di Salvina Pizzuoli

Il pane, che buona invenzione!

Pane toscano

Le origini di questo basilare alimento si perdono lontano nel tempo. La sua storia nasce con la prima coltivazione dei cereali da parte dell’uomo e con i primitivi esperimenti di impastarne i semi con l’acqua. Notizie remote che si legano alla leggenda e alla tradizione mitologica; secondo la mitologia greca infatti fu Demetra, la dea del grano e dei raccolti, la Cerere dei Romani, a donare all’uomo il frumento da cui si ricava la farina per panificare: Demetra e sua figlia Persefone (la Proserpina dei Romani) erano strettamente legate al mito della fecondità della terra e della rinascita dei campi dopo l’inverno, la primavera.

Ma il passaggio dal grano o dai cereali al pane non fu né semplice né rapido.

Sembra accertato che i primi panificatori furono gli egiziani ai quali si deve non solo la costruzione di speciali forni a cupola che permettevano una cottura a temperature elevate, ma soprattutto la scoperta della lievitazione naturale. Subito dopo lo furono i Greci per la loro vicinanza e i continui interscambi con l’Egitto mentre i Romani conobbero l’arte della panificazione successivamente, che si tramanda fosse avvenuta tramite i prigionieri dell’esercito macedone, ma divennero i più raffinati panificatori: affinarono la macinazione ottenendo farine più bianche, nuove forme e l’uso di più ingredienti; si annoverano infatti pani preparati con miele, vino, latte, olio, zafferano, frutti canditi, rosmarino, zenzero, capperi e pepe. I primi pistores (fornai, mugnai), comparvero nella Città Eterna già nel II secolo a.C., fino ad allora i Romani avevano consumato i cereali prevalentemente sotto forma di pappa o purea chiamata puls, una sorta di polenta ottenuta con i grani di farro schiacciati e poi bolliti in acqua e sale.

Esempio di silos ipogeo
Resti di sacco per grani presso Miranduolo, Siena

Un documento interessante, per conoscere l’utilizzo e la diffusione del pane nel Mediterraneo, è il resoconto dettagliato delle spese sostenute da Teofane, un uomo d’affari che si spostava con alcuni servitori da Hermopolis ad Antiochia agli inizi del IV secolo d.C., da cui si ricava quanto il pane fosse alimento basilare nell’alimentazione, senza grosse distinzioni di censo: pane raffinato per l’uomo d’affari e gli eventuali ospiti e pane comune per i servi, ma essenzialmente pane! Se il nostro viaggiatore poteva approvvigionarsi in forni pubblici presenti nelle città, la presenza di forni collettivi, in aree poco edificate o ai margini degli agglomerati urbani, è testimoniata dal ritrovamento in tutta la regione mediterranea, di un numero notevole di timbri, in terracotta o in metallo o in legno, per contrassegnare e distinguere dopo la cottura il pane preparato dai singoli.

La lievitazione e  la cottura in forni appositi avevano costituito un passaggio importante per la preparazione del pane, non da meno era stato il cammino per la conservazione delle sementi durante il ciclo annuale.

Una pagina interessante è quella che racconta la conservazione dei cereali e dei grani che venivano sistemati in silos ipogei, antico sistema menzionato da Plinio nella Naturalis historia, che ne garantivano la conservazione proprio perché veniva a crearsi un ambiente anaerobico; veniva pertanto scelto un terreno capace di assorbire e smaltire l’umidità dei prodotti. Il termine silos potrebbe creare dei fraintendimenti, ma venne usato dal XIX secolo in poi come sinonimo di fossa granaria, ovvero fovea ad tenendum granun. Molti i silos ipogei ritrovati in Toscana: in varie località tra Siena e Grosseto, che si caratterizzano per la loro forma cilindrica o ovoidale con l’imboccatura circolare e una profondità variabile tra 60/80 cm sino a 1,5 m circa le cui bocche erano chiuse con coperchi in legno posti sopra un rialzo in mattoni per facilitare la chiusura. Fosse che spesso occupavano parte di una capanna proprio perché il popolo continuò a produrre in casa pane di bassa qualità, con cereali poveri come orzo, avena, miglio e sorgo, cotti o tra le braci del camino, solo successivamente i fornai vennero riuniti in corporazioni, come accadde in epoca comunale, spesso uniti ai mugnai.

Sempre nella Naturalis historia Plinio rammenta Pisa, Arezzo e Chiusi tra le località toscane produttrici di grano tra i più apprezzati. Pistoia ad esempio porta nel toponimo la storia del proprio territorio intrecciata con quella del pane: da pistor-oris, ovvero mugnaio. Fu la sua posizione, in prossimità degli Appennini verso Bologna e Piacenza, a renderla luogo precipuo di approvvigionamento per gli eserciti in transito divenendo fondamentale proprio per questa sua functio pistoriae, cioè fornitrice di vari tipi di pane. Sempre la toponomastica annota la preponderanza di mulino o molino nella zona intorno ad Altopascio. Singolare la storia dello “spedale” di questa città che era collocato lungo la via Francigena e che pare fornisse pane ai pellegrini e agli ammalati, un pane speciale, bianco, leggero, digeribile e soprattutto sano.

Non è precisa la data di nascita dell’ospitale, che si colloca intorno al Mille, ad opera di dodici gentiluomini lucchesi, sulla via Romea o Francesca, più conosciuta come Francigena, in un tratto sguarnito di ospitali, in un luogo difficile per la presenza di paduli e boscaglie, ma fondamentale come nodo viario tra la piana lucchese la Valdinievole e il Valdarno e quindi Firenze e Arezzo e Roma lungo la Cassia vetus.

Altopascio la torre campanaria e le mura del vecchio ospitale

Dotato di un porto ogni giorno vi giungevano mercanzie di ogni tipo da Livorno e Pisa e soprattutto un’enorme quantità di grano.

Perché pane sano?

Nei centri spedalieri ci si recava non solo come pellegrini di passaggio ma anche per curare quelle malattie che erano determinate da una cattiva alimentazione: il riferimento è all’ergotismo, un morbo determinato dal pane di segale contaminato dal fungo Claviceps purpurea, che ad Altopascio, quando ancora il nesso tra malattia e pane cattivo non era del tutto nota, si curava con il pane buono di frumento.

E non solo.

Dalle cronache di viaggio tra l’XI e il XII secolo Altopascio era uno dei punti di sosta più importanti, una trentina in tutto lungo il tratto toscano della Francigena dove era possibile trovare non solo un giaciglio o rifocillarsi, ma avere a disposizione anche un cerusico in caso di malattia: la lucchesia contava infatti su una fitta rete non solo di “spedali” ma anche di centri termali per le malattie della pelle.

Come non citare insieme al pane pregiato di Altopascio il suo proverbiale “calderone” nato nei tempi bui delle carestie, dove bollivano ingredienti poveri, ma che avrebbero offerto ai pellegrini e agli indigenti un pasto caldo insieme all’immancabile pane, magari raffermo, che bolliva nel calderone insieme a legumi e verdure, forse una ribollita ante litteram.

Non a caso quindi Altopascio meritò il nome di città del pane perché nel suo “spedale” se ne distribuiva in abbondanza, proprio perché alimento adatto a tutte le età e comodo per il viandante, reso famoso nel tempo per la bontà del grano e dell’acqua e che ancora oggi è pane toscano di qualità.

Marchio collettivo del pane di Altopascio

Articoli correlati:

Altopascio: un antico “ospitale” sulla via Francigena nel segno del Tau

Microstoria in cucina: il pane toscano e la pappa al pomodoro

Microstoria in cucina: la panzanella toscana

Microstoria in cucina: la ribollita


Per approfondire:

LA CIVILTÀ DEL PANE Centro studi longobardi. Ricerche 1-  2015

FONDAZIONE CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO SPOLETO

Storia, tecniche e simboli dal Mediterraneo all’Atlantico