Beppe Grillo tradito dai suoi “miracolati”. Il M5S consuma l’ultimo parricidio

Carlantonio Solimene

E poi viene il giorno in cui cominci a sentirti un estraneo in casa tua. E non importa se quelle mura le hai edificate tu. Conta solo che i tempi sono cambiati e non sei riuscito a stare al passo. Sei solo una presenza ingombrante e fastidiosa. Come quei nonni che parlano, parlano, ma nessuno più li ascolta. Ognuno, ormai, fa di testa sua.

Dev’essersi sentito così Beppe Grillo al termine della sua paradossale, confusa e inconcludente tre giorni romana. Era arrivato per riportare ordine nel Movimento, se ne è ripartito con la consapevolezza che la sua moral suasion non sortisce più alcun effetto. Peggio: nella sua creatura politica il sentimento più diffuso è l’insofferenza nei confronti del fondatore. Perché dopo le giravolte, l’attaccamento alla poltrona, le faide e le scissioni, il Movimento 5 stelle ha introiettato anche il vizio peggiore della politica tradizionale: l’ingratitudine.

Il post comparso sui social di Paola Taverna (e addebitato a un «errore di un collaboratore»…) ha rappresentato un flash di verità: «Il Movimento non è tuo, Beppe. Noi siamo tutti con Conte». I fatti hanno confermato con crudezza quelle parole. A partire dal «complottone» ordito ai danni del fondatore: le sue frasi usate da De Masi in un’intervista al Fatto per mostrare plasticamente ai militanti chi fosse il vero responsabile delle umiliazioni subìte da Draghi e per riportare Conte al centro della scena.

Così Grillo, dopo essersi sentito tradito da chi credeva amico (lo stesso De Masi, il direttore del Fatto Travaglio) e dai suoi «miracolati», furiosi per la conferma del tetto dei due mandati, ha abbandonato il campo. Ha rinunciato alla riunione con i membri pentastellati del governo e ha tolto il disturbo. Ferito anche nell’orgoglio: all’incontro con i senatori ad attenderlo nell’anticamera c’era il solo Cioffi. Gli altri erano distratti o in ritardo. Che differenza con i «bei tempi», quando c’era la fila per un selfie o solo per una battuta. Anche perché, va detto, pure del repertorio comico non è che sia rimasto un granché. Le solite stilettate ai giornalisti, sempre più stanche e ripetitive, qualche guizzo isolato («Conte se ne va con Di Maio»), altre uscite che hanno strappato giusto risate di circostanza («scusate, squilla il telefono, è Draghi»).

La stessa diatriba sul doppio mandato è significativa. Lo strumento che, ufficialmente, dovrebbe servire a evitare che nascano dei professionisti della politica più attenti a quello che avviene nel Palazzo che nella società, aveva nelle intenzioni del fondatore soprattutto un’altra funzione: quella di evitare che si affermassero nuove leadership in grado di fare concorrenza alla sua. Ora, però, nessuno più condivide la regola. E tutti contestano il potere di Grillo di decidere vita e morte di intere carriere istituzionali.

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