Formazione Permanente – italiano – 2021

Una risposta cristiana sui cambiamenti climatici
di Rowan Williams

Nei giorni della COP 26 ci piace riproporre questa bella riflessione del vescovo anglicano Rowan Williams, pubblicata nel 2010, nella quale sottolinea la responsabilità dell’uomo nei confronti di ogni forma di vita, a partire dalla figura di Noè.
Rivista Vita e Pensiero

Se c’è qualcosa che quasi tutti ricordano riguardo a Noè e al diluvio, è che l’Arca era piena di animali. Grazie a tante canzoni popolari – tra cui la canzoncina per bambini I due liocorni, che probabilmente tutti noi abbiamo ascoltato in occasione dei saggi della scuola elementare – e a un vasto assortimento di libri illustrati e fumetti, viene spontaneo pensare a Noè circondato dagli animali che erano saliti sull’Arca a coppie. Tralasciando per un attimo le complicazioni del testo biblico e la distinzione tra le sette paia di animali ritualmente puri e il paio di animali impuri, la storia dice chiaramente che il futuro dell’umanità è inscindibile dall’assicurare un futuro a ogni essere vivente. Quelli che Noè raccoglie non sono semplici esemplari di fauna, ma coppie atte a riprodursi, e quando le acque si sono ritirate a queste viene rivolto il famoso invito di andare e moltiplicarsi (Gen 8,17). A Noè viene affidata la responsabilità della perpetuazione di quello che oggi verrebbe definito un “ecosistema”. La storia biblica di Noè riecheggia volutamente la storia della creazione stessa, di cui riprende anche molte frasi e parole. Le storie della creazione in Genesi 1 e 2 mostrano la creazione dell’uomo come creazione di una persona che si prende cura del mondo naturale e lo protegge, riflettendo la cura di Dio stesso che apprezza la bontà di ciò che ha fatto. Con Noè quella cura viene espressa attraverso l’offerta di un futuro in cui umanità e regno animale condividano lo stesso spazio. Afferma il teologo Michael Northcott: «Contrariamente all’arrogante distruzione inflitta alla terra dai suoi brutali vicini, Noè si sottomette con pazienza alla richiesta di umili cure per i molti animali che vuole salvare dalla distruzione» (A Moral Climate. The Ethics of Global Warming). L’immagine di Noè che chiama a raccolta gli animali nell’Arca potrebbe anche rievocare quella di Dio che porta gli animali ad Adamo affinché dia loro un nome (Gen 2,19): una volta sulla scena, l’umanità deve stabilire il proprio rapporto con il mondo naturale, un rapporto in cui si dà importanza all’intero mondo degli esseri viventi attraverso il riflesso umano della cura sostentatrice di Dio.

Interpretare la Genesi come se autorizzasse lo sfruttamento, da parte dell’uomo, del resto del creato è un grosso errore. Nel testo biblico risulta chiaramente che l’umanità, se avulsa dal mondo composto da diverse forme di vita di cui essa è parte integrante, è insignificante. La storia del diluvio finisce con la stipula di un patto, di un trattato vincolante, non soltanto tra Dio e l’umanità, ma tra Dio e tutti gli esseri viventi (Gen 9,8-17): Dio si dedica alla vita, alla continuazione della vita sulla Terra, e qualunque cosa accada Egli non lascerà scomparire la vita. Sebbene il punto focale della storia sia il regno animale, è chiaro che gli orizzonti del testo biblico si estendono ben oltre. Non è affatto il caso di pensare che quel patto con Dio significhi per l’uomo avere a disposizione un assegno in bianco. Il testo specifica che la promessa di Dio ha implicazioni immediate e ben precise riguardo al nostro comportamento verso ogni essere vivente, umano e non. Non si tratta di una ricetta per l’autocompiacimento o la passività.

Letta in questo modo, la Bibbia sembra dirci che la creazione trova il proprio centro in tre diversi aspetti: la possibilità di vita, la trasmissione della vita e la diversità interrelata della vita. Se l’umanità è la suprema possibilità creativa – la forma di vita che riflette l’amore e l’intelligenza del Creatore –, essa deve mostrare qualcosa della natura di Dio all’interno della creazione, e dunque la principale peculiarità dell’umanità diventa il suo ruolo di protettrice della vita in genere, non soltanto di quella umana. Si tocca qui un punto cruciale, e tuttavia non l’unico, dell’interdipendenza tra tutte le cose viventi. Ne consegue che per l’umanità essere al centro della creazione non vuol dire avere privilegi e poteri esclusivi sul creato, ma anzi non poter essere immaginata senza tutte le altre forme di vita che rendono possibile la sua esistenza e che a sua volta essa serve e protegge. Se questo è vero, il rispetto per l’umanità è legato al rispetto per la vita in ogni sua diversa forma.

Uno dei più grandi pensatori cristiani del XX secolo, Karl Barth, nel discutere le basi dell’etica (Church Dogmatics III.4) fa un uso decisamente creativo del rispetto della vita come categoria di base. La vita, osserva, è qualcosa che non si può possedere, ma soltanto vivere. È qualcosa che si sviluppa attraverso il tempo, di cui si fa esperienza come dono, non come proprietà, qualcosa che diventa reale nel rapporto con il Creatore. La Genesi ci dice chiaramente che siamo chiamati ad assumerci la responsabilità del mondo non umano e che in tal modo esprimiamo e attiviamo il nostro rapporto con il Creatore, la nostra realtà fatta a immagine e somiglianza di Dio. È così che il Creatore ha legato la sacralità della vita umana a quella della vita in genere. Non possiamo comprendere e valutare la dignità umana se prescindiamo dall’impegno dell’uomo nei confronti di tutte le altre forme viventi, vegetali e animali, dalla biodiversità della foresta pluviale alle molteplici specie di api impollinatrici.

Nelle discussioni tra cristiani sull’etica ambientale non capita spesso di sentir parlare di una visione etica basata sulla riverenza verso tutti gli aspetti della vita. Credo invece che questa visione meriti un ulteriore approfondimento. La storia di Noè – e il messaggio etico ebraico e cristiano che ne deriva – delinea una precisa concezione della vocazione umana, che ha a che fare con la cura e la conservazione di ogni forma di vita, con il futuro della vita stessa. Alla fine della storia del diluvio, Dio promette che la vita non sarà completamente distrutta, ma questo non ci esonera dalla responsabilità di affrontare ogni forma di grave crisi e minaccia. Agire in modo da proteggere il futuro del mondo naturale significa sia accettare una responsabilità assegnata da Dio, sia rendere giusto onore alla straordinaria dignità data all’umanità stessa. In termini teologici significa accettare la rinnovata dignità e autorità umana che fluisce dal dono di sé di Cristo e della Sua risurrezione, essa stessa segno della sollecitudine di Dio per il mondo materiale e del Suo impegno a trasfigurarlo. Così, il rispetto dell’uomo per il mondo materiale vivente e il rispetto di sé sono tutt’uno. Il ripristino o la salvezza dell’uno sono legati al ripristino o alla salvezza dell’altro.

Assumersi la responsabilità della vita

Da uomini, viviamo dunque in un modo che onora e protegge la vita sul nostro pianeta? O, per meglio dire, viviamo in un modo che dimostra la nostra reale comprensione del fatto che viviamo in un mondo condiviso, che non ci appartiene semplicemente? Questa sarebbe una buona domanda anche se non ci trovassimo di fronte alla minaccia del surriscaldamento globale, della riduzione della biodiversità, della desertificazione e deforestazione, della carenza di combustibili e di risorse alimentari. È una domanda che dovremmo porci a prescindere dalla sua attuale impellenza, proprio perché interpella il nostro vivere “umanamente”, il nostro dimostrare che comprendiamo e rispettiamo il fatto di essere una singola specie all’interno del creato. La natura di questa crisi può facilmente portarci a dichiarare che non vale la pena di cambiare i nostri modelli comportamentali, in particolare i nostri modelli di consumo, perché ormai è troppo tardi per arrestare il ritmo del surriscaldamento globale. Tuttavia, concentrarsi solo su quanto sia tardi rischia di renderci ciechi di fronte a un aspetto ancor più basilare. Restare intrappolati in uno stile di vita che non rende onore a chi e cosa siamo, perché non rende onore alla vita stessa né alla nostra missione di sostentarla, non ci permette di capire da che parte cominciare ad affrontare questa sfida ambientale.

Nel suo straordinario libro, Hell and High Water. Climate Change, Hope and the Human Condition, Alastair McIntosh spiega come i nostri attuali modelli di consumo da lui definiti «ecocidi» diano dipendenza e siano autodistruttivi: vivere seguendo quei modelli significa vivere al di sotto di livelli propriamente umani. McIntosh suggerisce che per liberarcene dovremmo sottoporci a una terapia che chiama «psicoterapia culturale». Non ci è dato sapere se una tale liberazione potrebbe essere sufficiente per scongiurare il disastro; ciò che sappiamo – o che dovremmo sapere – è che stiamo vivendo in modo disumano. Partendo da questa consapevolezza, il vero significato di ogni piccolo cambiamento ci apparirà ovvio. Se mi chiedo a cosa può servire riciclare la modesta quantità di spazzatura che produco, o ridurre i miei spostamenti aerei, la risposta non sarà che questo mio agire salverà il pianeta nell’arco di sei mesi, ma che rappresenterà un altro passo avanti verso la liberazione da un ciclo comportamentale che mi sta tenendo – che in realtà sta tenendo molti di noi – in una condizione di pericolo per la nostra dignità umana e il nostro amor proprio. La prima cosa da fare è dunque riconoscere che la crisi ecologica fa parte della crisi della nostra umanità, insita in un processo generale di perdita della percezione di ciò che è spiccatamente umano, che va avanti da secoli e che talune culture ed economie hanno esportato con determinazione in tutto il mondo. Questa perdita si manifesta in molteplici modi. Ha a che vedere con l’erosione dei ritmi di lavoro e tempo libero, che porta all’abbandono del vecchio modello della sequenza dei giorni di lavoro interrotta da un giorno di riposo; con la mancanza di pazienza, il non volere aspettare il passare del tempo, al punto che la velocità della comunicazione è diventata un bene essa stessa, un’impazienza che si riflette nella mancanza di rispetto e attenzione per chi è molto vecchio o ancora molto piccolo; con la paura di invecchiare; con l’incapacità di accettare i rischi di vivere con un corpo materiale in un mondo materiale. Le conseguenze di questa perdita sono diventate platealmente evidenti nel corso della crisi finanziaria degli ultimi tempi. A poco a poco siamo diventati dipendenti da fantasie di benessere e crescita economica, da sogni di ricchezze senza rischi e di profitti senza costi.

Alcune abitudini di vita tipiche della parte più ricca del mondo ci distanziano dalla nostra umanità proprio separandoci dai processi della vita stessa, dall’esperienza del tempo e della crescita, e dalla morte come qualcosa di inevitabile. Negli ultimi anni sempre più spesso si è assistito alla mancanza di correlazione tra prosperità economica e benessere, e la sperequazione sociale è diventata uno degli indicatori più affidabili della mancanza di benessere. Non dovrebbe essere necessaria una crisi ambientale per farci aprire gli occhi sul fatto che i Paesi ricchi hanno perso pericolosamente contatto con la vulnerabilità e l’insicurezza di coloro che vivono nelle regioni meno sviluppate del mondo. Questa crisi ha fatto emergere – come poche altre cose avrebbero saputo fare – il vero prezzo dell’illusione. Dobbiamo chiederci se il nostro dovere di prenderci cura della vita sia compatibile con l’incrollabile convinzione che il futuro di ogni economia sia una crescita incontrollata. Se il risultato di una crescita incontrollata è un isolamento sempre maggiore dalla vita – dalle complesse interrelazioni che ci rendono ciò che siamo, ovvero parte della complessa rete di esistenze sul pianeta – allora non possiamo continuare a crescere indiscriminatamente in termini economici senza andare incontro alla morte di ciò che è più spiccatamente umano, alla morte di quelle abitudini che hanno senso in un mondo condiviso, dove la vita deve essere sostenuta mediante la collaborazione non solo tra esseri umani, ma anche tra esseri umani e il loro mondo materiale.

Ovviamente non possiamo negare che la crescita economica sia un potente stimolo all’emancipazione umana. È giusto lavorare per un mondo in cui vi sia la certezza di un lavoro, di cibo e di cure mediche per tutti, e cercare di creare economie locali che rendano prospere le società attraverso il commercio e l’innovazione. Ma la domanda sempre più impellente è se esistano modelli macroeconomici che ci permettano di considerare l’investimento nelle infrastrutture pubbliche e lo sviluppo di tecnologie sostenibili come priorità per un’economia sana, piuttosto che come semplice crescita di potere di consumo.

Nel suo nuovo libro, provocatorio e originale, Why We Disagree About Climate Change, Mike Hulme sostiene che le ansie riguardo al surriscaldamento globale, e relative questioni, sono in realtà un’utile occasione per riflettere seriamente su temi fondamentali inerenti alla nostra situazione sociale ed etica. Egli cita le sorprendenti dichiarazioni di un ex ministro canadese secondo cui, anche se risultasse che la scienza si fosse sbagliata sul mutamento climatico, ciò avrebbe comunque fornito un ottimo stimolo per costruire un mondo più equo e giusto. Certo, una simile affermazione può essere pericolosa. Non sono poi così sicuro che fare tesoro degli errori della scienza sia utile, e di certo non è utile offrire un appiglio a chi intende fomentare lo scetticismo attorno alle affermazioni della scienza sui mutamenti climatici. Probabilmente si tratta di riuscire a considerare la questione non soltanto come un esercizio di problem solving. Hulme suggerisce che affrontare le varie problematiche legate ai cambiamenti climatici ha a che vedere con una giustizia di base, capace di mobilitare il potere, ben più che un semplice approccio basato sulla paura della catastrofe, che può avere un effetto paralizzante. Dobbiamo pensare a questo come a un invito a fare ciò che è di per sé buono e vivificante, un invito a essere più umani.

A immagine e somiglianza di Dio

Per riassumere quanto fin qui detto: vivere in un modo che non metta a repentaglio il pianeta significa vivere autenticamente la nostra umanità come immagine e somiglianza di Dio. Rendiamo giustizia a ciò che siamo quando rendiamo giustizia alla diversità della vita che ci circonda; diventiamo ciò che si suppone dobbiamo essere quando ci facciamo carico delle nostre responsabilità affinché la vita sulla Terra continui. Questo invito a rendere giustizia porta con sé l’invito a rivedere ciò che intendiamo con i concetti di crescita e ricchezza. Invece di lanciarci alla disperata ricerca di un’idea grandiosa che ci salvi dal disastro ecologico, siamo chiamati a cambiare gli obiettivi individuali e sociali così da avvicinarci alla realtà della vita interdipendente di un mondo variegato, al di là dell’effettiva capacità di salvare il pianeta.

La minaccia del cambiamento climatico e del degrado ambientale tende a farci riflettere sulla sopravvivenza, e a cercare soluzioni che la garantiscano, ma la notevole complessità della situazione e della continua incertezza riguardo ad alcuni dettagli (quanto è tardi? abbiamo già raggiunto l’orlo del baratro?) ci rende particolarmente vulnerabili. Prima o poi dovremo accettare che non ci sono soluzioni semplici e che non esiste un’unica causa di tutta la crisi, che magari ci permetta di individuare un unico capro espiatorio. A sua volta, questa situazione porta al panico da una parte e all’apatia dall’altra, e all’illusione che qualcuno possa farsi carico della responsabilità di trovare una risposta, il che solitamente comporta una serie di grandiose soluzioni tecnologiche che richiedono massicci investimenti di denaro che nessuno sembra però avere.

Propongo dunque di riformulare la domanda in questi termini: quando ci troviamo di fronte a una situazione di grande insicurezza come questa, quando percepiamo che abbiamo in qualche modo sacrificato la nostra felicità, che cosa abbiamo perso? E cosa possiamo fare per recuperarlo? A una simile domanda si può rispondere efficacemente solo se abbiamo chiaro il quadro delle capacità e responsabilità umane. E indubbiamente su questo punto l’impegno religioso può offrire al dibattito sull’ambiente un prezioso contributo. Qui il ruolo della religione non è evocare un’autorità suprema che può minacciarci e obbligarci a comportarci meglio, ma tenere ben viva la visione di una vita umana vissuta in modo costruttivo, pacifico, gioioso, in un rapporto ottimale tra creazione e Creatore, e mettere in evidenza la tragedia di un’umanità rattrappita e tormentata che ci siamo tirati addosso con la nostra ossessione per la crescita e il consumo.

Perciò, senza minimizzare le devastazioni inflitte all’ambiente materiale dall’industrializzazione, possiamo affermare che l’anima dell’uomo è una delle principali vittime del degrado ambientale, nel senso che i processi di danno ambientale hanno sia riflettuto sia intensificato un malessere spirituale di base. Molte delle cose che ci hanno spinto verso il disastro ecologico sono distorsioni della nostra percezione di chi e cosa siamo, che hanno sortito l’effetto di isolarci sempre più dalla realtà di cui facciamo parte. La nostra reazione alla crisi deve essere dunque la più basilare possibile, in una rinnovata conoscenza delle circostanze della nostra interdipendenza con il mondo materiale e nella riscoperta delle nostre responsabilità nei suoi confronti. Ecco perché quei piccoli gesti che fanno cambiare le abitudini personali e le azioni a livello locale sono tanto importanti. Se crediamo nella trasformazione a livello locale e individuale gettiamo solide fondamenta per un cambiamento anche a livello nazionale e internazionale. Non si tratta di due strade alternative, ma di aspetti di un unico impulso essenziale, quello a ristabilire una sana relazione con il nostro mondo.

Ne abbiamo fatta di strada dal Monte Ararat, a quanto pare. Secondo la visione biblica del mondo, essere umani significa vedersi affidata la responsabilità per il futuro della vita. Perciò, quando sopprimiamo le possibilità di vita, quando ignoriamo il bisogno di una diversità equilibrata, o ci dimentichiamo di quanto siamo ignoranti riguardo ai suoi complicati meccanismi, ci abbassiamo a un livello inferiore all’umano. La creazione, l’ambiente globale, è un sistema orientato verso la vita e, in definitiva, verso una vita intelligente e amorevole, poiché nel Creatore non vi è differenza tra vita, intelligenza e amore. La visione biblica non ci presenta un’umanità isolata dai processi di vita che hanno luogo nell’universo; al contrario, ciò che contraddistingue gli umani è il dono di una responsabilità consapevole e intelligente verso la vita che condividono nell’ambito dei più ampi processi nel mondo. Poiché, in diversi gradi, questa vita riflette la vita eterna di Dio, noi credenti dobbiamo affermare che all’interno del creato le possibilità di vita non si esauriscono mai: c’è sempre un futuro. E in questo contesto particolare, su questo pianeta in particolare, il futuro dipende in gran parte dalla nostra capacità di lavorare congiuntamente e con ingegno, dalle azioni di ciascuno di noi. Non meno importante è il fatto che la nostra stessa dignità umana è legata a queste azioni. Ciò che ci troviamo ad affrontare oggi non è altro che la scelta di quanto autenticamente umani vogliamo essere; il ruolo della fede religiosa è fondamentale per delineare un quadro persuasivo di come sarebbe un’umanità riconciliata sia con il Creatore che con il creato.

La storia cristiana delinea un modello di riconciliazione con un mondo alienato: ci racconta di una vita umana materiale abitata da Dio e altamente trasfigurata dalla morte; della spartizione di cibo materiale che ci rende compartecipi alla vita eterna; di una comunità la cui vita assieme cerca di esprimere la cura del Creatore all’interno del creato. Per citare Mosè e san Paolo, questo messaggio non è lontano da noi, in cielo, o sepolto sottoterra: è vicino, sulle nostre labbra e nei nostri cuori (Rm 10,6-9; Dt 30,11-14). E, come dice ancora Mosè: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male […] scegli dunque la vita» (Dt 30,15,19).

Rowan Williams

Rowan Douglas Williams, barone Williams di Oystermouth, è un arcivescovo anglicano e teologo britannico, 104º arcivescovo di Canterbury dal 2003 al marzo 2013.

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