Capellio: Rubén Amoretti
Giulietta: Jessica Pratt
Romeo: Sonia Ganassi
Tebaldo: Shalva Mukeria
Lorenzo: Luca Dall’Amico

Direttore: Omer Meir Wellber
Regia: Arnaud Bernard

Le stagioni del Teatro la Fenice mescolano sempre più titoli di pieno repertorio (Traviate, Rigoletti, ecc) con proposte invece ricercate e sempre sostenute da cast notevoli. Una di queste è senza dubbio I Capuleti e i Montecchi, coproduzione con Venezia e Atene che ripropone una delle opere meno eseguite del non vasto catalogo di Vincenzo Bellini. Siamo in pieno belcanto ed il nome di Jessica Pratt in locandina ci conferma la posizione oramai prioritaria che questo soprano va assumendo nel repertorio. Ed a ragione. La tecnica è perfetta, le intonazioni precise, il volume abbondante, il colore drammatico e suadente a seconda delle esigenze, il fraseggio intenso. Solo la componente scenica, da sempre punto debole della Pratt, ha ancora alcuni margini di miglioramento (specialmente per gli standard odierni nel teatro di regia). Per quanto l’opera tenda a portare Romeo come protagonista, la palma degli applausi va senza dubbio alla Giulietta.

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Romeo (Sonia Ganassi) al centro della veglia funebre per Giulietta

Non da meno era comunque il nome scelto per il ruolo en travesti di Romeo. Sonia Ganassi è vocalmente perfetta per il ruolo, con colorature ben definite, grande verve e acuti molto ben timbrati, sonori e intonati. Il registro grave resta la parte più forzata e meno convincente del suo canto, ed il passare degli anni non aiuta in questo senso. Chi invece è giovane e mostra costantemente di star crescendo molto è il tenore Shalva Mukeria, il cui timbro a volte eccessivamente chiaro viene mitigato da una linea di canto eccellente, oltre che da tecnica solida. Il ruolo, non primario, non lo gratifica forse abbastanza per le sue capacità, che vengono mostrate solo in potenziale.

Chiudono il cast i due bassi, padre Lorenzo e Capellio, padre di Giulietta, rispettivamente Rubén Amoretti Luca Dall’Amico. Sono stati precisi e convincenti negli interventi, seppur non esenti da difetti evidenti (incombente senescenza per il primo, stimbrature sistematiche per il secondo).

La direzione di Omer Meir Wellber ha confermato le impressioni chiaroscurali della sua carriera finora. C’è un certo piglio, una volontà di sovraccaricare la partitura di intensità che forse non le appartengono del tutto. D’altro canto c’è una tecnica direttoriale un tantino approssimativa, che si riflette in assiemi “a fisarmonica”, che vanno perdendosi per poi ritrovarsi solo nei tutti sincronizzati. L’orchestra ha risposto sempre bene, specialmente negli archi (straordinari).

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La scena finale che diventa quadro vivente

La regia di Arnaud Bernard è stata probabilmente il punto debole della serata, per il resto di ottimo livello con punte di eccellenza. Troppo banali, prevedibili e privi di drammaticità i movimenti. Troppo scontata e già vista l’idea di partenza (il museo in allestimento con i quadri che “prendono vita” per raccontare la loro storia e tornare quadri alla fine), troppo vuoto di oggetti e azioni il largo palcoscenico della Fenice, troppo asettiche le scene, davvero troppo amatoriali infine le luci. Esteticamente non c’è mai nulla di molesto, ma nemmeno nulla di interessante. Peccato, occasione persa.

Alberto Luchetti