Ho pedalato per una settimana da Maratea a Roma.
Tre regioni e 752,4 chilometri cercando di non perdere mai di vista il mare.
Con me c’era mio fratello Alberto, una garanzia.
Ieri siamo tornati a casa.
Mi ero portata da leggere, da scrivere e da disegnare.
Ma a fine giornata, dopo tanti chilometri, tante salite, tanto sole e tanto vento non ho mai avuto l’energia sufficiente per fare nessuna delle tre cose.
Forse una sera mi sono addormentata dentro la doccia.
Sicuramente una sera mi sono addormentata senza la cena.
Quello che è rimasto di questo viaggio pazzesco, oltre ai segni dell’abbronzatura da ciclista (che ti spezzano le gambe, le braccia e il collo) e un allegro mal di gola, sono degli appunti scritti a matita ogni sera sul retro del biglietto del treno che ci aveva portati a Maratea e che avevo tenuto in tasca..
Appunti scelti di cose successe durante la giornata e scritti in piccolo, per farli stare sul retro del biglietto del treno (che bello avere dei limiti!).
A rileggerli, gli appunti sono delle accoppiate incomprensibili di due cose successe in sequenza, una dopo l’altra.
Li ricopio qui per me, per amor di cronaca e perché su internet rimane anche quello che altrimenti perderei subito, tipo un biglietto del treno usato.
Al lettore interessato al percorso ciclistico può essere utile giusto la suddivisione in tappe e i chilometri corrispondenti, non molto altro. Consideri, questo lettore, che quello che dalle tappe non si vede sono le moltissime salite e discese che movimentano il percorso. Si segnalano in particolare per gli amanti del genere la salita a San GIovanni a Piro e la successiva discesa a Marina di Camerota, le pendenze impossibili della strada della vecchia ferrovia intorno a Pisciotta e la strada per Agerola, dove, come si legge sulla stele in vetta, “Fausto Coppi campionissimo esaltò il ciclismo”.
Giorno 1
Maratea – Palinuro 67,6 km
Le bici impacchettate e i tendini distrutti (nelle stazioni dei treni, a Modena, a Roma e a Napoli)
La signora del treno e il coniglio (sul Frecciarossa)
Gli americani e la pronuncia italiana (ancora sul treno)
Cristo e le nuvole (a Maratea)
La discesa e i tornanti (a Marina di Camerota)
Giorno 2
Palinuro – Paestum 112,6 km
La strada della vecchia ferrovia e la frana sulla strada della vecchia ferrovia (a Pisciotta)
Il panino con la mozzarella e l’origano e il panino con la melanzana alla parmigiana (a Ascea)
Parmenide e Solone (a Elea Velia)
Il venezuelano Roberto e l’incredibile storia del cellulare (perduto in discesa e ritrovato in salita)
I fruttini energetici e le caramelle Big Frut (prima delle salite)
Giorno 3
Paestum – Agerola 113,8 km
La tomba del tuffatore e la tomba della guardia di finanza (a Paestum)
I Ducati carichi di braccianti e i braccianti in bicicletta (prima di Salerno)
Giuseppe militare della marina in pensione e la maglietta con i teschi fosforescenti (a Salerno)
Soleri e la fabbrica di ceramiche (a Vietri)
La SS163 e il mare blu (in costiera amalfitana)
Le zeppole e i babà (a Maiori)
Ravello e il mare (io che pensavo che Ravello fosse sul mare!)
Il memoriale di Coppi e l’arrivo in notturna, troppo in notturna! (a Agerola)
Giorno 4
Agerola – Napoli 104 km
Svegliarsi la mattina e scoprire dove sei finito (Fiat lux)
Il Parco dei Principi di Gio Ponti e l’ascensore dentro la roccia (a Sorrento)
La morte e le gallerie (5 km di terrore tra Vico Equense e Castellammare di Stabia)
Le ville sul mare e le ex ville sul mare (a Torre del Greco)
Il pavé e l’ingresso a Napoli (arrivando da sud)
Il giardino segreto e la casualità dei numeri civici (a Napoli)
Giorno 5
Napoli – Gaeta 113,9 km
Le scale verticali e le strade che ci girano intorno (in centro a Napoli)
Edoardo Bennato e Vendo Bagnoli (a Bagnoli)
Il bar di Mondragone e la reputazione del liceo classico (a Mondragone)
La campagna laziale e Aldo Rossi (incompiuto inconsapevole)
Le serre e il mare bianco (nella campagna laziale)
Giorno 6
Gaeta – Foce Verde 103,2 km
La tiella di Gaeta e i furgoncini degli artigiani (al chiosco Mini Ristoro da Enzo)
Girare un film tipo Gomorra in piazzetta con la Maserati rosso amaranto e fare le scale intorno alla piazzetta con la bicicletta in braccio (a Sperlonga)
Il vento e il vento contro (prima e dopo il Circeo)
Avere l’ultima vera occasione per fare il bagno e perdere l’ultima vera occasione per farlo (nella spiaggia di Bazzano)
L’agro pontino e il mare verde (nell’agro pontino)
Costruire una città e farlo in 253 giorni (Sabaudia)
Le case palafitta e l’abusivismo edilizio (a Fogliano)
Camera vista mare e un tuffo negli anni Settanta (a Foce Verde)
Giorno 7
Foce Verde – Olgiata 102,9 km
Entrare a Roma in bici e sentirsi un sopravvissuto (tra svincoli, camion e prostitute)
Attraversare Roma in bici e sentirsi un privilegiato (feat. La grande bellezza di Sorrentino)
La collina senza turisti e le frecce tricolori (a Monte Ciocci)
Monte Ciocci, Monte Mario e la pista ciclabile nel mezzo
La pantera, il coccodrillo e l’ambasciatore del Kuwait (all’Olgiata)
Giorno 8
Olgiata – Roma Termini 34,4 km
La collina strapiena di turisti e Roma di chi è? (a Villa Borghese)
L’obelisco di Mussolini e davvero nessuno lo ha ancora tirato giù? (davanti al Foro Italico)
Seguire il Tevere e non perdersi mai
Cercare un forno e ritrovarsi per caso davanti a San Carlo alle Quattro Fontane
Arrivare a Roma Termini e sapere che il viaggio è Terminato
Arrivare a Modena e essere felici di essere tornati
Oltre le cose materiali che sono successe in questo viaggetto e che mi sono appuntata sul retro del biglietto del treno, come in tutti i viaggetti che stressano il fisico, mi porto a casa anche degli appunti più immateriali, volatili, eterei, che non importa segnarsi da nessuna parte perché intanto ti rimangono scolpiti in testa. Li sintetizzerei nella teoria dei tre mari. Che più o meno dice questo: ognuno nella vita ha il suo orizzonte, in senso di prospettive, aspirazioni, ma anche di limiti, confini, blocchi. Quello che ci succede dipende da quale orizzonte si sceglie e da come lo si guarda.
Pedalando per sette giorni lungo la costa, il mio primo orizzonte è stato il mare, sempre a sinistra tanto che mi è venuto il torcicollo a forza di tenere la testa girata da quella parte. Avere come orizzonte il mare mentre sei sulla terraferma è molto rassicurante, perché ti sembra di avere un orizzonte infinito senza mai sentirti naufrago. Questo è un mare inafferrabile ma che non si sottrae allo sguardo, è un mare che non fa paura, nonostante tutta quell’acqua. È il mare blu. Che ti insegna cos’è la profondità senza farti mai toccare il fondo.
Il secondo mare non lo abbiamo solo guardato a distanza, ma ci siamo finiti dentro, io e Alberto. Eravamo nella bassa campagna laziale, per evitare le macchine abbiamo seguito delle piste sterrate, di fianco a fossi stretti come spaghetti e ci siamo trovati in mezzo al mare bianco delle serre, di pomodori e chissà cos’altro, che riempivano lo spazio.
Letteralmente, riempivano tutto, saturavano l’orizzonte con quel loro luccichio argenteo simile a quello che fanno le squame dei pesci alla luce del sole. Immersi nel mare bianco artificiale delle serre dei pomodori, colpiti da quel bagliore abbacinante, annaspavamo, cercando una via di fuga che sembrava non esserci. Le serre ci stringevano nelle loro spire come un serpente boa, la strada diventava di metro in metro sempre più sabbiosa, le ruote della bici non giravano più, siamo dovuti scendere e spingerle a mano, una fatica mostruosa, senza sapere da che parte spingere, dove andare. Alla fine ne siamo usciti, ma è stato un po’ come quando Atreiu ha attraversato il Nulla nella Storia Infinita. Non proprio una passeggiata.
Continuando a pedalare il paesaggio è cambiato ancora, le serre non so perché tutto d’un tratto sono sparite, sono ricominciate le salite, come se la terra in alcuni punti si fosse raggrinzita e in quei punti si fosse aperta a ventaglio, lasciando fuoriuscire rocce e speroni. Le pieghe del ventaglio sono Gaeta, Sperlonga, il Circeo e tutto quello che c’è in mezzo. E più su, quando le pieghe tornano a stendersi e la sabbia diventa più fina, ecco che all’improvviso spunta un altro mare, verde e alto e infinito e misterioso come un oceano: l’Agro Pontino. Il terzo mare è lui, imperturbabile, calmo e tiepido. È un mare che ti aspetta, ti accoglie e ti culla, un mare dove si sta bene a mollo, che non toglie il fiato, che non fa venire voglia di scappare ma neanche di farsi strada in mezzo.
(Attenzione: si avvisano i lettori che le righe seguenti sono una specie di morale e chi è allergico alle morali, che di solito non piacciono neanche a me, può anche fermarsi di leggere).
Nella vita tutti noi attraversiamo tutti i tre mari. Come durante il nostro viaggio in bici, succede che in alcuni punti i tre mari si sovrappongono, si mescolano, si confondono e capita che trovi una serra (mare bianco) in mezzo all’Agro Pontino (mare verde) mentre sullo sfondo le barche veleggiano tranquille (sul mare blu), che dei tre è l’unico salato. E in mezzo a quel guazzabuglio di mari, è facile perdere l’orientamento. Perché non sai dove guardare e non capisci più niente. O molto poco, tendente al niente.
Ma soprattutto, proprio come nel nostro viaggio in bici, capita che vediamo un mare alla volta, così in alcuni periodi guardiamo il nostro orizzonte con la distanza con cui si guarda il mare blu, in altri periodi ci sentiamo soffocare in mezzo alla distesa infinita di plastica delle serre del mare bianco che cancella ogni orizzonte, in altri ancora ci abbandoniamo al mare verde, ci facciamo trasportare da lui e l’orizzonte perde importanza.
Tante volte non capiamo che basta cambiare punto di vista per cambiare mare, e che non è detto che il mare del vicino è sempre più verde.
Ecco, questa è la morale della teoria dei tre mari, e chissà cosa direbbe Kieślowski.
colonna sonora: I Wanna Get Lost With You, Stereophonics
Nell’immagine: M.C.Escher, Ravello e la Costa d’Amalfi, litografia, 1932