivoluzionaria della classe borghese. Qui esisteva effettivamente una ideologia circa l’obiettivo finale, la quale però non riuscì ad inserirsi organicamente nei dettami relativi all’azione concreta. Essa fu sviluppata piuttosto nel senso di un’attuazione immediata, creò delle istituzioni che ben presto divennero fine a se stesse, ed offuscarono così lo stesso obiettivo finale, riducendosi al rango di pura e ormai inoperante ideologia. Il peculiarissimo significato sociologico del socialismo sta per l’appunto nel fatto che esso offre una soluzione a questo problema. L’obiettivo finale del socialismo è infatti utopico nella precisa misura in cui esso esula dai limiti economici, giuridici e sociali della società odierna e può pertanto essere realizzato solo con l’annientamento di questa società; però esso non è utopico nel senso che il cammino verso questo obiettivo finale significhi l’accettazione di idee che si agitano al di fuori o al di sopra della società. La teoria marxista della lotta di classe, che a questo riguardo segue pienamente la formazione del concetto hegeliano, trasforma la finalità trascendente in immanente; la lotta di classe del proletariato coincide con la finalità stessa e ne è, in pari tempo, la realizzazione. Questo processo non è un mezzo il cui significato e valore possa essere misurato col criterio di un fine che lo trascenda, esso costituisce piuttosto una nuova messa a fuoco della società utopica, passo dopo passo, un balzo dopo l’altro, in corrispondenza con la logica della storia. Questo significa penetrare nell’attuale realtà sociale. Questo «mezzo» non è estraneo alla meta (come lo era nel caso della realizzazione dell’ideologia borghese), ma al contrario rappresenta un avvicinamento dell’obiettivo al suo autoinveramento. Ciò significa che tra i mezzi tattici e l’obiettivo finale esistono dei passaggi concettualmente indeterminabili; non è mai possibile sapere in anticipo quale sarà il passo tattico che realizzerà l’obiettivo finale.

Siamo arrivati così al criterio decisivo della tattica socialista: alla filosofia della storia. Il fatto della lotta di classe non è altro che una descrizione sociologica e un innalzare gli accadimenti al livello della normatività che si presenta nella realtà sociale; ma il significato della lotta di classe del proletariato va ben al di là di questo fatto. Nella sua essenza esso è sì inseparabile da questo fatto, epperò è volto a far sì che sorga un ordinamento sociale diverso da ogni società finora esistita e tale da non conoscere più né oppressori né oppressi; affinché cessi l’epoca della dipendenza economica che mortifica la dignità umana, è necessario – come dice Marx1 – che il potere cieco delle forze economiche venga spezzato e vi subentri un potere superiore, un potere adeguato e rispondente alla dignità dell’uomo. La valutazione e la conoscenza esatta delle attuali situazioni economiche e sociali, degli effettivi rapporti di forze, sono quindi sempre solo il presupposto, ma non il criterio di un giusto agire in senso socialista, di una giusta tattica. Il vero criterio può essere esclusivamente lo stabilire se il modo dell’agire in un caso determinato serva a realizzare questo obiettivo, ossia il senso del movimento socialista, e così – poiché a questo obiettivo finale non servono mezzi qualitativamente indifferenziati, ma al contrario i mezzi già di per sé significano un avvicinamento all’obiettivo finale – devono essere dichiarati buoni tutti i mezzi mediante i quali questo processo di filosofia della storia è risvegliato alla coscienza e alla realtà, e cattivi invece tutti i mezzi che ottenebrano questa coscienza, come ad esempio la coscienza della legalità e della continuità dell’evoluzione «storica» o addirittura degli interessi materiali temporanei del proletariato. Se c’è un movimento storico al quale la Realpolitik è fatale e deleteria, questo è proprio il socialismo.

Ciò significa in concreto che ogni solidarietà con l’ordinamento sociale esistente cela in sé la possibilità di un tale pericolo. Per quanto noi insistiamo, anche se con assoluta convinzione interna, che tale solidarietà rappresenta solo una comunanza temporanea e contingente d’interessi, che essa non è altro che un legame provvisorio per il conseguimento di un obiettivo concreto, non si può tuttavia sfuggire il pericolo che il sentimento di solidarietà diventi abituale in quella coscienza la cui inevitabile esistenza viene così ad eclissare la coscienza storica universale e ad ostacolare il risveglio dell’umanità all’autocoscienza.

La lotta di classe del proletariato non è pura e semplice lotta di classe (se fosse solo questo, essa sarebbe in effetti regolata esclusivamente dai vantaggi della Realpolitik), ma al contrario un mezzo per la liberazione dell’umanità, un mezzo per l’inizio effettivo della storia umana. Ogni compromesso offusca proprio questo aspetto della lotta e pertanto esso – nonostante tutti i suoi vantaggi contingenti momentanei, e nondimeno assolutamente problematici – è nefasto in considerazione di questo vero obiettivo finale. Infatti, fino a quando durerà l’attuale ordinamento sociale, le classi dominanti saranno in grado di compensare palesemente o nascostamente il vantaggio economico e politico conseguito con i compromessi. E dopo una simile «compensazione» la lotta potrà essere proseguita solo in condizioni più sfavorevoli, dato che il compromesso, ovviamente, indebolisce lo spirito combattivo. Perciò la portata delle deviazioni tattiche all’interno del socialismo opera molto più in profondità che in alcuni movimenti storici; qui è il significato storico universale a costituire il criterio tattico, e di fronte alla storia si è assunto la responsabilità di tutte le proprie azioni colui che non indietreggia – per considerazioni utilitaristiche – dinanzi all’angusta ed erta strada dell’agire appropriato, l’unica peraltro che conduca alla meta e che la filosofia della storia prescrive.

Parrebbe che con ciò si fosse data una risposta anche al problema etico, nel senso che sarebbe già di per sé etico il seguire la giusta tattica. Ma siamo così giunti al punto in cui affiorano nel marxismo i lati pericolosi dell’eredità hegeliana. Il sistema di Hegel non contiene alcuna etica; in esso l’etica viene sostituita da quel problema dei beni materiali, spirituali e sociali nei quali culmina la sua filosofia sociale. Il marxismo ha accettato nell’essenziale questa forma dell’etica (così, ad esempio, il libro di Kautsky), sostituendo soltanto altri «valori» a quelli hegeliani, e senza porsi il problema se l’esigere «valori» socialmente corretti e mete socialmente giuste – prescindendo dalle forze istintuali interne all’agire – sia già in sé un fatto etico, sebbene appaia palese che una impostazione della questione etica può scaturire solo da questi fini socialmente giusti. Chi nega la ramificazione che qui si produce dell’impostazione etica, nega anche la possibilità etica della medesima, e si pone in contrasto con i più primitivi e universali fatti psichici, cioè con la coscienza morale e la coscienza della responsabilità. Tutti coloro che seguono questa via, in primo luogo non scrutano a fondo che cosa l’uomo ha fatto o voleva fare (il che è regolato dalle norme dell’agire sociale e dell’agire politico), ma se ciò che egli ha fatto o voluto fare, e il motivo per cui l’ha fatto o voluto, sia stato oggettivamente giusto o sbagliato. Questa domanda circa il motivo può tuttavia affiorare solo in casi singoli, acquista un significato solo in rapporto all’individuo, ed è invece in stridente contrasto con il problema tattico di correttezza oggettiva, il quale può avere una soluzione univoca solo nell’azione collettiva dei gruppi umani. La domanda che ci si pone è dunque la seguente: come si comportano la coscienza morale e la coscienza della responsabilità del singolo nei confronti del problema dell’agire collettivo tatticamente giusto?

A questo punto è anzitutto necessario constatare una dipendenza reciproca, proprio perché i due tipi d’azione posti in relazione sono nella loro essenza indipendenti l’uno dall’altro. La questione se una qualunque decisione tattica data sia giusta o sbagliata, è da un lato indipendente dalla questione se la decisione di chi agisce conformemente ad essa sia stata determinata da motivi morali; d’altro lato un’azione che trae origine dalla più pura fonte etica può essere totalmente errata dal punto di vista tattico. Ma questa indipendenza reciproca è solo apparente. Infatti, come vedremo in seguito, se l’azione del singolo, determinata da motivi esclusivamente etici, trapassa nel campo della politica, la sua giustezza o erroneità oggettiva (dal punto di vista della filosofia della storia) non può essere indifferente nemmeno a livello etico.

In base all’orientamento di filosofia della storia che è proprio della tattica socialista, deve in quelle volontà individuali sommate fra loro verificarsi una azione collettiva ed esprimersi la coscienza filosofico-storica regolatrice, tanto più che senza di essa si renderebbe impossibile il necessario rifiuto del vantaggio momentaneo nell’interesse dell’obiettivo finale. Il problema può ora essere formulato nel modo seguente: quali considerazioni etiche fanno scaturire nell’indidivuo la decisione che la necessaria coscienza di filosofia della storia può, destandosi, diventare in lui azione politica corretta, cioè componente di una volontà collettiva, e infine anche decidere quest’azione?

Ripetiamolo ancora una volta: l’etica si volge al singolo e come conseguenza necessaria di quest’angolatura prospetta alla coscienza morale individuale e alla coscienza della responsabilità il postulato che egli debba agire come se dalla sua azione o dalla sua inazione dipendesse il mutamento del destino del mondo, il cui farsi verrebbe appunto favorito o ostacolato dalla tattica attuale. (Nell’etica, infatti, non esiste neutralità né apartiticità; chi non vuole agire deve anche poter assumersi la responsabilità della sua inazione di fronte alla propria coscienza morale.) Chiunque al giorno d’oggi si decida per il comunismo deve anche, nei confronti di ogni essere umano che muore nel corso della lotta per il comunismo, assumersi la stessa responsabilità individuale come se tutte quelle vite l’avesse soppresse egli stesso. Ma pure tutti coloro che si schierano dall’altra parte – per la difesa del capitalismo – debbono ritenersi individualmente responsabili dei massacri che avverranno nelle immancabili nuove guerre revansciste dell’imperialismo, come anche della futura oppressione delle nazionalità e delle classi. Nessuno può a livello etico sottrarsi alla responsabilità col pretesto di essere solo un singolo dal quale non dipende affatto il destino del mondo. Ciò, intanto, non si è mai capaci di saperlo con oggettiva certezza, poiché è pur sempre possibile che tale destino dipenda proprio dal singolo; inoltre poi un simile modo di pensare è reso impossibile dalla stessa essenza più intima dell’etica, dalla coscienza morale e dalla coscienza della responsabilità; chi in base a questa considerazione non prende una decisione – si tratti pure di un individuo per altro verso molto evoluto – rimane dal punto di vista dell’etica al livello di una primitiva e incosciente vita istintuale.

Questa determinazione meramente etico-formale dell’agire individuale non basta però a spiegare il rapporto tra tattica ed etica. Il singolo individuo che, maturando in sé una decisione etica, segue o respinge una qualsivoglia tattica, entra con ciò in un campo specifico dell’agire, quello della politica, e questa specificità del suo agire implica – in base al punto di vista dell’etica pura – la conseguenza che egli deve sapere in quali circostanze e modi agisce.

Ma il concetto di «sapere» così introdotto, richiede un ulteriore chiarimento. Da un lato questo «sapere» non può in alcun modo significare la completa conoscenza della situazione politica attuale e di tutte le possibili conseguenze; dall’altro però non si può nemmeno considerare come risultato di riflessioni puramente soggettive il fatto che l’interessato agisca in base «al suo miglior sapere e alla migliore coscienza morale». Nel primo caso qualsiasi azione umana sarebbe inattuabile fin dal principio, nel secondo si darebbe adito alla più assoluta leggerezza e frivolezza, e ogni criterio morale diventerebbe illusorio. Ma siccome la serietà e la coscienza della responsabilità del singolo rappresentano un criterio morale per ogni azione, nel senso che l’interessato avrebbe potuto conoscere la conseguenza delle sue azioni, sorge la questione se egli, conoscendo queste conseguenze, avrebbe anche potuto assumersene la la responsabilità dinanzi alla propria coscienza morale. Questa possibilità oggettiva è diversa da individuo a individuo e caso per caso, epperò per ogni singolo individuo e caso per caso essa è sempre determinabile nella sua essenza. Il contenuto della possibilità oggettiva di realizzare l’ideale sociale del socialismo e al tempo stesso l’attuabilità del criterio di possibilità viene determinato fin d’ora, per ogni socialista, mediante l’attualità che quest’ideale ha a livello della filosofia della storia. Così la giusta azione morale per ogni socialista si ricollega intimamente all’esatta conoscenza di una data situazione di filosofia della storia, il cui cammino può essere percorso solo a condizione che ogni singolo si sforzi di rendersi lui stesso consapevole di questa autocoscienza. Pertanto il primo e inderogabile presupposto di ciò consiste nella formazione della coscienza di classe. Affinché il giusto modo di agire diventi un veritiero ed esatto elemento regolativo, occorre che la coscienza di classe si elevi al di sopra della sua mera datità effettuale e ponga mente alla sua vocazione storico-universale e alla coscienza della propria responsabilità. L’interesse di classe infatti, il cui conseguimento rappresenta il contenuto dell’agire in base alla coscienza di classe, non concorda né con la generalità degli interessi personali degli individui che fanno parte della classe, né con i contingenti interessi attuali della classe come unità collettiva. Gli interessi di classe che portano alla realizzazione del socialismo e la coscienza di classe che li esprime rappresentano una vocazione storico-universale; e così la possibilità oggettiva sopra menzionata implica anche la domanda se sia già arrivato il momento storico che dalla fase della costante approssimazione conduce – di un balzo – a quella dell’autentica realizzazione.

Ogni singolo individuo deve però sapere che qui, per la natura stessa del problema, si può parlare solo di una possibilità. Non è concepibile una coscienza umana che per quanto riguarda la società sia capace di affermare con l’esattezza e con la sicurezza con cui l’astronomia determina l’apparizione di una cometa, che oggi è arrivata l’ora della realizzazione dei princìpi del socialismo. E tanto meno può esserci una scienza in grado di affermare: «Oggi non è ancora il momento, occorre aspettare, arriverà domani o solo fra due anni». La scienza, la conoscenza possono solo indicare delle possibilità, e solamente nell’ambito del possibile è possibile un agire morale responsabile, un vero agire umano. Ma per colui che coglie questa possibilità, non può esserci, se egli è un socialista, nessuna indecisione né esitazione.

Ciò non può, tuttavia, significare in alcun modo che un’azione sorta in queste condizioni debba necessariamente essere già moralmente infallibile e irriprovevole. Nessuna etica può avere come compito di escogitare ricette per un agire corretto, di livellare o di occultare gli insuperabili tragici conflitti del destino umano. L’autoriflessione etica, al contrario, ci indica appunto che esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa; e altresì ci insegna che perfino nel caso in cui potessimo scegliere tra due modi di renderci colpevoli, l’azione giusta e quella sbagliata avrebbero tuttavia un criterio. Questo criterio si chiama sacrificio. Allo stesso modo come il singolo, scegliendo tra due specie di colpa, trova infine la giusta scelta sacrificando sull’altare dell’idea superiore il proprio io inferiore. Cosi esiste anche una forza che consente di commisurare questo sacrificio all’agire collettivo; qui però l’idea si incarna in un comando della situazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia. Ropshin (Boris Savinkov), capo dei gruppi terroristi durante la rivoluzione russa del 1904-1906, formulò in uno dei suoi romanzi il problema del terrorismo individuale in questi termini: uccidere non è permesso, è una colpa incondizionata e imperdonabile. Non è «permesso» farlo, ma tuttavia «deve» essere fatto. In un altro passo dello stesso libro egli trova non la giustificazione dell’azione del terrorista, il che è impossibile, bensì l’ultima radice morale di essa nel fatto che questi sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima. In altre parole: solo l’azione omicida dell’uomo, il quale sa con assoluta certezza e senza dubbio alcuno che in nessuna circostanza l’omicidio deve essere approvato, può avere, tragicamente, una natura morale. Per esprimere questo pensiero sulla più grande delle tragedie umane con le incomparabilmente belle parole della Judith di Hebbel: «E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?».


1 K. Marx, Il capitale, III, 2, Roma 1955, p. 232.

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