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di Lucia Cattani

In dinamismo, duttilità, in maniera del tutto non convenzionale si svolge il penultimo appuntamento di questa prolifica stagione concertistica di Appassionata, il 13 marzo. Ancora una volta Macerata accoglie due grandi concertisti e fa in modo che l’esperienza si allarghi fino a coinvolgere due poli fondamentali per la cultura cittadina, nonché  regionale: per la terza volta sia l’Accademia di Belle Arti che la facoltà di Lettere e Filosofia si sono congiunti, allestendo una mostra alla Galleria Mirionima con opere degli studenti stessi ispirati dall’ascolto del repertorio in programma e approfondendo attraverso una tavola rotonda, che ha avuto per protagonisti professori di facoltà e gli stessi musicisti, quelle che sono le tematiche intorno a cui ruotano i brani scelti (da questo incontro è scaturito l’interessante articolo del 14 aprile di Arianna Guzzini, un approfondimento efficace sui significati della musica).

Protagonisti della serata sono il violoncellista e compositore Giovanni Sollima ed il pianista Giuseppe Andaloro: propongono un repertorio molto particolare, che spazia dal tardo rinascimento fino alla contemporaneità, a partire da John Dowland fino ad arrivare a Kapustin, senza tralasciare brani composti dallo stesso Sollima e da suo padre. Sembra impossibile conciliare stili compositivi, sonorità apparentemente così distanti, ma è esattamente quello che riescono a fare i due Maestri. Aprendo il concerto con Dowland lo stupore ha inizio fin da subito: le note del piano forte si propagano con un suono simile al pizzicato, che si avvicina alla sonorità del clavicembalo. Lo strumento si confonde e si armonizza grazie al sostegno del violoncello; tutto ciò avviene in modo naturale e suggestivo, richiamando quella sognante atmosfera in bilico tra Rinascimento e Barocco. Le larghe frasi espressive suggeriscono scenari bucolici più legati al mondo letterario che a quello reale, cercando di ottenere probabilmente una sublimazione di quella Storia europea che all’epoca del compositore sta mostrando uno dei suoi volti più spietati e sanguinari. Dowland attraverso la melodia pacificante, quasi celestiale delle sue composizioni – delle quali Come Again è senza dubbio la più apprezzata- ricerca il suo personale equilibrio e cerca di diffonderlo ai suoi contemporanei, schermando con le note, almeno per un poco, le drammatiche scene di una realtà ghermita da distruzione, epidemie, guerre senza fine, inquisizioni disumane.

Con il secondo brano del concerto, nientemeno che la Sonata n.3 op.69 in La maggiore di Beethoven, il registro cambia drasticamente, insieme ai secoli che separano i compositori. La Sonata n.3 è un incedere continuo di splendidi chiaroscuri: il Maestro Sollima riesce a far splendere la composizione beethoveniana attraverso un’esecuzione di rara delicatezza che è riuscita a portare il pubblico –compresa la sottoscritta- ad un’inaspettata e sincera commozione, cosa che molto di rado avviene. Un grande maestro si riconosce da questo, dopotutto. Il pubblico è riconoscente, e non riesce a frenare un fragoroso applauso nello stacco tra l’Allegro ma non troppo e lo Scherzo in La minore. Questo secondo movimento è dall’aria più virtuosa e brillante, ma per questo non meno coinvolgente e superbamente eseguita. Beethoven è esaltato in tutti i suoi inconfondibili tratti. Sollima e Andaloro sembrano davvero a proprio agio nel fulgore preromantico del compositore: dalla loro esecuzione emerge un’indescrivibile forza che ammalia e conquista attraverso un crescendo di vitalità. La voce degli strumenti è limpida e scevra da qualsiasi titubanza, come tesa verso un impeto rivoluzionario.

Improvvisamente il Lauro Rossi trasalisce per un’inaspettata evoluzione della Sonata beethoveniana: le limpide note si trasformano, per lasciar posto a Drei Kleine stuke op.11, di Anton von Webern. Il salto storico e acustico è di grande impatto, naturalmente, ma sembra in qualche strano e impensabile modo legarsi a Beethoven senza sembrare fuori luogo, quasi fosse un bizzarro germoglio spuntato all’improvviso in una pianta armoniosa. Il minimalismo novecentesco si scontra dolcemente con le precedenti frasi di Beethoven: un connubio impensabile ma efficace e suggestivo tra due grandi innovatori della Storia della Musica. Webern con le sue armonie dissonanti ci parla della realtà novecentesca dominata dalla morte di Dio, da quell’alienazione dai tratti a volte incomprensibili che, pensandoci bene, non lo allontana troppo dall’impeto  sovversivo beethoveniano. Dopo le brevi composizioni, quasi senza accorgerci, siamo riportati alla Sonata che infine trova la sua conclusione in una delicatezza, una grazia, una sorta di empatia che sembra congiungere profondamente il Maestro Sollima al suo strumento.

Il concerto prosegue con la Sonata 1948 composta dal padre del violonceellista, Eliodoro Sollima, ma non prima che il maestro spieghi che quello a cui stiamo assistendo è programma giocato sugli specchi: troviamo Webern dentro Beethoven, mentre la novità compositiva di Dowland  sarà riscontrabile in Kasputin. Tornando alla Sonata 1948, si percepisce un profondo dolore e la malinconia di chi ha sfiorato il baratro senza tuttavia poter evitare di guardare gli orrori nascosti in esso – il baratro della guerra. Lo spartito sembra dominato da una forte volontà di rinascita, una lotta stoica contro le proprie forze per uscire dalla paura e guardare di nuovo avanti, verso un futuro incerto, ancora tutto da costruire. Sollima rivela la musica composta da suo padre, mantenendo viva una voce che, per ammissione del Maestro stesso, egli sente così simile alla propria; è il ripetersi del gioco di specchi di cui si era parlato prima. Quella voce è profondamente affine, nonostante ci sia quel distacco generazionale a separare il mondo di Eliodoro Sollima da quello del figlio. Il recitativo e l’andante sono legati in modo affascinante, attraversl un elegante movimento dell’archetto. Vengono eseguiti con una sorta di sobria passione, quasi sacralità e riverenza: dopotutto Sollima ci racconta la sua intimità attraverso uno dei legami più profondi  che si possano avere con la vita, quello dell’arte ereditata da un padre.

Ancora una volta lo scenario cambia: le composizioni paterne lasciano spazio al fortunato Tema III, da il Bell’Antonio, scritto dallo stesso violoncellista, dominato da una grande eleganza e un forte lirismo, che commuove nuovamente il pubblico.

Nel Quasi Valzer op.98 di Nikolaj Grisevic Kasputin, seguito dall’Elegia op.96 e dalla Burlesca op.97 emergono invece, scatenate, le esuberanze jazzistiche dei due concertisti, che affrontano questi brani con molto divertimento e riuscendo a convincere il pubblico attraverso non la sola musica ma anche una discreta interazione mimica, un atteggiamento rilassato e meno formale, quello proprio della musica Jazz. Il pianoforte scorre fluido e libero, con il pizzicato del violoncello che è proprio al genere. È certo una realtà differente da tutte le precedenti quella che viene mostrata, ma sembra avere quell’esuberanza, quella vitalità incredibile e quella fantasia, che può solo essere legata alla passione e al divertimento di suonare, già percepita in Dowland. Emerge così un’ulteriore lettura della musica, vista come volontà di scrutare e gioire delle immagini del proprio presente ma anche l’idea del gioco musicale, un modo ironico e coraggioso di affrontare la vita nelle sue avversità (è importante mantenersi leggeri e fluidi, duttili tra i vari generi e i vari sistemi).

Sicuramente quello del 13 marzo è stato uno dei concerti più applauditi della stagione, coronato da lunghe e calorose ovazioni del pubblico. D’altra parte non si può restare in silenzio davanti ad una passione tanto sincera e commovente, davanti a un entusiasmo coinvolgente dei musicisti, di fronte ad una tecnica perfetta unita ad un’eleganza rara dell’esecuzione.