Mi sono abituato a osservare i particolari, a sentire nelle storie quanta bellezza di sentimenti racchiudessero. Spesso accadeva attraverso silenzi e omissioni, ma i fatti avevano un loro emergere, come accade quando un raggio di sole entra in casa e mostra cose che vengono risvegliate, tenerezze che a loro volta cominciano a parlare. Questo mi è stato insegnato in famiglia, con i racconti che si fermavano su soglie di pudore che non capivo ma che racchiudevano lo svolgersi delle vite. Così ho riflettuto molto sulla prima guerra mondiale, e oltre alla ricerca storica, l’ho collegata alla storia della mia famiglia. Ogni volta, mi capita anche ora, che sono andato nei luoghi in cui si erano consumate battaglie e vite, non ho potuto fare a meno di sentire che c’era un risvolto che nessuna storia poteva narrare ed era racchiuso in quel pudore che era stato sublimato in concetti e ideali. Ho anche capito che nessuno di questi giustificava ciò che era accaduto, che stendeva un velo sui fatti per renderli meno acuminati. Un modo perché la vita continuasse sulla strada possibile.
Lo stesso sentire l’ho avvertito e vissuto per la seconda guerra mondiale. per questa i racconti erano più espliciti, in alcuni tratti portati nell’aneddoto e resi leggeri. Quelli più pesanti raccontati a mezza voce, ma dalla guerra mio Padre era tornato mentre dalla guerra precedente, il suo, il Nonno, non era tornato e la famiglia ne era stata colpita con tale forza da annullare tutto il pregresso e mutare le vite. Non gli affetti, le vite.
Oggi, dopo quasi ottant’anni la guerra è in Europa, in casa. Lo è stata anche negli anni ’90 nella ex Jugoslavia e aerei partiti dai nostri aeroporti hanno bombardato Belgrado, è stata una guerra vera, piena di morti e di delitti contro l’umanità, ma in molti non la volevamo e sembrava che potesse estinguersi perché c’era una volontà di pace nelle piazze, negli aiuti. Adesso è diverso perché i capi di governo parlano di una guerra inimmaginabile e il mio pensiero torna a quella parte della guerra che poco si narra e che è dentro alle famiglie. Le vite cambiano segno, si mettono in moto meccanismi che sono intrisi di odio, che proseguono nel tempo e tagliano il vivere come fosse un foglio in cui sono scritte le storie di una famiglia, ne fanno coriandoli e li gettano al vento.
Il 25 maggio del 1915, era appena passato un giorno eppure già i morti si contavano dall’una e dall’altra parte, chi era soldato pensava che la guerra sarebbe finita presto, che per Natale tutto sarebbe stato ricomposto. Ma già da un anno il macello di uomini era in atto su altri fronti, le famiglie a casa speravano e disperavano, le parole erano per alcuni un sogno romantico, per altri un incubo. Sarebbe tutto proseguito a lungo e non si sarebbe fermato neppure con la pace. Ciascuno, tra i rimasti, avrebbe coltivato sentimenti diversi, patito l’assenza di chi non era tornato, sarebbe rimasto sconvolto dal vivere oltre una tragedia collettiva, in una dimensione piccola, quella domestica, che però era tutto.
Non riesco a togliermi dalla testa questi pensieri. Nessuna guerra è giusta, nessun morto è giustificato, nessun potere può dire che può togliere la vita e il futuro a chi sta vivendo la sua esistenza, come può e come sa, conscio che essa è sua, solo sua.
Prima ci furono cortei, discussioni, dibattiti, scontri. Ma erano in una parte piccola del Paese, così a molti sembravano cose distanti, che non avrebbero cambiato le vite vicine. E tanti neppure sapevano di che si parlava. Nei giornali si scriveva che erano state confermate amicizie tra Stati, mentre intanto si stipulavano nuovi patti segreti. Questo non si diceva e il popolo non sapeva. Capiva però che comunque, altrove, la guerra era scoppiata. Sembrava ancora qualcosa di lontano, un rombo di temporale che mostra un fulmine senza pioggia e intanto gira attorno. E così sentivano che non ci sarebbe stato nulla di buono in ciò che arrivava.
Poi qualcuno decise.
Cominciarono i preparativi, le cartoline di precetto, le esercitazioni. Ma anche in questa situazione che cambiava, tutto doveva durare poco. Intanto erano mutate alcune opinioni, per i più convinti c’era una ragione altissima, per tutti gli altri un obbligo e l’impossibilità di sfuggirgli.
Forse questa era la prima violenza.
Scoppiò il 24 maggio e vennero gli addii, che dovevano essere arrivederci. Tantissimi addii, come mai prima ce n’erano stati.
Poi ci furono tantissime giornate senza pericolo e tantissimo pericolo in poco tempo. Ma tutto questo, in quell’abbraccio ai piedi di un treno, ancora non si sapeva. C’era già una lacerazione da lontananza di affetti in chi si abbracciava, un bisogno che cresceva con la paura, e ogni saluto aveva il sapore dell’ultimo. Ogni ricordo nei giorni, nei mesi successivi, sarebbe stato avvolto da quella paura, nata a partire da un abbraccio.
E allora, ovunque, una solitudine infinita avvolse donne e uomini. Non bastava essere assieme ad altri, aver cose da fare, figli da crescere, lavorare. E d’altro canto, al fronte, non bastava spostarsi o stare fermi, scavare trincee o sparare a ogni cosa che si muoveva. Non bastava perché ciò che doveva finire non finiva, ciò che si desiderava non accadeva, e la solitudine diventava immensa e con essa cresceva un’atonia che prostrava, un dover motivare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto la speranza.
Sfuggiva la speranza e restava la solitudine e la paura.
I giorni di quiete al fronte erano tantissimi, mentre quelli della paura infinita, pochi, ma così concentrati che le vite si consumavano a balzi di dieci, venti anni in un giorno, in un’ora. Quando tornarono, chi tornò, erano tutti vecchi.
Una cosa già si sapeva il 23 maggio: sarebbe accaduto un disastro. Ma anche un disastro si spera passi presto, che le cose tornino come prima, ciò che non si sapeva era che sarebbe durato talmente tanto da non avere mai fine.
Per questo una banchina di stazione dovrebbe diventare il simbolo, il sacrario delle speranze infrante.
Il luogo in cui gli affetti si saldarono in un abbraccio che era l’unica cosa umana in tutto quello che stava accadendo.