«Ho imparato dalla vigna a dire ciò che penso»

Marino Colleoni, vignaiolo in Montalcino

di Armando Castagno

C’è un versante del comune di Montalcino, quello che scende a valle sul lato nord del colle dove è arroccata la città, che pare voler eludere le ricerche. Ci si arriva per varie strade, nessuna comoda; d’estate si è accolti di solito da una brezza che spira regolare, e da un clima più clemente, meno caldo che altrove nella zona. Tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, spesso, rivolgendo lo sguardo a settentrione, verso Buonconvento e poi Siena, alle volte pare di sostare sulle sponde di un lago.

Ma è un lago di nuvole, di nebbia che ristagna, riflettendo appena il celeste del cielo proprio come fosse acqua, acqua morbida, rigonfia. Ci sono casette e pievi sul versante, chiesette piccole e sparpagliate praticamente tutte chiuse alla visita; terrazze di vigneti, orti, campi, sentieri ripidi, qualcuno lastricato, passaggi segreti e scorciatoie note solo ai locali che dal fondovalle evitano di dover girare attorno al colle di Montalcino.

Delle diverse aziende, quasi tutte di piccole dimensioni, che hanno qui vigneti e cantina, una è il frutto, ormai perfettamente maturo, di un progetto tanto trasognato quanto pervicace, portato avanti via via con maggiore convinzione da un bergamasco, Marino Colleoni. Non è un caso isolato, anzi: vignaioli lombardi a Montalcino ne abbiamo incontrati, e tutti erano o sono personaggi fuori dall’ordinario. Alcuni sono stati autentici pionieri pur essendo “foresti”, e li abbiamo purtroppo già dovuti salutare: Sergio Rossi, anche lui bergamasco, a La Gerla dal 1976, o Gianfranco Soldera, a Case Basse dal 1972. Di qualcun altro, molto più giovane, annotiamo e ammiriamo invece la coscienza e la coerenza produttiva in risultati magnifici (le gemelle milanesi Francesca e Margherita Padovani, a Fonterenza).

Marino ha la faccia e la barba bianca da filosofo greco: scruta da dietro i suoi due occhi blu e sembra ruminare le risposte prima di offrirle. Obbedendo a una specie di istinto, e pur seguendone storia e cammino da molti anni, gli abbiamo chiesto, accendendo il registratore, “chi sei?”. La risposta, che abbiamo avuto piacere di riascoltare più volte, è una sintesi di quel che c’è di buono da trovare nel contesto, nell’uomo e nel vino riuscendo ad arrivare al suo nido ottimamente nascosto, il Podere Santa Maria. Intelligenza pura, cioè, e riflessività; idiosincrasia per il banale, umiltà, talento e visione d’insieme. E un senso di meraviglia, come tutto quel che asseconda la natura, i suoi cicli regolari e imprevedibili a un tempo.

«Mi chiedi chi sono. È una bellissima domanda. Oggi nessuno chiede più “chi sei?”, ti chiedono “cosa fai?” o “di che ti occupi?”. È una questione-chiave: il chi e il cosa. Io penso sia più importante il chi. Sono nato il 2 agosto del 1951, a Bergamo. Ho sempre in qualche modo apprezzato il vino in famiglia, ma come fonte di giovialità, di convivialità, magari forse esagerando talvolta, da giovane, come quasi tutti. I miei erano genitori normali, la tipica gente della mia terra, un po’ bigotti, grandi lavoratori. Mio padre è stato un contadino finché non è entrato a lavorare alla Dalmine, quella dei tubi d’acciaio; mia madre era una delle tante sorelle di una tipica famiglia contadina. L’amore per il vino mi è venuto quasi come conseguenza di questa estrazione, se penso a un pasto della mia infanzia non posso immaginarlo senza vino. Come del resto ora. Io fumo come un turco» – e sbuffa fumo mentre lo dice – «ma ti assicuro: dovessi tenermi una delle due cose, terrei il vino».

Perché?
«Perché mi ha insegnato tanto. Il vino è una droga felicissima, non fa tanto male se consumato con moderazione, e toglie via quelle preoccupazioni fasulle, quelle rigidità che oggi ossessionano tanta gente. Fare il vignaiolo, lavorare per ottenere il vino, ha conseguenze ulteriori: a me la vigna ha insegnato a dire quel che penso».

Come, prego?
«Guardala» – e mi indica il vigneto. «Dice quel che è. Quel che è, filtra; lo vedi, non c’è diaframma tra la verità e ciò che appare fuori. Se c’è un punto forte, se c’è salute, lo vedi, è verità, tale e quale; se c’è malattia, stanchezza, la necessità di una pausa, lo vedi, ugualmente. La vigna dice quello che pensa, e quello che sente, non imbroglia. Io voglio essere così».

Come sei arrivato qui, però, non me l’hai ancora detto.
«Io e Luisa, mia moglie, avevamo un’idea piuttosto rustica, direi burbera, del vino: ci basavamo su quel che usavamo bere dalle parti nostre, cioè le Bonarde, i Nebbioli delle nostre terre, della Valcalepio, dell’Oltrepò, di un certo Piemonte. A Montalcino venimmo perché avevamo scoperto in modo fortuito una diversa fisionomia del vino rosso, bevendo, credo fosse il Natale del 1974, una bottiglia del famoso Brunello Biondi-Santi vecchia al punto giusto, poteva essere forse il millesimo 1959, assaggiato quindi a 15 anni di età.

«Per noi fu un’epifania. La morbidezza, la classe, il senso dell’eleganza; per noi cose nuovissime. E allora operammo una sortita a Montalcino durante una vacanza all’Isola del Giglio nel 1975, e qui mettemmo a fuoco prima di tutto… Montalcino stessa, questo Paradiso, queste colline soffici, questa strada che saliva ondulata. Ricordo la sensazione di salire, appunto, morbidamente, tutto l’ambiente era una specie di metafora.

«E qui scoprimmo l’impensabile: cioè i Brunello delle famiglie contadine, gli ex mezzadri, gli ex coloni, che avevano messo su piccole cantine e producevano qualcosa in proprio. Non potevamo non notare la forte dissonanza tra la maestosa bellezza del grande Brunello che avevamo conosciuto come archetipico e la rurale verità, densa di significato e di umore, di questi altri, di queste ipotesi di minoranza. Ricordo che restammo folgorati dal contrasto che c’era tra l’austerità dei profumi di goudron, che lasciavano presagire solo durezze, e la morbidezza meravigliosa del sapore. Questo fu il nostro impatto col Brunello di Montalcino».

E qui al Podere quando siete arrivati? Subito a seguire?
«No. Ci siamo arrivati 14 anni dopo, nel 1989, comprammo questo podere, che era tutto da ristrutturare, con i due soldini che avevamo da parte. Luisa e io eravamo sposati dal 1978; lei aveva due piccoli laboratori di pasta fresca con alcune amiche, io un’aziendina di informatica, erano i primordi, si facevano i soldi abbastanza facilmente.

«Eravamo abbastanza radicati nella nostra zona, ma piano piano si fece strada in noi l’idea di andarci a vivere. Però occorreva mollare tutto. Nel 1993 mollammo tutto. O quasi: ho fatto avanti e indietro per un po’ di tempo. Scendevo per il weekend. Luisa aveva trasformato il Podere in un piccolo agriturismo. Dove vedi oggi la vigna c’erano solo ginestre, peraltro bellissime. Poi un giorno del 1994, passeggiando, vedemmo dall’alto una cosa di cui in cinque anni non ci eravamo mai accorti: in cima a uno degli alberi in basso nel podere, c’erano grappoli d’uva. L’anno dopo, ripulendo con degli amici quella parte del podere, trovammo 900 ceppi di vite, una piccola vigna. Riuscimmo a iscrivere questi 0,08 ettari, cioè un fazzoletto di 800 metri quadrati, a Brunello; del resto era una vigna specializzata, come si dice, aveva almeno 70 anni, secondo me, forse di più».

Tutto è iniziato qui.
«Sì, l’avventura della vigna è partita qui, ma quella del vino è iniziata dopo, grazie soprattutto a un ulteriore colpo di fortuna. Accadde che la provincia di Siena decise di aprire l’albo del Brunello; fu nel 1997. Il provvedimento concedeva a tutti coloro che non arrivavano a un ettaro e mezzo di vigneto di poter piantare Sangiovese da Brunello fino, appunto, a un ettaro e mezzo. E io ci stavo dentro: avevo le mie poche piante, ma qualcosa avevo, ed era iscritto. Ovviamente, non attesi per farlo, terrazzai il versante in modo più rispettoso possibile, arrivai a un ettaro e mezzo e l’ho tuttora. Ho piantato nel 1998 e nel 2000 facemmo la prima vendemmia e ottenemmo il nostro primo Brunello».

Di quali scelte operate nel vigneto sei più orgoglioso?
«La prima e più importante che mi viene in mente l’ho realizzata quest’anno dopo tanto tempo che ci pensavo: non entrare più in vigna col trattore. Entriamo a piedi, con canne lunghe se c’è da dare qualche trattamento, ed è un grande risultato, perché il trattore compatta, fa costipazione, e i microrganismi in un ambiente compatto lavorano poco, e alla lunga l’ambiente si sterilizza. La vigna, la terra, deve essere molto aerata.

«È molto faticoso, ma è necessario, perché permette alla vigna di costituire una convivialità con le altre piante. Non c’è gerarchia: le piante e gli alberi si dividono il luogo. Seconda scelta: non avere paura di avere l’erba. Oggi si muore di caldo, ma se vai in vigna e tocchi il terreno, lo trovi fresco. Quando arriva troppa pioggia tutta insieme, e accade spesso in questi anni di clima quasi tropicale, l’erba la ferma, la drena, la beve in parte. E l’erba aiuta alla costruzione di quella simbiosi con la microfauna del vigneto che si chiama domazia: ci si aiuta a vicenda, per la sopravvivenza dell’ecosistema. Io lascio che tutto ciò che vive nella mia vigna la consideri la migliore casa possibile.

«So che potremmo fare degli errori in questa conduzione, ad esempio squilibrare il rapporto tra prede e predatori a livello di insetti; bisogna stare attenti, osservare. La natura è un ottimo partner, non è una cosa da governare. Al suo interno ci sono tutte le soluzioni per i problemi che una cosa non “naturale” come l’agricoltura può causare. Il controllo biologico del ragnetto giallo e del ragnetto rosso, che possono essere deleteri per la vigna, l’ho condotto inserendo fisicamente nel sistema il suo antagonista naturale, un acaro che si chiama Kampimodromus Aberrans. Io ambisco a essere un raccoglitore, in sostanza, non un produttore di uva, nel senso comune del termine, e non voglio produrre poi il vino, ma ottenerlo».

Come ottieni, allora, il tuo Brunello?
«In modo semplice. Fondamentalmente non facciamo altro che creare le condizioni perché l’uva fermenti. Scegliamo l’epoca di vendemmia valutando elementi dell’acino: come si stacca dal raspo, quanto è maturo il vinacciolo. E poi ovviamente deve avere secondo disciplinare 12,5 gradi di alcol potenziale, e quel parametro lo misuro col mostimetro.

«A seguire, diraspiamo integralmente perché non ho mai avuto una lignificazione soddisfacente del raspo; aspetto che parta la fermentazione in pied de cuve e inoculo nelle vasche; macero ancora per un paio di settimane dopo la fermentazione, il che significa un contatto con le bucce dai 20 ai 25 giorni; e poi svino. So che la cosa non funziona ovunque così, ma nella mia cantina, in questo particolare luogo, alla fine della fermentazione tumultuosa io mi ritrovo sempre a zero di acido malico, segno che è avvenuta e si è completata anche la fermentazione malolattica».

In effetti non è così frequente.
«Ho anche cercato di capire bene perché, e nel 2016, seguito da una équipe di ricercatori, ho condotto un esperimento, solfitando su loro indicazione una parte delle uve alla raccolta, e un’altra no. Mi avevano detto: “vedrai che sul vino fatto dall’uva coi solfiti la malolattica non ti parte”. Alla fine delle fermentazioni abbiamo misurato il malico. Nella parte che avevo vinificato come sempre e senza i solfiti, la malolattica era completa. Nella parte coi solfiti, pure» – e sorride.

E la volatile?
«Ci devo stare attento perché tende a salire, io non finisco mai una fermentazione sotto lo 0,60 di volatile, però non sono mai andato in bottiglia con valori eccessivi, penso sia molto importante per tutelare il vino nel suo percorso che il valore non sia eccessivo. Mi faccio guidare molto dal mio naso, sto imparando a usarlo, piano piano: cerco da lui indicazioni che tutto stia andando per il meglio, che non ci siano eccessi di acido acetico o di etilfenoli, ad esempio.

«Uso poca solforosa, solo quel che credo possa far bene al vino proteggendolo: il mio Brunello 2015 ha 23 di solforosa totale, e i tenori son questi: non usando più lo zolfo da anni in vigna, ho valori di solforosa “spontanea” veramente prossimi allo zero, il Brunello 2018 ha 7 di solforosa e l’ha fatta tutta lui».

Quanto sosta il tuo Brunello nelle botti?
«Tutto il tempo che necessita, a seconda dell’annata, di solito dai 36 ai 45 mesi. Poi va in bottiglia, ci resta almeno un anno e quindi inizio a venderlo. Faccio poco vino, 3.500 bottiglie da un ettaro e mezzo, non uscirà più il Rosso, imbottiglio un quantitativo che neanche ti dico di Ansonica per i miei amici, da una vignetta in Maremma. E va bene così».

Posso farti un’ultima domanda che non c’entra niente?
«Certo».

Cosa ti è rimasto addosso di lombardo, Marino?
«Il senso del dovere. Il senso delle promesse. Il senso dell’ospitalità sincera, non quella melliflua. Qui ho appreso cose basilari, per carità, una su tutte la precisione linguistica. Si vive meglio sapendo dare il valore giusto alle parole, esprimere i concetti con precisione, è una matematica adattata al linguaggio. Di lombardo, riconducibile beninteso al mio retaggio personale e locale, ho però anche cose di cui mi libererei volentieri: il senso della colpa, dell’inadeguatezza, tutti i residui dell’educazione cattolica così come ce la impartivano. È una mano di pittura che non puoi scrostare».

La degustazione

Brunello di Montalcino Poggio Sant’Arna 2013
Prima annata prodotta con questo nome, dalle uve di un singolo cru prima utilizzate in “blend” nel Brunello aziendale; ed è un rosso prodigioso. Il soffio di volatile che lo inaugura non fa che enfatizzare la nota “alta” che questo Brunello esprime, tra rimandi di agrumi, fiori, calcare e alghe marine.

La bocca è succosa, lo sviluppo scattante, la beva irresistibile, il finale un furibondo tourbillon salato che risuona per minuti. «Ho diviso le uve dei miei due appezzamenti per la prima volta, in quest’annata. Non per una particolare qualità del millesimo, bensì perché ho sentito che le uve erano in grado di sprigionare una propria personalità nel vino». Vigna di soli 0,3 ettari piantata nel 2000, su terreni erosi ricchi di sabbia, nella parte meridionale del comune. Meno di 600 bottiglie prodotte. Caccia aperta.

Brunello di Montalcino Santa Maria 2013
Pari annata e procedura identica, ma vigna diversa; ed è un un pianeta distante. Qui la profondità e la maturità del frutto compongono un quadro dal chiaroscuro più convinto. Profuma di spezie, ciliegia, violetta e humus, e ha percorso gustativo sereno, sicuro, vellutato, al cui epilogo si spalanca una sensazione di “respirabilità” e ampiezza che chi scrive faticherà a dimenticare.

Veramente una cattedrale di vino, completo e carismatico, adatto all’invecchiamento e anzi, con ogni probabilità, in assestamento ancora per qualche anno; la pazienza verrà premiata. Viene dai vigneti terrazzati attorno alla cantina (1,2 ha in totale), piantati nel 1998 su terreni piuttosto fertili e con sesto d’impianto “largo”, esposti quasi per intero a nord o a ovest.

Brunello di Montalcino 2012
Da questo millesimo, procedendo all’indietro nel resoconto, i Brunello di Marino Colleoni derivano dall’assemblaggio delle uve dei due corpi di vigna citati. Il 2012, in cui un’estate rovente venne interrotta da un autunno precoce, piovoso e con poca luce, ha un contegno che sorprende. È un rosso monacale, di pensosa ritrosia ai profumi, marcati da note terrose e speziate quasi piccanti, con suggestioni di carruba, corteccia, miele grezzo.

Al sorso, invece, sembra distendersi meglio e più volentieri, entra morbido, porta poi con classe la traccia alcolica dell’annata senza perdere granché in termini di precisione, e sfuma infine sulle citazioni boschive. Non è un Brunello “potente”, contrariamente alle attese; difficile possa più rivelare qualcosa di nuovo, ma ha la tempra per reggere nello stato attuale almeno per un altro lustro.

Brunello di Montalcino 2011
«L’estate non è arrivata fino al 20 di agosto» ricorda Marino «le uve erano immature, non eravamo ottimisti. Poi, tutto cambiò, mise libeccio e toccammo i 43 gradi di temperatura nei vigneti. La parte esposta al sole, nelle settimane che seguirono, si bruciò quasi ovunque, nel comune».

Questo è un Brunello nato, dunque, dagli eccessi: “fa” oltre 14,5 gradi di alcol pur provenendo per gran parte da viti esposte a nord a oltre 500 metri di altitudine (!). Il lascito del meteo del 2011 si coglie immediatamente: è una traccia olfattiva surmatura, tra la frutta nera, il catrame caldo e un tono foxy. Al sorso il vino è denso, materico, tannico, di cospicuo estratto e persistenza “bucciosa”, al sapore di mora e di ribes nero in confettura; manca l’allungo salino. Un monolite, arduo da prevedere nei successivi sviluppi, ma che probabilmente non sarà mai più concessivo di com’è ora.

Brunello di Montalcino 2010
Annata già leggendaria del Brunello, oggetto di incetta e speculazione in taluni contesti. Fermo restando che l’esaltazione “in toto” di millesimi interi in territori complessi come Montalcino sia sempre da guardare con cautela, qui tuttavia lo splendore del vino chiude all’angolo l’assaggiatore diffidente.

A un naso serio, classico e ancora con un che di varietale nelle note di viola, sementi, mandorla, prugna fresca e alloro, segue una bocca di portentosa continuità, bilanciata in tutto, e in particolare nel rapporto tra un estratto rilevante e una piacevole scorrevolezza, propria dei veri, grandi vini. Finisce riecheggiando i rimandi floreali e fruttati colti nel bouquet, a dire di una resistenza non comune al lavorio del tempo. Saremmo tentati di consigliarne ricerca, acquisto e custodia, se non fosse un vino ormai da tempo irreperibile. Tra i migliori esiti della verticale, in ogni caso.

Brunello di Montalcino 2009
Altro gran Brunello, la cui fama è stata probabilmente in parte oscurata proprio dal tambureggiante “hype” sull’annata arrivata dopo. Ha un profumo per cui spendere l’aggettivo “coeso”: difficile andare per descrittori precisi, tanto il senso di saldezza generale e unità aromatica.

Procede tra umori terrosi, tocchi di spezie balsamiche, note di agrumi e accenni “estivi” di paglia e saggina e un frutto maturo e forse generico, ma ancora vitale e succoso. Notevole anche il sorso, di bella calibrazione e dal tannino minutissimo, nel quale la corrente acida è meno energica che in altre annate, ma la cui lunga persistenza ripaga e compensa; la sensazione è di un vino riuscito in tutto, e potenzialmente molto, molto longevo.

Brunello di Montalcino 2008
Una nota sul colore, tra i più vividi e giovanili del lotto. Si tratta di un rosso originale, in assoluto e nel quadro della verticale, fondato sui valori che hanno reso il millesimo uno dei preferiti dagli appassionati del Brunello. Qui, la nota balsamica di menta e corteccia di eucalipto staglia su tutto, incorniciando un “fruttino” di bosco limpido, persino asprigno nella suggestione aromatica; con l’aerazione emergono note più complesse e profonde, la cola e i fiori appena fané, il cuoio e il timo.

L’assaggio comunica un’idea di spazialità e ampio respiro, il tannino incide senza stringere, la struttura è ferma ma slanciata, e all’epilogo dilaga la freschezza. Tipico esito di una vendemmia accolta senza clamori ma formidabile, ancora in traiettoria ascendente. Da cercare.

Brunello di Montalcino 2007
Assaggio quanto mai didattico. Da un’annata ideale dal punto di vista meteorologico e sanitario («Si poteva star seduti a guardare: il sole era brillante, le temperature perfette», rammenta Marino), un Brunello compiaciuto, dalle proporzioni impeccabili ma senza quella incisività che ne caratterizza le riuscite migliori. Il bouquet è da definirsi “classico”, tra la violetta, l’arancia rossa, il terriccio e il rosmarino, e il gusto è morbido e ordinato, relativamente poco tannico, con un passaggio a vuoto lungo lo sviluppo, e una inequivoca diluizione di fondo.

Tre punti forti: la grazia generale, la fedeltà varietale al Sangiovese, la facilità di beva. Tre punti deboli: manca di tempra per conservarsi a lungo, di dinamismo per coinvolgere, e di persistenza per farsi ricordare. Forse, è stata un’annata sin troppo perfetta; e in generale, un’annata perfetta non significa una vendemmia perfetta, e non si risolve in vini perfetti; non sempre, almeno.

Brunello di Montalcino 2006
Primo vino della serie a presentare un nitido indizio evolutivo, più nel senso della “terziarizzazione” che in quello della “ossidazione” in verità. Da un certo punto di vista, questa apertura di spiraglio è un bene: dai nostri ricordi, e dalla testimonianza del produttore, il 2006 di Colleoni è stato un vino di scontrosità eccezionale per anni.

«Era così severo» dice Marino «da sembrare una pietra». Oggi, i frutti rossi dolci in confettura, una nota di miele e polline, le sensazioni terziarie di metallo fuso e idrocarburo, testimoniano – se non proprio un ingentilimento – almeno una piccola concessione espressiva. Anche la bocca è più distesa di qualche anno fa; non manca di vigore nel rigido impianto tannico, ma nell’articolato finale regala suggestioni di frutta e sali minerali, e allunga con sicurezza.

Brunello di Montalcino 2005
Vino meraviglioso, inatteso, pieno di suggestioni: Colleoni ha interpretato il difficile millesimo, ci viene da dire, “facendoselo amico”, anche nelle sue apparenti debolezze. È tutto succo, come da letteratura: ha ancora il suo fruttino asprigno – ricorda il mandarino, o forse il kumquat, anche per via del soffio di acido volatile -, richiama poi la terra battuta e la felce, e con l’aria anche il fungo porcino, via via più netto; dipana quindi al sorso una struttura spedita e longilinea, un passo da maratoneta, che fila via senza peso grazie alla sua costituzione leggera.

Solo 600 bottiglie prodotte come Brunello; il resto (2.000 bottiglie) venne declassato a Toscana Igt col nome di “Anteo”, ma è lo stesso irresistibile rosso che, se ci si passa l’espressione, definiremmo “solderiano”. Intende essere un complimento, oltre che un doveroso ricordo per un altro lombardo, Gianfranco Soldera, che ha trovato – anzi, ha tracciato – una strada tra le colline di Montalcino.

Brunello di Montalcino 2004
Fu millesimo particolarmente generoso per quantità, e per i primi anni i vini si sono fatti onore. Oggi, la quantità di Brunello un po’ provati è sensibilmente superiore a quanto ci saremmo aspettati, e questo del Podere Santa Maria non fa eccezione. In bottiglia, si è andato delineando un profilo fosco e terziario, piuttosto insistito sui toni sanguigni, rugginosi, cupi, quasi “da fonderia”.

Anche il colore ha riflessi bruniti, e all’assaggio è abbastanza stanco, rinserrato in una densità non virtuosa la cui trama appare un po’ lasca e arrendevole, con toni dolci in emersione all’epilogo. Più assaggi coerenti negli ultimi due anni. Sono bottiglie – avendole – da aprire a breve termine, a nostro parere, che daranno quasi sempre la sensazione di aver già dato il meglio.

Brunello di Montalcino 2003 (campione per le analisi)
Vino esaurito da tempo: questa bottiglia, di forma non ortodossa e tappata “a corona” era servita per le analisi di rito. Annata, come noto, estrema: a luglio e ad agosto fece un caldo infernale, con picchi mai registrati in precedenza in Toscana centrale. «Il sole non brillava, non c’era una bella luce. Era afoso, umido, si stava male anche all’ombra», ricorda Marino.

Eppure i vini hanno una grinta incredibile; persino questo, nonostante l’avventurosità della conservazione. Non c’è nulla di geniale, intendiamoci, ma il profilo olfattivo è fresco, fine; vi sopravvive una nota di frutta rossa acidula, con interessanti nuance di tabacco biondo e liquirizia, complessità terziarie di tuberi e fumo, altro che abbiamo trovato difficile da esprimere. Bocca non colossale per struttura, ma ben congegnata, nitida, ben coordinata. Una vera sorpresa.

Brunello di Montalcino 2002
L’alieno della degustazione: in sostanza, non somiglia a nessun altro; in realtà, nemmeno l’annata 2002 somigliava a nessun’altra del recente passato. Dopo 17 anni, ha profumi e odori stranissimi. Nello scompaginato bouquet, qualcosa di medicinale incrocia note di cacao, acqua piovana, iodio, colla e datteri; vi convivono aspetti umidi e aspetti appiccicosi, ma la sensazione che dà è di non riuscire a tenersi insieme, a trovare coesione.

Il tannino tenero e sfuggente, la plateale diluizione, la timida dolcezza del sapore e l’imprecisione dei ritorni, confusi in una sorta di vapore, testimoniano di una stagione che ha infuso nei vini una fragilità evidente. Qui, tuttavia, non troverete un giudizio; solo l’avvertenza di una costituzione molto gracile, e di una prospettiva futura che può deludere chi cerchi un Brunello per trovare robustezza.

Brunello di Montalcino 2001
Annata disgraziata in estese zone di Montalcino, specie al nord, e nata sotto la cattiva stella della gelata del 25 aprile (-3°C) che vanificò tutto quanto fatto dalle piante fino a quel punto. Le viti provvidero a “gettare” nuovamente dalle gemme di corona, ma l’equilibrio del frutto ne risultò sovente falsato e la produzione fu minima: al Podere Santa Maria, meno della metà del solito.

E il vino? Lo abbiamo approcciato senza grandi speranze, francamente. E invece ci siamo imbattuti in una bottiglia straordinaria, al compimento della sua maggiore età: un acquarello aromatico di magnifica varietà, dove cogliere similitudini con i profumi delle rose, del kirsch, del cuoio, della ciliegia rossa, e ancora preziosismi speziati, affumicati e persino marini. Bocca altrettanto complessa, tutt’altro che debole per struttura estrattiva e tannica, capace infine di un allungo mozzafiato per il debordare della sapidità che ne chiude l’indimenticabile, e inattesa, esibizione.

Brunello di Montalcino 2000
Vino da noi avvicinato con la cautela e l’indulgenza con cui si approccia un esperimento, essendo stato ottenuto da viti-bambine, appena alla terza foglia (vigna del 1998). Non abbiamo trovato però nulla da giustificare: che verve, che meravigliosa integrità ha invece ancora oggi, vivo ed espressivo al profumo (miele grezzo, confettura di lamponi, timo-limone, mandorla, rosa canina) e tenace al sorso, ritmato da un tannino arcigno ma altresì innervato da una gran freschezza acida che lo accompagna in crescendo fino all’epilogo. Ossidazione, nemmeno a parlarne. «Probabilmente è stata la fortuna dell’apprendista», si schermisce Marino. E intanto ne prende una nuova sorsata, e noi con lui. Per essere un esperimento, non c’è male.

Tratto dalla rivista “ViniPlus di Lombardia” numero 17 – Settembre 2019

Grazie al direttore Alessandro Franceschini per avere acconsentito alla sua pubblicazione in questo spazio.

One Comment to “«Ho imparato dalla vigna a dire ciò che penso»”

  1. Quel podere che si chiamava Le Sante Marie avremmo dovuta comprarlo io e Simon, mio marito. La proprietà era ipotecata e il padrone voleva venderla ma a modo suo, cosa che a mio padre – il finanziatore – non piacque. così non se ne fece niente. Parlo di più di trent’anni fa quando tutto quello che ha compiuto Marino e sua moglie era ancora in mente dei.
    Sono contenta, molto contenta che sia andata così. Sono contenta di aver compiuto un percorso alternativo che mi ha portato dove sono oggi. Non credo che saremmo stati capaci di ottenere il risultato raggiunto da Marino, anzi ne sono convinta. Marino Colleoni non è solo mio amico, non è solo un meraviglioso interprete del sangiovese di quei luoghi, ma è anche l’unico essere umano da me conosciuto personalmente che sinceramente ammette “Sono felice e lo sono ogni giorno da trent’anni.”

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