Sec’eri d’autore

canziansbuelz
 

Martedì 22 novembre, alle 20.30, all’osteria Sec’eri di Pezzan di Carbonera (Tv) avrò il piacere di chiacchierare e di leggere assieme a una cara amica poetessa, Antonella Sbuelz. Di lei avevo già scritto qualcosa in merito al suo bellissimo Transitoria (Raffaelli Editore 2011) e alla plaquette La prima volta delle cose (Edizioni Culturaglobale 2016). Ora l’occasione è il suo ultimo edito La misura del vicino e del lontano (Raffaelli Editore 2016) e il mio Il colore dell’acqua (Samuele Editore 2016). Anche se ovviamente non mancheranno inediti ed io leggerò qualcosa anche dal Condominio S.I.M. Modererà un altro caro amico, Alberto Trentin, che è anche un mio autore (La voce dei padri, Samuele Editore 2011) ed era stato inserito in quella bella quanto piccola antologia di poeti veneti che avevo curato per Simona Wright e il Nemla Italian Studies del College of New Jersey nel 2013,The place to be (che a sua volta nasceva dall’omonimo articolo che avevo pubblicato in questo blog: The place to be – sulla poesia del nord est).

La locandina è a cura di Alessia Trentin, che ringrazio. Per la Samuele Editore Alessia ha curato la copertina de Il dolore di Alberto Toni (2016). Di seguito un po’ di testi che leggeremo e preannuncio già che il prossimo incontro al Sec’eri sarà a dicembre con Silvia Secco e il suo Canti di cicale (Samuele Editore 2016).

 
 
 
 

da La misura del vicino e del lontano
Antonella Sbuelz

 
 
 
 
La strada
(Nordest e Terzo Reich)
 
Si fa presto a dire estate, mi dicevi.
E intanto fissavi la strada di quando eri forza-lavoro,
per fare grande il grande terzo reich.
 
Il giorno del ritorno nevicava.
Il gelo azzannava i tuoi piedi
dentro le suole sfasciate. Tuo figlio
corse fuori, spaventato
dal forestiero magro che eri tu.
 
Oggi guardo in solitaria quella strada.
 
È rimasto un vigneto: uno solo.
Ha lo sgomento dei sopravvissuti,
lo iato di una voce fuori coro.
La babele di centri commerciali
ha sradicato campi e gelsi e viti
e il parcheggio si è ingoiato intero
il vecchio cimitero americano: i soldati
inciampati nel buio,
l’umiltà del vialetto di ghiaino,
le lapidi parentesi di pietra ai margini di terre di frontiera.
 
Si fa presto a dire estate, mi dicevi.
Ma qualche seme muore a primavera.
 
 
 
 
 
 
Casa, casi
(Ciò che resta di)
 
Resta il tuo gatto, e vive in questa casa
come il suo più legittimo inquilino:
abita gli interstizi del giardino, le crepe
della storia e dello spazio, le ombre
dove non si spinge il sole: sdegnoso
di carezze e di parole
ci interroga con sguardi indecifrati
su cui calano palpebre ormai stanche
–o eredità di istinti ormai remoti– se scorro
con la mano sui suoi fianchi.
 
Certo gli manchi. Certo anche a lui manchi.
 
Solo un roseto ha capitolato: resistono
eriche e forsizie, il vecchio caco sempre generoso,
il gelsomino troppo profumato.
 
Per ridare a muri e tetto nuova forza
è servita la forza condivisa di uomini
con storie separate: friulani e albanesi e croati
e un turco che ha impresso al comignolo
la forma di babbuccia da sultano.
Tu li avresti accolti tutti col sorriso
di chi si sa occupare del pudore
ricomponendo in cerchio le distanze.
Io gli ho soltanto offerto del caffè.
 
Nel primo temporale di stagione
oggi la tua magnolia scuote rami
che cercano un approdo controvento.
Io entro a capo chino in questo aprile.
Attonita, la casa pensa a te.
 
 
 
 
 
 
Cielo al buio
(Quando la terra trema)
 
E poi di nuovo finalmente è cielo, e buio in dote
dentro l’aria aperta, e un fragile sollievo
di ventura. Crepe fonde sui muri e fra i pensieri,
ma la certezza buona del selciato
riconquistato con il cuore il gola
riesce a schiaffeggiare la paura.
La fuga sa di polvere di calce,
nuvola densa masticata in bocca. La luna
rossa sopra la collina
è un’amarena acerba in fondo agli occhi:
sanguina appena, se la terra trema.
Nella docilità di vecchie rese, un vecchio
abbarbicato tra le pietre
mormora fra sé sillabe storte. Ma
non ci sono muri, non più porte
a vegliare la sua estrema intimità.
 
L’amen è la sua voce nella notte,
e questa notte insegna la pietà.
 
 
 
 
 
 
La democrazia della rosa
(Zoccoli e raso)

(Rita. Venezia, 1969)

 
È un fiore democratico, la rosa,
dicevi annaffiando il giardino: si adatta
ai parchi dei signori e agli orti dei contadini.
E poi mi elencavi le rose
con nomi da signore e contadine,
e per ognuna io mi figuravo bianche
trine ricamate come brina
o fazzoletti scuri sui capelli,
pelle di latte o cotta sotto il sole,
zoccoli o scarpe di raso.
 
Oggi ho un roseto solo, dentro un vaso.
Non conosco neppure il suo nome.
 
Ma il nome tuo – i vostri – li racconto, mi ostino
ancora a non lasciarli andare: li avete sussurrati sottovoce,
avete camminato senza suono e senza suono
ve ne siete andati, orfani di luce e di fragore.
Vi basti questo ramo senza foglie,
questo tendersi imperfetto di radici.
 
Vi basti, per restare, il mio tentare.
 
 
 
 
 
 
La prima volta delle cose
(Sono qui)

(Silvia e Giuseppe. Udine, 2009)

 
Ma ci vorrebbe il tempo del ripasso, il tempo
del rivivere le cose: fare ritorno all’alba del possibile,
fra i momenti di grazia elementare,
l’amicizia con le foglie e le formiche,
le innocenze come ali di libellula nella memoria tersa della luce.
Riattraversare senza far rumore le prime volte del cuore,
le prime volte ferme delle mani,
le primissime delle parole:
il sussulto dell’onda del mare nella prima volta della sabbia,
la bianca solitudine del bianco nella prima volta della neve,
il fragile dei dieci anni, quando l’infanzia si arrende
all’azimut della sua perfezione.
Trovare il tempo dei ringraziamenti, del desiderio buono,
degli addii:
intuire che la piega di un sorriso sarà l’ultima sopra quel viso,
e la sola
capace di tornare fra migliaia di altri sorrisi.
Assolvere la pioggia che ritorna, il sole che asciuga la pioggia.
Accoccolarsi dentro le stagioni.
E scivolare piano in questo istante:
le prime gemme sopra la magnolia,
il balbettio di gocce sul lavello,
l’impalcatura sopra un tetto nuovo,
l’agguato della fragile bellezza di una ragnatela
in controluce.
E dirsi solo
Ecco. Questo è molto.
                   E dirsi questo è molto. Sono qui.
 
 
 
 
 
 

da Il colore dell’acqua
Alessandro Canzian

 
 
 
 
Oggi all’A&O di Pordenone
ho comprato un profumo per la casa,
di quelli a pochi soldi, perché
mi ricordava l’odore d’una donna
che conoscevo tanto tempo fa.
Si, proprio quell’odore lì,
di vaniglia acre che ti suda
e ti fa male al cuore.

 
 
 
 
 
 
Il cartoccio del latte e le campane.
Gli stracci nella stanza.
La gatta che da fuori la finestra
vuole la colpa
d’essere l’unica a mangiare.
La stufa accesa. Le calze colorate.
 
 
 
 
 
 
Dai finestrini sporchi il freddo.
La neve in mezzo ai campi.
Il paesaggio sa di case
e di cose che non tornano.
Sono cose anche le persone
che nel freddo non respirano.
 
 
 
 
 
 
Le travi di freddo e neve
alla stazione di Ferrara.
La troppa chiarità non mostra
nulla, i filari non scandiscono
i binari, Dio non lo puoi guardare
nemmeno di spalle.
 
 
 
 
 
 
La ragazza di nome Olga
è una ragazza che non conosco
né me ne sono mai innamorato.
Ma se me la immagino la penso
con la pelle bianca come i capelli
di mio padre, e il seno grosso
– ma la memoria non fa vedere –
e con l’utero profondo
come il buio dentro un uomo.
 
 
 
 
 
 
La ragazza di nome Olga
cammina ogni sera alla mia porta.
A mezzanotte, undici e qualcosa,
coi tacchi ben calcati
a farsi ricordare. Qualcuno
so si è lamentato. Poi l’altra
notte l’ho sentita urlare
appesa alle mani del compagno.
 
 
 
 
 
 
Ho visto camminare una ragazza
stamattina, a cui ho dato nome Olga.
Non so se fosse lei o un’altra
o se avesse le sue gambe o la medesima
pelle, o lo stesso buio appeso
appena sotto i fianchi. Ho immaginato
fosse lei a tornare dal lavoro
senza aver risolto nulla della vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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