“Squid game”. La morte l’universo e tutto quanto

Difficilmente una serie tv è qualcosa di diverso, profondamente diverso, da quasi tutto quello che hai già visto.

Non nascondo che inizialmente non volevo vederla, perché l’avevo equivocata con le serie splatter e inutilmente violente che non apprezzo. Poi ho iniziato a sorseggiarla, convinto dalle recensioni, e sono rimasto folgorato. Quattrocentocinquantasei persone, tutte in enormi difficoltà economiche, vengono invitate a partecipare ad un misterioso gioco di sopravvivenza. Devono gareggiare in una serie di sei giochi per bambini per vincere un premio milionario. Chi perde, muore.

Una narrativa profonda e delicata, umana, a tratti commovente fino alle lacrime. Personaggi verticali, abissi, vittime, quasi tutti e per motivi diversi, di un mondo crudele e cinico che assomiglia al nostro, poco più in là delle nostre case. Ambientazione clamorosa, in una Corea del Sud opaca, buia, piovosa. Dialoghi importanti, taluni indimenticabili.

E in mezzo la capacità, per quasi 9 ore, di accarezzare ogni sentimento possibile, ogni dinamica umana, dall’invidia alla rassegnazione, dall’amore alla vendetta.

Complimenti alla produzione Netflix migliore che abbia visto negli ultimi mesi e sicuramente tra le migliori in assoluto.


Questa la risposta che un partecipante da a un altro che vorrebbe convincerlo ad abbandonare il gioco mortale: “Non ho una casa a cui tornare. Qui almeno ho una possibilità, ma là fuori? Là fuori non ho niente. Restiamo, continuiamo fino alla fine! Meglio stare qui e morire tentando, che morire là fuori come un cane.

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