L’assassinio intorno a noi

Giorgio Scerbanenco, “I centodelitti”, La nave di Teseo,  2019

Giorgio Scerbanenco fu un uomo dalla vita e dalla scrittura irregolari e intense, almeno fino a quando il successo come scrittore di storie poliziesche non gli arrise, facendolo divenire se non il capostipite, certamente il “maestro” per antonomasia del giallo italiano.

Nato a Kiev nel 1911, da madre italiana e padre ucraino, giunse a Roma, con la madre, all’età di sei mesi. Perse molto presto entrambi i genitori, da cui una carriera scolastica che lo vide non completare neppure le scuole elementari, costretto a lavorare fin da bambino per poter vivere, dedicandosi tuttavia con passione alla lettura e alla scrittura.

Dopo vari mestieri, giunse presto al giornalismo, dove, da subito, iniziò a tenere rubriche (“Posta del cuore”, dialogo con i lettori) e a pubblicare brevi racconti. 

Dopo un’esperienza alla Rizzoli, a soli ventisei anni divenne caporedattore dei periodici Mondadori, iniziando in breve tempo a pubblicare racconti, di vario genere, su periodici, in particolare femminili.

La sua scrittura, che combinava la necessità di guadagno con una grande, naturale, capacità di inventare storie, si esercitò, pur senza molto successo, con prove nei generi più diversi fino a che, con il suo primo romanzo, Sei giorni di preavviso, uscito nel 1940 – protagonista l’archivista della polizia di Boston Arthur Jelling –  trovò una propria voce originale nel genere giallo.

Con questo protagonista, Scerbanenco pubblico cinque storie, che dunque debbono aver avuto un buon riscontro da parte dei lettori ma il grande successo, anche internazinale, arrivò con la serie delle storie di Duca Lamberti, un medico radiato dall’ordine e condannato al carcere per il reato di eutanasia, divenuto investigatore. 

Ed ecco, ritrovandomi felicemente sulle pagine, ora, di una raccolta di suoi racconti, gialli e anche no, mi avvio a proporli partendo da una “confessione”: non ho mai fatto parte degli appassionati lettori di Scerbanenco, un autore che, finora, mi aveva sempre, in parte, respinto.

Da vecchia lettrice di gialli, tutt’altro che affetta dal considerarli, per loro natura, un “genere minore”, ho, direi ovviamente, apprezzato il paio, non più, di storie di Scerbanenco che nel tempo ho letto. Ne ho riconosciuto la qualità e purtuttavia non mi ero mai decisa a prenderne in considerazione l’autore per questo spazio. 

Mai, fino ad ora, Giorgio Scerbanenco era entrato a far parte dei miei autori di riferimento; rimanendo, tuttavia, per me, quasi una specie di domanda aperta; che chiedeva di trovare risposta.

Mi ero sempre chiesta cosa, in Scerbanenco, trovasse in me una chiusura all’ascolto. Per poi soprassedere. La risposta era, dopotutto, nelle cose: esistono autori che non si riesce ad incontrare. 

Il mio primo incontro con Scerbanenco era avvenuto con “Venere privata”, che credo di aver terminato con fatica, e noia: ero giovane, troppo per una storia molto dura, immagino, ma soprattutto i miei eroi dovevano ancora essere il buono/il cattivo, il bianco/il nero,  senza ombreggiature: difficile ingabbiare così un personaggio come Duca Lamberti.

Non saprei dire, qualcosa mi ha sempre frenato dall’amare, oltre ad apprezzare, questo autore; qualcosa come la sensazione di non riuscire ad individuare una chiave di lettura capace di mettermi in sintonia con – il personaggio? L’autore?

Ne è derivato un richiamo cui ho, nel tempo, saltuariamente ed inutilmente, cercato di dare risposta. La strana sensazione di respingimento è rimasta.

Fino a questa sua opera, che non conoscevo; e che mi ha posto dinanzi a una possibilità: amo i racconti; li ho sempre ritenuti un genere che, se mi passate l’espressione, non consente menzogna.

Il racconto, come la poesia, è un genere che supera mode del momento, furbizie tecniche, ammiccamenti al lettore. Pure se, va detto, non è molto frequente che un buon autore di racconti sia anche un buon romanziere. Avviene, tuttavia, che l’autore di ottimi racconti, l’autore il cui metro è per l’appunto, quello, venga spinto, indotto, a misurarsi con il genere romanzo – dall’editore? Da se stesso? essendo reale l’appeal inferiore, in termini di vendite, di un volume di racconti il cui successo, nel caso, potrà seguire il nome e l’opera di un romanziere già affermato; mai confrontarsi alla pari.

Profondamente ingiusto; così come è ingiusto che un poeta non ottenga, dal mondo dei lettori, grande fama e tuttavia, per certi versi, profondamente giusto: esistono opere, e generi, di nicchia; per loro natura destinati a un pubblico specifico, senza che questo abbia di necessità a che fare con una maggior competenza del lettore; e pure senza che, di necessità, abbia a che fare con il valore intrinseco dell’opera.

Ma quando tale valore c’è, ebbene, in quel caso, il racconto è qualcosa che regala un piacere di un genere unico, dove, nella sintesi, la collaborazione tra l’autore e il lettore si fa entusiasmante ed irripetibile – necessaria e sufficiente, potremmo dire, e tuttavia sempre nuova e sempre altra ad ogni rilettura. 

Perché sì, i racconti si leggono e si rileggono, sempre nuovi. Tempi di vita diversi, momenti diversi dei nostri giorni.

Ogni racconto si farà romanzo, che il lettore costruirà per sé, variando ad ogni lettura, ad ogni ascolto – perché ancora sì, il racconto è, per l’appunto, una voce capace di permanere in una memoria che non cesserà di farsi, nel silenzio che seguirà al punto finale; nello sbalordimento dell’incontro con un mondo, esterno e interiore: vicino; conosciuto; e sorpreso di ciò che, ben noto, mai avevamo veduto. 

Questi racconti ci scoprono partecipi di un mondo capace di far male. Di un mondo che ferisce, che uccide pure, e dove, talora, la morte non è il peggio. 

Ci scopriremo tuttavia partecipi di un mondo da accogliere e ascoltare, con comprensione, con un qualche profondo affetto. Ci scopriremo parte di un mondo incredibilmente feroce e tuttavia privo di “cattivi”. 

E come avviene che l’occhio che guarda a quel mondo paia sapere qualcosa, o molto, pure di noi? Traducendosi in una voce che comprende, senza bisogno alcuno di perdonare – perché non è necessario, perché scopriamo di poter ben condividere questo, l’altro, i tanti piccoli mondi perversi e fragili che sono i nostri. 

Come evitare di conoscerne bene la fatica? La pochezza. Il dolore.

Ci sarà, a sostenerci, il sorriso dell’ironia – ben nascosta, come dev’essere. Con quel necessario sottile filo aggiunto di sarcasmo a disposizione – dell’autore, del lettore – da utilizzare, qualora serva.

Ci sono dei colpi al cuore. Certo. Che si stemperano, quasi subito. 

Non erano voluti. Non proprio. ed ecco, ancora, la comprensione, quasi affettuosa: dopotutto stiamo parlando di lei, di lui. Tutta gente che conosciamo bene. Che ci è vicina. Che ci vive accanto. Siamo noi? Là nel fondo?

Giorgio Scerbanenco

La lettura sarà di breve durata – e chiederà al lettore di fermarsi là, perché la storia possa proseguire; perché prosegua la collaborazione alla sua costruzione, alla rielaborazione dell’emozione.

Centodelitti – e anche no; occorrerà che pure il concetto di delitto venga rielaborato – chi l’avrebbe mai pensato di conoscere, frequentare, tanti assassini nella propria quotidianità? Chi avrà mai avuto, prima, quel serpeggiante timore dello specchio che ora lo coglie: che invita alla fuga e insieme chiama? 

Cento storie – personaggi, tutti viventi, ossa carne pensiero emozioni; speranze, attese; e, solo perciò, tutti giustificati, a cominciare dall’autore e dal suo lettore.

Sto ancora leggendo. La lentezza, la necessità di dare tempo al tempo, impedisce ogni fretta. Solo quando una storia sarà compiuta, dentro di noi, quando sarà stata riconosciuta, e il brivido tramutato in accoglienza, giungerà il tempo per un’altra storia.

Questa nuova edizione, con Prefazione di Cecilia Scerbanenco, figlia dell’autore, rappresenterà, spero, la rottura di un lungo silenzio sull’opera.

Sarà possibile che, inframmezzato ai racconti, io possa provarmi ora nella lettura di un romanzo di Giorgio Scerbanenco?

Per il futuro, se un futuro ci sarà (perché, alle prese con queste storie, bisogna pur porlo, qualche punto interrogativo) si vedrà.

Ora, resta solo da ringraziare Oreste Del Buono che, nel 1970, immediatamente a seguito della morte prematura del loro autore , provvide a selezionare, organizzare e raccogliere in volume, per Garzanti, questi racconti, fino ad allora pubblicati unicamente su riviste (Novella, Novella 2000, Annabella, ma anche su quotidiani e altro).

Dopo qualche ristampa, al tempo, questa raccolta era sparita per decenni dal panorama dell’editoria italiana fino a una benemerita ristampa, ancora Garzanti, del 2009, che potrebbe non aver avuto il riscontro che meritava.

Ora, la sfida è stata raccolta da La nave di Teseo – che peraltro ha in programma, dal 2019, cinquantenario della morte di Giorgio Scerbanenco, la pubblicazione dell’intera sua produzione letteraria: e, davvero, dovrà trattarsi di una sfida vittoriosa.