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Chi si volesse divertire a farsi leggere il proprio racconto dal computer deve seguire la procedura descritta in questo post: Come ascoltare i documenti in pdf
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Chi si volesse divertire a farsi leggere il proprio racconto dal computer deve seguire la procedura descritta in questo post: Come ascoltare i documenti in pdf
Avete scritto il vostro racconto (o lo state scrivendo), perché non completarlo con una copertina adeguata?
Ho in serbo un piccolo regalo. 😉
Gli autori sono invitati a postare su questo blog (categoria Stimoli) la copertina ideale del loro lavoro sotto forma di immagine. E, intanto che ci sono, indicare anche che tipo di testo ritengano trattarsi (Romanzo, Racconto, Novella, ecc…) ed eventualmente apportare correzioni alla punteggiatura e sintassi.
Dimenticavo: nella copertina apparirà il nome dell’autore, come lo volete? Nome vero (con cognome) oppure solo il nickname?
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Questa è l’immagine che io ho scelto per il mio Romanzo:
Aggiornamento: sono disponibili i primi file in formato PDF alla voce di menù Agorà->PDF
Provavo un vago sentimento di angoscia mentre mi incamminavo tutto storto, per bilanciare il peso della valigia, e con la chitarra a tracolla. Per un attimo mi balenò nella mente il pensiero di abbandonare tutto, scappare a casa e non farmi più rivedere da queste parti. Sentivo un groppo crescente alla gola e avevo un gran desiderio di mettermi a piangere, ma non era certamente quello il momento giusto.
Attraversai la via Flaminia e mi diressi verso il cancello che dava nel cortile dove tenevamo i nostri automezzi.
Appoggiato al cancello, intento a guardare il traffico sulla via Flaminia, ci trovai Massi che era il nostro magazziniere, meccanico e uomo tuttofare.
“Ti lascio la mia roba, come al solito.” gli dissi prima ancora di averlo raggiunto.
“Vieni, vieni.” mi rispose, facendosi da parte per poi accompagnarmi zoppicando fino al magazzino dove appoggiai la valigia e la chitarra in un angolo.
Non ci pensò un attimo a sfilare la chitarra dalla sua custodia.
Massi era un uomo già avanti con gli anni. Credo che fosse più vicino ai cinquanta che ai quaranta. Portava un folto pizzetto nero con striature bianche, molto curato, che gli dava un’espressione un po’ dandy che contrastava con un fisico invece piuttosto tarchiato.
Un tempo anche lui era stato un tecnico di campagna, fino a quando non gli si ruppero i freni della macchina e precipitò in un piccolo dirupo in Sicilia. Lo estrassero a fatica dalle lamiere, più morto che vivo, ed ebbero un bel daffare per rimettergli in sesto una gamba maciullata. Ne venne fuori dopo molti mesi, ma la gamba gli rimase zoppa. Non essendo più in grado di svolgere il lavoro di campagna, l’azienda lo riconvertì a responsabile dei mezzi e del magazzino. Da allora nessuno ebbe più modo di lamentarsi dello stato delle macchine.
Quando io fui assunto svolgeva già quella mansione e quando fui messo in punizione avemmo modo di conoscerci meglio.
Tra noi c’era una certa simpatia. Io mi appoggiavo a lui quasi come ad un secondo padre e lui sembrava contento nella parte del vecchio saggio che si era data. In realtà in ufficio quasi tutti lo trovavano un po’ svanito e non molto intelligente e spesso lo prendevano in giro. Io però sapevo che sotto quell’aria svagata c’era un’intelligenza brillante.
E poi c’era una cosa che ci accomunava sopra ogni altra: suonavamo entrambi la chitarra. Ad essere sinceri era lui che suonava la chitarra, io ci provavo solamente.
Lui però suonava la chitarra classica, con le dita, a differenza di me che utilizzavo il plettro, e quando si metteva a suonare io rimanevo affascinato e invidioso ad ascoltare pezzi spagnoleggianti che non conoscevo, e gli perdonavo volentieri le numerose stecche che prendeva a causa, a suo dire, del manico troppo stretto del mio strumento (come è risaputo, una chitarra classica ha il manico più largo).
Anche quel giorno, dopo essersi impossessato della mia chitarra, si era subito messo seduto, in posa tipica; gambe divaricate, chitarra appoggiata alle cosce e manico rigorosamente all’altezza della spalla. Senza pensarci su un attimo, come invece facevo sempre io titubante, stava già suonando “Giochi proibiti” con una scioltezza e un trasporto che mi fece subito tornare il groppo alla gola.
Le note arpeggiate del brano mi fluivano dalle orecchie direttamente al cuore, aumentando sempre più il senso di oppressione e solitudine che ancora mi trascinavo dalla sera prima.
Diedi un colpo di tosse per ricacciare indietro le lacrime che stavano sempre in agguato dietro le ciglia. Massi non si curò del rumore molesto, troppo preso nella sua esibizione, ma ad un certo punto si interruppe di colpo ed interruppe la magia di quel brano. Si alzò in piedi e rimise la chitarra nel suo fodero.
“Non ti vedo in forma” disse, quasi parlando a se stesso.
“Lunedi devo essere a Reggio Calabria” risposi con lo stesso tono.
“Lo so.” disse, abbracciandomi le spalle. “Tu non hai santi in paradiso.”
Mi imbarazzava essere toccato perciò mi divincolai con noncuranza.
“Cosa vuol dire?” chiesi.
“Caro mio, tu per l’azienda sei uno sacrificabile.” declamò, agitando le mani per aria.
“In che senso sacrificabile?”
Ridacchiò. “Non certo in senso fisico! Intendo che a te certi sacrifici si possono chiedere. Sei giovane, non impegnato, nel senso che sei libero da impegni sentimentali, lontano da casa. Quindi… sei sacrificabile.”
Non riuscivo proprio a seguire il senso di questo discorso. Tra l’altro lui si era anche messo a trafficare sul bancone degli attrezzi e mi parlava girandomi le spalle e con lo stesso tono di chi stia commentando il tempo meteorologico.
“Guarda che stamattina non mi gira e non ti capisco.” dissi un po’ urtato.
Lui si girò e mi puntò contro un cacciavite.
“Ti sei chiesto come mai Michele rientra a fine mese?”
“Si vede che la sua missione finisce a quella data.” risposi stupito.
Scosse la testa. “La missione di Michele era di cinque mesi.” disse sicuro. “Lo so perché glielo ho preparato io il mezzo, assieme a tutto il materiale da portare via.”
Scossi la testa. “Ma se ho sentito io Chiara che diceva che rientrava a fine mese.”
“Certo, doveva rientrare per fare il punto coi capi, poi però doveva tornare giù subito. Invece non ci torna e ci vai tu al suo posto.”
“Forse c’è in ballo una nuova commessa e hanno deciso di affidarla a lui. Francesco era l’unico libero, ma proprio ieri è partito per…”
“Non ci sono nuove commesse.” mi interruppe, tornando a lavorare sul bancone “Michele se ne starà qui a Roma a grattarsi la pancia.”
Mi sedetti. “Ma che senso avrebbe tutto questo?” chiesi dubbioso.
Lui si girò di nuovo e venne verso di me trascinandosi dietro un’altra sedia. Mi si sedette accanto.
“Amico mio, ragiona. Tu eri in punizione e adesso ti danno una grossa missione tutta per te. Ti pare normale?”
Mi strinsi nelle spalle.
“Michele ha chiesto di rientrare e loro l’hanno accontentato.” continuò.
“E perché avrebbe chiesto di rientrare?”
“Perché lui tiene famiglia. La moglie e la figlia avrebbero dovuto raggiungerlo questa estate per stare insieme, me l’ha detto lui. Adesso invece lui rientra e vai giù tu. E sai perché?”
“No.”
“Perché a Reggio sta per scoppiare un gran casino e non è il caso che un padre di famiglia rischi di farsi male. Chi ci possiamo mandare? Oh, ci sarebbe Bruno… è giovane, solo…” fece una pausa di effetto, poi continuò: “…sacrificabile!”
“Ma non dire fregnacce!” protestai.
Si alzò, battendosi platealmente le mani sulle cosce.
“Lo vedrai se sono fregnacce, quando telefonerai disperato per chiedere di farti rientrare e ti risponderà Michele per dirti di restare là.”
“Figurati se uno come Michele ha paura di stare in mezzo ai casini.” dissi alzandomi a mia volta.
“Lui non ha paura.” convenne “È la moglie che ha paura. E lui fa quello che gli dice la moglie.”
Ebbi una illuminazione: “Se fosse come dici tu metterebbero Michele a fare le analisi al mio posto, invece so che assumono uno proprio per questo!”
Rise: “Guarda che Michele ha una laurea. Figurati se si mette a fare il ragazzo di bottega. Lui è dottore, ahò! Lo impiegheranno nella interpretazione dei dati o nei contatti coi clienti. Un lavoro glielo trovano, vai tranquillo. Così la moglie lo potrà vedere tutti i fine settimana e sarà contenta, mentre tu… ”. Mi diede una leggera spintarella sulla spalla.
“Fammi andare a lavorare, va’, altrimenti non mi fanno partire” dissi, strizzandogli l’occhio.
Mi diressi verso il cancello, ma prima di raggiungerlo mi girai un attimo e dissi: “Quando sarò giù, glielo chiederò a Michele. E dirò che sei stato tu a dirmele queste cose.”
Lui annuì vigorosamente con la testa.
Mi incamminai lungo l’isolato per raggiungere il portone di accesso. I discorsi di Massi mi avevano reso ancora più abbacchiato. La giornata era cominciata male, ma sembrava volesse proseguire peggio. Comunque in fondo non trovavo così terribile che Michele volesse stare vicino alla famiglia e onestamente io ero certo più ‘sacrificabile’ dal punto di vista dell’azienda. Ero però convinto che quella dei casini a Reggio fosse una scusa della moglie. Era più probabile che lei non avesse nessuna voglia di raggiungerlo in missione, quindi si era inventata questa storia. Come se a Roma non ce ne fossero di casini.
Infilai il portone e cominciai a salire lentamente le scale. Ero un po’ deluso da Michele a dire il vero. Poteva tranquillamente parlarne con me. Sarei stato pronto ad offrirmi, anche perché per me era una opportunità non da poco di uscire dall’isolamento e conquistarmi nuovamente la fiducia dell’azienda. Forse lui contava di dirmelo a quattrocchi, quando ci fossimo incontrati giù. Ad ogni modo non era corretto nei miei confronti. Cosa fai? Me lo dici quando non posso più tirarmi indietro? Il magone cresceva.
Sentii uno scalpiccìo di passi veloci che mi stavano raggiungendo. Gianni si affiancò a me e mi diede una pacca sulla schiena, mentre mi superava.
“Coraggio! Ce la puoi fare.” mi disse, proseguendo la salita.
Mi fermai un attimo perplesso, poi ripresi faticosamente ad avanzare. Di nuovo dovetti fermarmi davanti alla porta dell’ufficio per ricacciare indietro il groppo alla gola.
Entrai. Gianni aveva appena salutato le due segretarie e si stava dirigendo verso la sala disegni. Chiara era seduta aggrappata al bordo della scrivania, quasi avesse paura di cadere, mentre Franca stava ridendo rivolta verso di lei. Evidentemente la buriana del giorno prima era passata. Non per me che attraversai l’atrio a testa bassa accennando ad un buongiorno poco convinto.
Chiara non mi stava guardando, ma Franca mi fermò subito.
“Ecco la persona giusta per dirimere la questione!” disse.
“Quale questione?” chiesi io, senza nessun entusiasmo. Volevo solo andare a richiudermi in laboratorio.
Franca mi invitò ad avvicinarmi.
“Vieni qui.”
“Franca! Per favore…” si lamentò Chiara.
“Tu che sei un artista e hai gusto, abbiamo bisogno della tua consulenza.” disse Franca senza badarle.
Mi avvicinai titubante. Aveva l’aria della solita presa in giro, ma io quel giorno ero disarmato.
“Secondo te” continuò “Chiara starebbe bene in minigonna?”
Chiara in minigonna sarebbe stato un evento epocale. Lei di solito indossava solo gonne appena sopra al ginocchio e, poche volte, quelle tipiche gonne lunghe e scampanate da figlia dei fiori. Indossava volentieri i pantaloni e solo saltuariamente portava i jeans. A memoria mia non l’avevo mai vista indossare una minigonna.
“Non saprei” dissi perplesso.
“Secondo me, sì.” aggiunsi poco convinto .
Franca si rivolse in modo spiccio all’amica, invitandola col gesto della mano ad alzarsi: “Su, fatti vedere!”
“Ma non ci penso proprio.” protestò Chiara “Non sono mica un fenomeno da baraccone!”
“Ma quale fenomeno! Dai, non fare la ritrosa.” insistette Franca.
“Ma perché, hai la minigonna oggi?” chiesi stupito.
“Certo che ce l’ha. Solo che si vergogna a mostrare le gambe”
“Non mi vergogno a mostrare le gambe!”
“E allora tirati fuori da lì e fatti vedere!”
Chiara sbuffò e si decise ad alzarsi dalla poltroncina. Fece due passi indietro e si girò verso di me con le mani dietro la schiena. Fece una veloce piroetta, accennò un inchino e tornò velocemente a sedersi.
“Contenti ora?” chiese.
Franca rise della mia espressione stupita.
“È rimasto a bocca aperta!”
Era vero. La richiusi di scatto.
“Accidenti.” dissi convinto. “Sei un’altra persona. Dovresti metterla più spesso.”
“Vero che le dona?” chiese Franca.
“Va bene, va bene. Ora andate a lavorare tutti e due. Lo spettacolo è finito.” replicò Chiara annoiata.
Piegai gli angoli della bocca in segno di apprezzamento.
“Non è giusto.” dissi “Adesso che me ne devo andare in missione tu ti presenti in questo modo.”
Chiara accennò un sorriso e abbassò lo sguardo. Feci per allontanarmi, ma lei mi fermò allungando un braccio sopra la scrivania col palmo della mano all’insù, come a chiedere la carità.
“Devo pagare il biglietto?” chiesi con finto stupore.
Franca rise: “È giusto che tu paghi per lo spettacolo.”
“No, no.” le disse Chiara “È che mi deve consegnare una cosa.”
“Non fare il finto tonto.” aggiunse poi, rivolta a me, con una smorfietta.
“Non ce l’ho.” dissi asciutto.
Il suo sorriso si spense e ritirò lentamente la mano.
“Te l’ho detto che non aveva più importanza.” continuai.
“Non sei di parola.” borbottò, cominciando a mettere in ordine la scrivania.
Mi sentii punto sul vivo e i miei nervi ricominciarono subito a tendersi.
“Ah, io! Io non sarei di parola!”
“Sì, tu.”
“Tu invece sei di parola.”
“Infatti. Io sono di parola.” disse in tono di sfida, guardandomi dritto negli occhi e scandendo le sillabe.
“Ehi, ehi. Che sta succedendo lì?” chiese Franca dalla sua scrivania.
Deglutii. “Niente. Una cosa senza importanza, ormai.” dissi incamminandomi lungo il corridoio.
Entrai in laboratorio e mi chiusi violentemente la porta alle spalle. Ero tiratissimo. Mancava poco e mi sarei messo a piangere davvero.
Cercai di distrarmi buttandomi subito sul lavoro. Dovevo finirlo in serata, altrimenti mi potevo scordare di andare a casa.
Non capivo perché ce l’avessi tanto con Chiara. In fondo ero disposto a perdonare Michele per uno sgarbo (a detta di Massi) ben più grave che non quello della dimenticanza di battermi una stupida lettera.
Chiara con la minigonna. E che minigonna, del tipo svasato che arriva a mezza coscia. Non era esattamente una minigonna, era invece un mini abito che le esaltava anche la figura, rendendola più snella di quanto fosse in realtà, oltre a mettere in mostra due discrete gambe tornite, a dispetto della leggera curvatura che le caratterizzava. In fondo avevo visto gambe ben peggiori e Chiara in minigonna, dovetti ammettere, non era affatto malaccio.
Chiara con la minigonna.
Chiara con un bel culetto.
Chiara con gli occhi blu.
Chiara che cominciavo a trovare troppo interessante, proprio l’ultimo giorno della mia permanenza in ufficio.
Mi sentii di perdonarla subito senza esitazioni. Al diavolo quella pizza, era andata così. Amen. Con questo spirito rinnovato mi misi a lavorare, ma il groppo alla gola restava sempre lì.
Fanculo.
A metà mattinata la porta si spalancò ed entrò Gianni, senza tanti complimenti. Con la sua solita aria un po’ strafottente e l’eterna sigaretta penzolante dalle labbra, cominciò ad ispezionare le varie parti del laboratorio.
“Così, questo è il tuo ufficio. Non è un granché, direi.”
“Ormai non lo è più.” risposi mogio.
Prese una sedia e venne a vicino a me, incuriosito dal mio movimento di scuotimento della provetta, sedendovi sopra a cavallo.
“Che cazzo stai facendo?” chiese sorpreso.
“Sto facendo le prove di durezza dell’acqua.”
“E tutto il giorno è così?”
“Sì.”
“Che palle però…”
“Puoi dirlo forte.”
“Meglio Reggio Calabria a questo punto.”
“L’hai saputo, eh?”
“La Calabria è molto bella. Ti invidio.”
“Se non fosse per qualche piccolo particolare.”
“Tipo?”
“Beh, le donne tutte vestite di nero, per dirne una.”
“E questa stronzata come ti è venuta in mente?”
Mi strinsi nelle spalle. “Dicono.”
“Ma stai a scherzare.”
“Perché? Non è vero?”
“Non è vero, no.”
“Nemmeno che ragazzi e ragazze fanno il passeggio su due marciapiedi distinti?”
“Ma che cazzo dici?”
“Me lo ha detto Michele. Lui è laggiù, lo saprà bene.”
Scoppiò a ridere. “Mi sa che Michele ti ha preso un po’ per il culo.”
Lo guardai dubbioso.
“Le ragazze di Calabria” continuò “sono le più belle d’Italia e vestono in jeans e minigonna come qui. E non si fanno certo scrupoli coi ragazzi, altro che marciapiedi separati. Le donne calabresi sono molto più toste dei maschi. E guarda che i calabresi sono tosti forte, ma con le loro donne devono stare attenti.”
Si rialzò dalla sedia scuotendo la testa.
“Lo sai che io sono di probabili origini calabresi?”
“Davvero?”
“Eh, si. Basta vedere il mio cognome. Dovrei avere anche un po’ di sangue blu nelle vene.”
“Hai parenti giù?” chiesi speranzoso. Arrivare là e magari trovare gente già ben disposta nei miei confronti mi avrebbe tranquillizzato un po’.
“No, il nostro ramo si è staccato secoli fa. Ormai siamo romani al cento per cento.” rispose avviandosi verso la porta.
Quando fu sulla soglia si girò un attimo e disse: “Ero venuto a dirti che Chiara ti vuole.”
“In che senso?” chiesi io sorpreso.
Mi fissò perplesso.
“De-vi an-da-re da lei.” rispose, come fossi un bambino ritardato.
Uscì bofonchiando: “In che senso, dice. Come sarebbe in che senso?…”
Terminai l’analisi che avevo in corso e poi mi avviai verso la postazione di Chiara. Non mi dispiaceva dare un’altra occhiata a quella minigonna.
Quando fui vicino alla sua scrivania Chiara mi gettò uno sguardo distratto. Stava infilando delle carte in una busta. Si fermò e mi porse un foglietto giallino.
“Vai in amministrazione e fatti dare i soldi.” disse spiccia.
“Agli ordini.” replicai con tono annoiato, mentre prendevo il foglietto. Mi stava preparando la missione e ritornò subito ad occuparsi della busta. Ristetti un attimo a guardarle il collo bianco che si vedeva a tratti tra i capelli neri. A differenza della maggior parte delle ragazze more, Chiara aveva una pelle perlacea, molto delicata. Questa era una cosa che mi piaceva in generale, ma era la prima volta che la notavo su di lei.
Sentendosi osservata alzò la testa e mi fissò. I suoi occhi dritti sui miei, come ultimamente tendeva a fare sempre più spesso.
“Allora?” chiese.
“Stavo pensando una cosa che ti riguarda.”
“Voglio saperla anch’io!” si intromise Franca.
“La dico dopo, quando torno dall’amministrazione.”
“Non aver fretta.” disse Chiara con un tono di leggero sarcasmo.
Feci quei pochi passi che mi separavano dalla porta dell’ufficio di Ratti e me la chiusi delicatamente alle spalle.
Quando uscii mi era tornato il magone. Quei soldi che mi erano stati dati, le firme sulle pratiche burocratiche e i discorsi melliflui di Ratti, sempre sottolineati da quel viscido strofinare di mani, mi avevano reso ormai pienamente cosciente dell’ineluttabilità del mio destino prossimo, che per qualche ragione sfuggente non riuscivo a metabolizzare.
Quasi in trance mi ritrovai di nuovo di fronte a Chiara che mi porse con malagrazia la busta della missione, dando così un ulteriore colpo al mio morale.
Cercai di cogliere nella sua espressione una qualche forma di solidarietà inespressa, o di tristezza per la mia partenza. Qualcosa che mi confermasse in ciò che prima avevo sempre trattato come un fastidio e che invece ora sentivo di desiderare. Che lei provasse veramente qualcosa per me.
Avevo un disperato bisogno in quel momento di qualcuno che mi fosse vicino. Qualcuno che non mi facesse sentire così solo. Così ‘sacrificabile’. E Chiara era l’unica che avrebbe potuto riuscirci. Non Franca, non Gianni, non Massi e neppure Michele, che pure mi avrebbe sicuramente aiutato ad ambientarmi. E nemmeno, mi accorsi con stupore, la mia famiglia che avrei rivisto il giorno successivo.
Però sul viso di Chiara non lessi nulla di diverso dal solito. Mi guardava quasi indifferente mentre rigiravo la busta tra le mani.
Abbassai la testa e feci per tornare in laboratorio, ma lei mi chiese: “Non avevi qualcosa da dirmi?”
Con la coda dell’occhio vidi Franca alzare la testa, attenta.
Mi sforzai di tirare fuori la residua ironia che mi aveva indotto a fare quella osservazione. Con un sorriso tirato, mostrandole la busta, dissi: “Questa è la prova che sei tu che non sei di parola.”
“Ah sì? Che prova sarebbe?” chiese ironica.
“Ieri hai detto che non me l’avresti preparata la missione.”
“Ha detto così?” chiese Franca
Chiara tornò ad occuparsi della sua macchina da scrivere: “Sono troppo buona. Me lo dice sempre anche la mamma.”
“E che altro dice la tua mamma?” le chiese Franca.
“Che Bruno è una persona su cui non si può fare affidamento.”
“Ah, ha.” feci sarcastico.
“Ah, ha.” rispose lei con lo stesso tono, mostrandomi la lingua.
“Guarda che la giornata non è ancora finita.” dissi con tono di sfida “Io posso ancora dimostrare di essere di parola. Tu no.”
Lei si girò lentamente a guardarmi. L’espressione del gatto (con gli occhi blu) che ha appena preso il topo: “Vogliamo fare una scommessa?”
“Sei proprio sicura?” chiesi sardonico
“Sicurissima, io! E tu?” replicò con aria di sfida. Stava chiaramente cercando di provocarmi.
“Io, se voglio, vado di là in laboratorio e torno con la lettera in cinque minuti.”
“E io te la batto in altri cinque!”
“Ma non cambierebbe nulla. È quella di ieri che manca all’appello.”
“Tu intanto portamela, poi di quella di ieri ne parliamo.”
“Quanto mi piacete quando litigate voi due.” disse Franca estasiata.
“Ma non stiamo litigando!” replicammo entrambi all’unisono.
Ci fu un attimo di silenzio e poi scoppiammo tutti a ridere. Più loro due a dire il vero. Il mio fu solo un riflesso condizionato che, anzi, peggiorò ulteriormente il mio stato d’animo.
Chiara mi fece segno con la mano oscillante a coltello di andarmene. “Vai a lavorare che è meglio.” disse ancora ridendo.
“Controlla l’orologio! Fra cinque minuti torno.” risposi punto sul vivo. E senza aspettare altro mi diressi velocemente al laboratorio.
Andai diritto alla mia scrivania, presi il primo foglio bianco a portata di mano e comiciai a scrivere nervosamente. Non ho mai avuto una bella calligrafia, ma quella che misi in mostra in quell’occasione era proprio orrenda.
Non mi importava, voleva sfidarmi? E io accettavo la sfida.
Non scrissi più di tanto, anche perché il livello delle acque del mio umore aveva raggiunto ormai il bordo inferiore delle mie ciglia e qualche goccia cominciava a traboccare, scendendo insidiosa a bagnarmi i peli della barba. Mi rendevo conto di stare giocando sporco, o almeno era quella la mia intenzione.
Mi asciugai ruvidamente gli occhi con la manica della maglia.
“Chissenefrega.” pensai. Piegai sgraziatamente il foglio in quattro parti e andai subito a consegnarlo così come era, senza neppure infilarlo in una busta.
Quando fui di nuovo davanti a lei, Chiara era già impegnata nella battitura di un documento che il grande capo le aveva appena consegnato. Lui era ancora lì e quando mi vide arrivare mi chiese a che punto fossi con le analisi. Lo rassicurai al riguardo, un po’ balbettando, e lui rientrò nel suo ufficio senza chiedermi altro.
Poggiai con forza il foglio sul ripiano della scrivania, ma ci tenni la mano sopra. Chiara cercò delicatamente di sfilarmelo da sotto, ma io lo trattenni.
Con aria mesta mi chiese: “Vuoi contare i cinque minuti proprio da ora?”
Le feci un sorriso di comprensione: “No, vedo che hai da fare. Hai tutto il tempo. Ma voglio proprio vedere se questa la batti.”
Lasciai il foglio. Chiara lo mise sotto al documento su cui stava lavorando.
“Hai pianto?” mi domandò.
Rimasi di sasso. “No, perché me lo chiedi?”
“Hai gli occhi rossi.”
Feci una smorfia. “Me li sarò toccati con le mani sporche.”
“Se hai bisogno di qualcuno che ti consoli…” intervenne Franca.
“Si, lo so. Devo cercare da un’altra parte.” replicai girando sui tacchi. Ritornai alle mie provette mentre loro due ridacchiavano.
Quando fui di nuovo solo, in mezzo alle bottiglie di campioni d’acqua da analizzare, fui preso dallo sconforto più totale. Una missione che fino ad una settimana prima avrei salutato con il più grande entusiasmo, adesso, proprio in quel momento, la vivevo come una grande ingiustizia.
Sempre più affranto ricominciai le analisi interrotte, ma il lavoro procedeva a rilento e certamente non lo avrei terminato per la sera con quel ritmo.
Ero in una specie di trance. Eseguivo meccanicamente le operazioni di analisi, ma la mia mente era ferma. Quasi in attesa che arrivasse finalmente il temporale che mi avrebbe buttato fuori le tonnellate di acqua represse, che attendevano di sfogarsi.
E il temporale arrivò.
Mi ero appena seduto alla scrivania per riempire le schede dei campioni che la porta si aprì ed entrò Chiara. Fece incerta i pochi passi che ci separavano e si fermò dinnanzi a me in tutto lo splendore della sua minigonna. Il suo piccolo seno si alzava ed abbassava al ritmo di un respiro leggermente affannato. In una mano teneva una busta, mentre nell’altra stringeva il mio foglio spiegazzato.
Non furono queste però le cose che mi colpirono subito. Fu il suo viso.
Gli occhi azzurri, incorniciati dai lisci capelli neri, erano sottolineati da un vistoso rossore delle guance che li faceva apparire ancora più splendenti di quanto già non fossero per loro natura.
Rimasi stupefatto a guardare quegli straordinari accostamenti cromatici. Erano i colori del quadro che avevo sognato. E lei, in quel momento, era… bellissima!
Guardava nella mia direzione, però ebbi l’impressione che non guardasse me, ma piuttosto dentro se stessa.
Io ero senza parole e senza fiato e rimanemmo in silenzio per qualche attimo. Alla fine fu lei, con voce esile, a rompere il silenzio.
Poggiò la busta sul ripiano della scrivania e con la punta delle dita la spinse nella mia direzione.
“Questa è la tua lettera di ieri.” disse.
Cercai di scuotermi dal mio torpore e mi sforzai di togliere lo sguardo dal suo viso e portarlo sulla busta.
Mossi la testa. Non capivo. La aprii meccanicamente e cominciai ad estrarre il foglio che c’era dentro.
“Come vedi io sono di parola. Te l’ho battuta come volevi.” aggiunse.
Aprii il foglio piegato. Era effettivamente la mia vecchia lettera, perfettamente battuta a macchina, con tutti i rientri a posto e allineati.
“Come hai fatto se l’originale ce l’ho io?” chiesi stupito continuando a fissare il foglio.
La sentii sospirare. “Era già pronta ieri sera.” disse.
Scorsi la lettera fino alle tre risposte. Una “x” era centrata sulla prima casella:
[x] Sì, sono entusiasta
“Ma come, hai risposto sì?” chiesi “E perché non me l’hai consegnata ieri?”
“Perché ieri sera non potevo proprio uscire.”
“Beh, se avevi già un impegno allora potevi rispondere no.” dissi stringendomi nelle spalle.
Tornai a guardarla in viso. Il rossore era ancora tutto lì e lei era di una bellezza che non mi sarei aspettato e che non avevo mai colto.
“Se avessi risposto no, tu non me lo avresti più chiesto.”
Era una constatazione a cui non potei sottrarmi.
“Eh già.” annuii. “Non l’avrei fatto.”
“E soprattutto…” si interruppe per rivolgere lo sguardo al foglio che teneva ancora in mano. Lo alzò, stretto nel piccolo pugno dalle nocche bianche: “… non avresti scritto questo.”
Tornò a puntare i suoi occhi sui miei. Io li distolsi immediatamente e non risposi. Ero troppo impegnato a cercare di controllare il mio di rossore, anche se le orecchie certamente in quel momento mi stavano tradendo.
Appoggiò con delicatezza il foglio stropicciato sulla scrivania.
“Questo però, se non ti dispiace, non te lo batto a macchina. Non lo posso fare e… non lo voglio fare.”
Lo disse quasi in un sussurro calcando però sull’ultima frase.
Sentii un sordo crack nel petto. La diga aveva ceduto ed avevo urgente bisogno che lei si allontanasse prima dell’arrivo imminente dell’ondata di piena.
Chinai la testa ed annuii avvilito. Avrei voluto spiegarmi, giustificarmi, confidarmi, ma il mio stato d’animo era ormai fuori controllo e desideravo solo che lei uscisse il prima possibile.
Lei rimase in attesa di una mia reazione, sorpresa dalla mia apatia, ma Franca la chiamò ad alta voce dal fondo del corridoio e dovette allontanarsi.
“Ne riparliamo.” disse.
Quando fu quasi sulla porta si girò nuovamente verso di me.
“Bruno, ti chiedo una cosa. Non prendermi in giro.”
Si allontanò lungo il corridoio mentre io lasciavo ormai scorrere senza pudore le lacrime, a sciogliere finalmente quella tensione non più sopportabile.
Dapprima silenzioso, il mio pianto si trasformò presto in grossi singulti che cercavo invano di smorzare per non farmi udire attraverso la porta rimasta aperta. Non volevo piangere, ma quel sì alla pizza aveva rotto un equilibrio troppo instabile e nel momento sbagliato. Era il momento in cui io avrei dovuto prendere di petto la situazione, ma era stata la situazione a prendere di petto me.
Con gli occhi annebbiati dalle lacrime presi il foglio e cercai di stenderlo sul piano della scrivania stirandolo col palmo delle mani. Riuscivo faticosamente ad intravederne appena la forma, ciò che vi avevo scritto mi appariva come una serie di macchie nerastre mischiate a delle striature di rosso.
Non avevo bisogno di leggere il testo, lo sapevo bene quello che avevo scritto: “Vuoi diventare la mia ragazza?”.
Troppo tardi lo avevo scritto quel foglietto. Una pizza andava bene, ma oltre “non lo voleva fare”.
Quello che non riuscivo a interpretare erano i segni rossi che attraversavano tutto il foglio.
Come un bambino piangente viene distratto da altre cose che lo incuriosiscono, così io fui distratto e incuriosito da quella macchia.
Tirai su con il naso mentre con il dorso delle mani cercai di asciugarmi gli occhi annacquati. Nello stesso tempo tentai di allontanare gli occhi dal foglio, come fanno i presbiti, dondolandomi sulle gambe posteriori della sedia.
La scrittura prese forma e riuscii a leggere le parole. E prese forma e senso anche lo scarabocchio rosso.
Di traverso a tutto il foglio, ripassato più volte con una matita rossa, vergato a mano e con calligrafia nervosa spiccava un grosso SI.
Rimasi inebetito a fissare quei due caratteri, dimentico della posizione di precario equilibrio in cui mi trovavo. Infatti la sedia mi scivolò di sotto ed io mi trovai rovinosamente per terra, non prima di aver sbattuto la testa sullo spigolo di ferro del bancone dei campioni che stava alle mie spalle. Fu un urto di striscio, ma doloroso, e rimasi per un po’ avvinghiato alla sedia tornando a piangere (un po’ per il dolore e un po’ per completare il pianto interrotto di prima) e ridendo nello stesso tempo.
Una incredibile euforia mi pervase tutto. Il pianto era riuscito a sciogliere la tensione, un attimo prima il mondo mi era caduto addosso ed ora ero di nuovo in piedi (si fa per dire).
Cercai di tirarmi su, incespicando più volte nella sedia dove si era intrappolata una gamba.
Quando fui di nuovo in posizione verticale mi guardai attorno e fissai con aria di sfida quelli che in quel momento mi parvero pochi campioni rimasti da analizzare e che avrei annientato prima di sera.
Però prima dovevo andare da Chiara. La volevo rivedere subito: lei, i suoi occhi azzurri, le sue guance rosse e la sua minigonna nuova. Chiarire il mio atteggiamento incoerente, anche se sospettavo che lei ormai ci avesse fatta l’abitudine.
Mi passai una mano sulla guancia e la sentii bagnata. Andai al lavello e mi sciacquai abbondantemente la faccia e gli occhi. Non potevo competere con le sue bellissime guance rosse mostrando rossi gli occhi.
Mi tornò in mente il quadro del sogno e sorrisi dentro di me per il fatto di averlo cercato addirittura in un museo. Uomo senza immaginazione.
La testa mi pulsava nel punto dove aveva urtato.
Respirai a fondo e attesi che mi si calmasse il battito sordo del cuore. Poi mi lanciai deciso lungo il corridoio.
Chiara, sentendomi arrivare, aveva già alzato lo sguardo e le sue gote non fecero in tempo ad arrossire di nuovo che la vidi sbiancare. Gli occhi si spalancarono in una espressione di raccapriccio e spavento.
“Cosa hai fatto?”
La voce le tremava.
Anche Franca mi guardò ed esclamò: “Oh, Madonna santa!”
Si alzarono di scatto quasi contemporaneamente per correre da me. La poltroncina di Chiara scivolò sulle rotelle fino ad andare a sbattere nello schedario vicino alla finestra. Lei fece veloce il giro della scrivania per venirmi vicino, subito seguita da Franca. Allungò incerta la mano fino a toccarmi il colletto della camicia.
“Sei tutto insanguinato!” disse con apprensione.
Girai la testa di lato per cercare di vedere il punto che indicava. Sentii un prurito dietro l’orecchio e istintivamente allungai un dito per grattarmi. Lo ritirai imbrattato del sangue che dalla nuca stava fluendo copioso lungo il collo.
“Fammi vedere.” disse Franca invitandomi ad abbassare la testa.
“Prendo la cassetta del pronto soccorso.” disse Chiara allontanandosi veloce.
“Bisogna chiamare qualcuno!” disse Franca e si diresse correndo verso la sala disegni, chiamando Gianni ad alta voce.
Chiara tornò tirandosi dietro la sua poltroncina.
“Siediti qui.” disse.
Mi sedetti docile, travolto dagli avvenimenti.
Arrivò Gianni.
“Che ti è successo?”
“Sono scivolato e ho sbattuto la testa sul bancone del laboratorio. Non è stato un colpo forte. Non credevo…”
Cercò di trovare la ferita tra i capelli imbrattati.
“Non si vede niente così. Andiamo in bagno.”
Mi alzai in piedi, ma dovetti restare fermo. Gianni mi guardò fisso negli occhi.
“Stai bene?” chiese.
“Sì.”
“Sei troppo pallido.”
La vista mi si stava abbuiando.
“Credo che sto per svenire.” dissi. La vista del sangue, anche se mio, in genere non mi faceva un bell’effetto.
“Torna a sederti. Ti portiamo con la poltroncina.”
“Aprimi la porta” disse poi rivolto a Franca, che si affrettò a farlo, mentre lui mi spingeva deciso verso il bagno tenendomi la testa all’indietro.
La poltroncina con me sopra non riusciva a passare nella porta stretta, così Gianni mi prese sotto le ascelle e mi tenne dritto fino a che Chiara non ebbe fatto passare la sedia.
Mi fece accomodare davanti al lavabo.
“Bisogna che ti tolga i vestiti, altrimenti te li bagno tutti.”
Sfilarmi la maglia, anch’essa ormai rovinata dal sangue, non fu un’impresa semplice. E, dopo la camicia, anche la canottiera si rivelò inzuppata in una vasta area della schiena.
Gianni mi infilò la testa sotto il rubinetto. Il getto di acqua fredda mi fece subito sentire meglio, mentre lui cercava, con una delicatezza impensabile, di districarmi i capelli dai grumi di sangue. Vidi l’acqua che scivolava roteando nello scarico perdere gradatamente il suo colore rosso vivo per diventare sempre più rosa e infine incolore.
Si fece portare da Chiara un paio di forbicine e con quelle cominciò, con la stessa delicatezza, a tagliarmi dei piccoli ciuffi di capelli.
“È un taglietto da niente.” disse “Deve essersi rotta una piccola vena, ecco perché sanguina tanto. E poi il cuoio capelluto è molto irrorato di sangue.”
Il getto di alcol mi arrivò imprevisto come una bruciante sciabolata. Gemetti.
“Adesso ti farò un po’ male.” mi avvertì.
“Non è che mi sia tanto divertito fin’ora.” bofonchiai cercando di scherzare.
Aveva ragione. Quando mi appoggiò sulla ferita la matita emostatica fu come mi avesse conficcato un chiodo. Strinsi i denti fino a quando non tolse la mano. La riappoggiò un altro paio di volte, poi mi mise una garza che fissò con un grosso cerotto.
“Quando starai meglio dovrai trovarti un barbiere molto bravo per rimediare ai danni che ti ho fatto.” mi disse tenendomi la testa bassa. “Però almeno non soffrirai troppo a toglierti il cerotto.”
“Come facciamo coi suoi vestiti?” chiese Chiara a Gianni.
Dalla mia scomoda posizione dissi che sotto, da Massi, avevo la mia valigia coi vecchi ricambi.
Gianni chiese a Franca di chiamare Massi dalla finestra del laboratorio, che dava sul cortile interno sottostante, per fargli portar su la valigia.
“Ti senti di rialzare la testa?” mi chiese
“Si, sto bene.”
“Però resta seduto.”
Alzai gli occhi su Chiara che mi stava guardando con una espressione preoccupata.
“Non fai in tempo a trovarti un ragazzo che rimani subito vedova.” le dissi sottovoce con un sorriso.
Lei mi fissò seria, poi allungò titubante la mano verso il mio viso ad accarezzarmi con delicatezza la barba.
Gianni, mi diede un leggero schiaffetto sulla spalla nuda. “Bene campione. La mia parte l’ho fatta, torno al lavoro.”
“Grazie Gianni.” dissi.
Anche Chiara si sentì in dovere di ringraziarlo e lui la guardò un attimo sconcertato, prima di uscire dal bagno.
Quando arrivò Massi con la mia valigia, Chiara disse che anche lei doveva tornare a lavorare e che ormai non era più di utilità. Uscì trascinandosi dietro la sua poltroncina.
Avrei voluto trattenerla, ma la presenza di Massi mi intimidì.
Quando mi fui rivestito coi vecchi abiti dei giorni precedenti, Massi si offrì di riportare giù la valigia e di occuparsi di fare in modo che i capi insanguinati non macchiassero anche il resto.
Per ultimo uscii infine anch’io. Come inizio di un rapporto era certamente uno dei più originali.
Ormai si era fatta l’ora di pranzo e gli impiegati cominciarono a fluire nell’atrio. L’efficienza di Gianni aveva evitato che l’incidente provocasse troppa curiosità in ufficio, così non se ne era accorto praticamente nessuno.
Il solo Ratti uscendo notò nel pavimento dell’atrio alcune gocce di sangue. Quando gli fu detto ciò che mi era successo si limitò a scuotere la testa e a chiedere a Chiara di dare una pulita.
Mi offrii di farlo io e andai in bagno ad inumidire un po’ di carta.
Quando ritornai Franca si stava mettendo il soprabito per uscire, mentre Gianni l’aiutava.
“Vieni Chiara?” chiese rivolta all’amica.
Chiara stava ancora alla macchina da scrivere.
“Sono troppo indietro col lavoro. Rimango qui anche oggi.”
“Allora ti porto il solito panino quando rientriamo.”
“No.” disse Chiara interrompendo per un attimo la battitura. “Me lo porta Bruno, ci siamo già accordati.”
“Ah, va bene.” disse Franca sorpresa, gettandomi un’occhiata furbetta, mentre io me ne stavo impalato in mezzo all’atrio con il malloppo di carta bagnata in una mano e un sorriso ebete stampato in faccia.
Prese sottobraccio Gianni e avviandosi all’uscita disse quasi a se stessa, ma guardando me: “Quando torno facciamo i conti.”
Appena la porta si fu chiusa alle loro spalle Chiara interruppe immediatamente la battitura. Si alzò e dopo aver fatto il giro della scrivania mi corse vicino.
Ci fissammo negli occhi. Mi piaceva davvero quella ragazza. I suoi occhi innanzi tutto, ma anche il suo naso affilato, che non avevo mai apprezzato fino a quel momento, le sue labbra sottili, gli zigomi alti, i capelli. Tutto era al posto giusto, non si poteva immaginare un naso diverso o diversa una qualunque altra parte. Il suo viso era un equilibrio perfetto di piccole imprecisioni. Una minima modifica e sarebbe crollato tutto. Andava bene in quel modo, non ce n’era un altro possibile.
Restammo uno di fronte all’altra, timorosi di toccarci.
“Come ti senti?” chiese.
“Sto benissimo!” risposi sorridendo “Era tutta scena.”
“Non sai che spavento mi sono presa.”
Ci sciogliemmo in un abbraccio, impensabile solo poche ore prima. Sentii il calore del suo corpo attraverso gli abiti e fu una sensazione bellissima che non ricordavo di avere mai provato.
In quel momento si aprì la porta dell’ufficio del grande capo. Io mi buttai giù a strofinare le macchie di sangue ormai rappreso, mentre Chiara faceva un veloce dietrofront per tornare alla sua scrivania. Lui la seguì ignorandomi e cominciarono a parlottare del lavoro.
Andai in bagno a buttare la carta sporca, poi mi avvicinai con circospezione ai due.
“Scusate.” mi intromisi “Chiara, io vado giù a prendere i panini. Tu come lo vuoi?”
“Al formaggio va bene per me.” rispose compunta.
“Con una Coca.” aggiunse.
“Desidera qualcosa anche lei? Vado giù in piazza…” chiesi per formalità al capo.
“No, la ringrazio. Vada pure. Non faccia aspettare la signorina, ché avrà certamente appetito a quest’ora.”
Quando mi girai per uscire mi chiese: “Che cosa ha fatto alla testa?”
“Ho sbattuto contro uno spigolo.” risposi
“Però non ho danneggiato niente.” aggiunsi per fare dello spirito. Com’era lontana l’angoscia della mattina.
“Meglio così.” disse lui “Altrimenti il ragionier Ratti le avrebbe fatto una trattenuta sullo stipendio.”
Fu una delle poche volte che lo vidi sorridere. Sembrava quasi umano.
Feci di volata il tragitto ufficio-mesticheria e ritorno. Gli scalini quella volta li feci a tre a tre fino a piombare sulla porta.
Chiara sobbalzò sulla sedia al mio ingresso e si mise a ridere.
“Vai piano. Non t’ammazzare, oggi mi hai già spaventata a sufficienza.”
“Oggi non m’ammazza più nessuno.” dissi ansimando e porgendole il suo panino.
Presi la poltroncina di Franca e mi sedetti vicino a lei, che aveva già dato il primo morso.
Cominciai a mangiare anch’io.
Non mi ero mai reso conto, fino a quel giorno, quanto in realtà fosse trafficato quell’atrio durante la pausa pranzo. Chiara mi confermò che soprattutto i dirigenti ne approfittavano per sgranchirsi le gambe e venivano in continuazione a romperle le scatole se la vedevano al suo posto.
Mi confessò che qualche volta, per evitarli, quando io non c’ero, andava a mangiare in laboratorio e così ne approfittava per curiosare tra le mie cose o ascoltare la mia musica.
Feci la faccia offesa e suggerii di andarci insieme stavolta, ma lei non volle perché il capo quel giorno la teneva proprio sotto pressione e poteva sbucare fuori ad ogni momento, come aveva già fatto.
Approfittando di un attimo di pausa nel via vai, avvicinai il mio viso al suo. Lei si voltò verso di me con gesto naturale e ci demmo il nostro primo bacio. Il suo alito sapeva di formaggio.
Fu un bacio fugace, dato a mezza bocca, ma fu sufficiente a farci arrossire entrambi. Tornammo immediatamente ad addentare i nostri rispettivi panini proprio mentre la porta del grande capo si apriva un’altra volta.
Stavolta non cercava nessuno, solo il bagno.
All’improvviso l’atmosfera si fece triste. Cominciavamo a renderci conto che le cose non sarebbero state facili. Lei era impegnatissima ed io dovevo assolutamente finire il lavoro prima di sera. Dopo di che ci aspettava una lunga separazione.
La pausa pranzo sarebbe presto terminata e dovevamo cercare di dare un senso a tutta questa storia.
Ci mettemmo a consultare gli orari dei treni e la cosa ci rattristò ulteriormente. Per essere a Reggio Calabria il lunedi mattina dovevo partire da Ravenna nel pomeriggio di domenica. Questo comportava che andassi a casa il prima possibile per dar tempo a mia madre di lavarmi e stirarmi le cose e preparare il tutto per un lungo soggiorno lontano da casa.
Alla fine, con nostro grande sconforto, rimase una sola scelta praticabile. Dalla stazione Termini partiva un treno alle cinque e mezza di quella sera. Con quello sarei arrivato a casa verso mezzanotte. Solo prendere quello successivo, come già sapevo, mi avrebbe costretto a passare la notte nella sala di attesa di Bologna per poi arrivare a casa alle sei del mattino dopo.
Per essere alla stazione Termini per quell’ora avrei dovuto uscire prima del solito, e su questo non c’erano problemi con l’azienda, vista la particolarità della situazione, ma avrei dovuto terminare le analisi e qui le cose erano molto complicate.
Soprattutto non avremmo potuto passare la serata assieme.
Cercammo allora di studiare un modo per far pesare il meno possibile la lontananza di questi quattro mesi (avrei lavorato come un matto, anche la domenica, perché non fossero stati di più).
Quando si andava in missione l’orario di lavoro giornaliero era molto elastico, ma la settimana lavorativa era di sei giorni. Concordammo che avrei però cercato di scappare da Reggio almeno un fine settimana intero, per tornare a Roma e incontrarci. E poi ci saremmo sentiti al telefono tutti i giorni.
La situazione era comunque poco gestibile ed eravamo sempre più immusoniti mano a mano che vedevamo restringersi i margini di manovra.
Poi mi ricordai di Michele, della moglie di Michele per essere precisi. Lei non aveva voluto seguire il marito in missione, Chiara l’avrebbe fatto? Sarebbe stata disposta a venire a Reggio Calabria per passare le ferie?
Fu entusiasta dell’idea. I suoi genitori certamente non l’avrebbero lasciata andare da sola, ma c’era una concreta possibilità che potesse venire accompagnata dagli zii. E gli zii erano una coppia molto giovane che lei avrebbe cercato di convincere; con buone possibilità di riuscita visto che loro amavano viaggiare.
Ci facemmo prendere dall’euforia, felici di questa prospettiva. Un paio di settimane durante le quali saremmo stati sempre insieme. E soli, perché Chiara non dubitava di convincere gli zii a chiudere gli occhi, magari dicendo loro proprio la verità, sicura della loro complicità.
Quando tutti gli impiegati furono rientrati da pranzo io andai a chiudermi in laboratorio e mi buttai su un lavoro che oggettivamente non avrei potuto concludere. Decisi perciò di ricorrere agli estremi rimedi.
Ormai Foggia la conoscevo come le mie tasche. Le analisi che facevo erano periodiche, per valutare le variazione della falda acquifera, e sapevo bene quindi che rapporti c’erano tra un punto di prelievo e quello vicino. Su questa base arrivai a fare una analisi vera ogni tre o quattro. Le altre le inventai semplicemente.
Ogni tanto Chiara passava per un saluto. Infilava la testa corvina nel vano della porta e mi mandava un bacio e poi spariva senza entrare.
Solo una volta entrò di corsa, mi venne alle spalle e mi bisbigliò un “Ti amo.” dietro le orecchie, prima di scappare di nuovo. I capelli della nuca mi si rizzarono ed un brivido mi scivolò giù lungo la schiena. Non potei non ricordarmi del sogno di qualche giorno prima.
Alle quattro del pomeriggio il lavoro era terminato.
Misi a posto tutta la documentazione in una cartella e la portai a Chiara perché la consegnasse la mattina dopo al grande capo, visto che nel frattempo lui era andato via.
La appoggiai sulla sua scrivania.
“Finito.” dissi.
Lei alzò il viso sorridente verso di me, poi si rattristò subito.
“Allora vai?” chiese sommessamente.
Sospirai. “Sì, è meglio che mi incammini.”
Lei si morse il labbro superiore e non disse nulla.
Cercai di superare il momento critico rivolgendomi a Franca con enfasi: “Beh, Franca. Ti saluto allora. Mi sa che per un po’ non ci vedremo più.”
Franca si alzò e mi venne ad abbracciare, baciandomi sulle guance. “Fai buon viaggio” mi disse “e non guardare le ragazze calabresi. Le romane sono meglio.”
“Lo so.” le risposi convinto.
Anche Chiara si alzò e mi venne vicino, accompagnandomi alla porta. Mi sfiorò la mano con la sua, quasi di nascosto, poi girò il viso verso Franca che ci stava osservando. Franca fece un impercettibile cenno di assenso col capo e Chiara mi strinse forte la mano e mi trascinò fuori dall’ufficio.
Scendemmo lentamente le scale in silenzio. Usciti in strada svoltammo l’angolo con la via Flaminia e ci dirigemmo verso il cancello del parco macchine per ritirare la mia roba.
Appena ci vide, Massi salutò Chiara: “Ciao bella! Finalmente sei venuta a trovarmi.”
“È venuta ad accompagnare me.” mi intromisi sornione.
Gli poggiai l’indice contro il petto: “Giusto per farti capire se sono sacrificabile o meno.”
Ci guardò perplesso, accarezzandosi il pizzetto.
“Non devi farlo capire a me. Dillo al tuo amico Michele.”
Poi si rivolse a Chiara: “Tu Chiara cosa ne pensi?”
Lei si strinse nelle spalle: “Non ho capito di cosa state parlando.”
“Non importa.” intervenni, caricandomi la chitarra a tracolla e tirando su la valigia, “È ora che vada.”
Salutai calorosamente Massi e ci incamminammo verso la piazzola di sosta dei bus di Piazzale Flaminio mentre lui ci gridava dietro: “Siete davvero una bella coppia!”.
Restammo in attesa e in silenzio sulla piazzola, ognuno perso nei propri pensieri. Sbirciai verso Chiara e le vidi brillare una lacrima sul bordo esterno dell’occhio.
“Il tuo numero sta arrivando.” disse indicando col mento la direzione.
Non guardai da quella parte. La abbracciai e ci baciammo. Fu un bacio vero, questa volta. Un bacio profondo e sentito. Un bacio naturale. Un bacio.
Quando lei sentì lo sbuffo delle porte del bus che si aprivano vicino a noi, mi respinse delicatamente premendo le sue mani sul mio petto.
Aveva gli occhi lucidi. Anche i miei non erano da meno.
“Stai piangendo.” le dissi con un sorriso tirato.
“Ma, no.”
“Hai gli occhi rossi.”
“Me li sarò toccati con le mani sporche.”
Mi spinse verso l’entrata dell’autobus: “Vai.”
Uno sconosciuto mi aiutò a far salire la pesante valigia.
Mentre le porte si chiudevano con un soffio attutito, mi girai a guardarla. Piccola e deliziosa figurina in minigonna che diventava via via più piccola finché, quando l’autobus infilò il Muro Torto, non sparì alla mia vista.
Epilogo
Non rividi più Chiara.
Io rimasi intrappolato a Reggio Calabria dallo scoppio della rivolta e lei non poté poi raggiungermi per passare insieme le vacanze.
Rimanemmo per un po’ in contatto telefonico, ma non avevamo sostanzialmente molte cose in comune di cui parlare e le nostre telefonate diradarono lentamente, fino a cessare del tutto.
Quando, dopo otto mesi, finalmente rientrai a Roma, Chiara si era licenziata e nessuno, nemmeno Franca, sapeva che fine avesse fatto.
Io rimasi ancora un anno con quell’azienda, sempre sballottato in giro per la penisola, poi mi licenziai a mia volta per tornare a Ravenna.
La lettera di dimissioni me la battei personalmente su una Olivetti portatile che mi aveva lasciato Michele nel passaggio di consegne a Reggio e di cui l’azienda non mi chiese mai conto.
FINE
I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2012 per questo blog.
Ecco un estratto:
The London Olympic Stadium is 53 meters high. This blog had about 740 visitors in 2012. If every visitor were a meter, this blog would be 14 times taller than the Olympic Stadium – not too shabby.
Clicca qui per vedere il rapporto completo.
“Ciao”
La voce di Chiara mi arrivò da dietro, quasi un sussurro. L’impressione fu quella di una voce molto vicina, simile a quella del sogno di qualche giorno prima, e mi immaginai la sua bocca a pochi centimetri dal mio orecchio. Per un attimo avvertii i peli della nuca rizzarsi in maniera imprevista e mi sentii piuttosto in imbarazzo.
Ero appena entrato in ufficio e mi ero chiuso il portone alle spalle dirigendomi dritto verso le scrivanie delle segretarie, stranamente deserte, quando percepii il suo saluto.
Mi girai lentamente.
Chiara in realtà non era così vicina. Era appena uscita dalla toilette, che rimaneva sulla sinistra dell’ingresso, e stava distrattamente frugando nella sua borsa dopo avermi salutato come tutti i giorni. Il silenzio del piccolo atrio deserto aveva amplificato la sua voce dandomi l’impressione che fosse proprio dietro di me.
“Ciao” risposi con tono neutro, aspettando che mi raggiungesse mentre colmava quei due passi che ci separavano.
Lei teneva sempre lo sguardo alla borsa e per poco non mi urtò. Si arrestò sorpresa quando intuì che mi ero fermato ad attenderla e alzò gli occhi verso i miei. Erano veramente belli.
Io in genere avevo difficoltà a conversare con gli altri guardandoli negli occhi. Istintivamente ero portato a concentrarmi sulla bocca. Avevo l’impressione che fissando gli altri negli occhi ne violassi l’intimità e che gli altri violassero la mia.
In quel momento però rimasi a guardare i suoi perché ero affascinato dalle minuscole variazioni di azzurro ceruleo e blu cobalto che li caratterizzavano. Non stavo fissandola negli occhi, glieli osservavo come si fa con un quadro.
Anche lei, per un attimo, dovette trovare qualcosa di interessante nei miei, perché la vidi attenta e concentrata, poi sembrò rendersi conto che non era uno sguardo casuale se si protraeva troppo a lungo, così lo distolse volgendo di nuovo la sua attenzione alla borsa che stava cercando di chiudere con un po’ di difficoltà.
“Cosa ti sei persa lì dentro?” chiesi con una risatina nervosa indicando la borsa col mento.
Ci fu un momento di silenzio impacciato.
Tornò a guardarmi, ma stavolta con uno sguardo furbetto che sbirciava tra la frangia nera del capo chino.
“Il filo del discorso, me sa.” disse con una smorfia.
Non feci in tempo a replicare che la porta dell’amministrazione si aprì lasciando uscire Franca, la quale si soffermò sulla soglia un attimo a fissarci prima di richiudersela alle spalle.
“Cosa state complottando voi due?” chiese con un sorriso complice andando a sedersi alla macchina da scrivere.
Chiara si affrettò a raggiungere la propria scrivania mentre io risposi serioso: “Si stava discutendo dell’opportunità di mettere un semaforo in questo atrio per evitare scontri tra chi va e chi viene”
“Uh” fece Franca, spostando gli occhi leggermente sgranati verso la collega che si limitò a stringersi nelle spalle, replicando con un “Ma figurati.” prima di sedersi a sua volta.
Non mi sentivo in vena di schermaglie ironiche, come era costume tra noi tre quando eravamo in forma. Mi limitai ad un cenno di saluto alzando stancamente una mano e mi incamminai lungo il corridoio diretto al mio antro.
La voce di Franca mi inseguì: “Ma chi è che veniva da destra?”
“Nessuno veniva da destra,” risposi senza fermarmi “è stato solo un rischio tamponamento”
“Non ho rispettato la distanza di sicurezza!” disse Chiara ad alta voce.
“Devi fare attenzione,” la canzonò Franca “non hai dei grandi paraurti”.
Entrambe scoppiarono a ridere mentre io ormai avevo già imboccato la porta del laboratorio.
Mentre cominciavo la solita routine quotidiana mi sentivo strano. Un po’ euforico e un po’ depresso. C’era un pensiero che non riuscivo a togliermi dalla testa.
Preparavo i campioni di acqua da analizzare, attaccavo le etichette alle bottiglie, preparavo la soluzione saponata per le prove di durezza, ma qualunque cosa facessi ormai quel pensiero si era fissato nella mia mente.
Cercai di scacciarlo mettendomi subito al lavoro. Mi apparecchiai tutti gli strumenti vicino al lavello e mi sedetti per cominciare. Una fila ininterrotta di formiche entrava dal finestrotto che dava luce a quell’angolo altrimenti buio del laboratorio, passava sopra il bordo del lavello e si perdeva in una fessura del muro, indifferente alla mia persona ed ai miei pensieri.
Quasi per dispetto riempii una pipetta di sapone e spinsi il sottile getto lungo il camminamento delle formiche per ostacolarle. Rimasi sorpreso e affascinato dal fatto che a contatto della sostanza queste non venivano solo infastidite, come mi aspettavo, ma rimanevano letteralmente fulminate all’istante. Gettai un’altro piccolo schizzo nel foro del muro e nel punto di ingresso. In un attimo nel laboratorio non c’erano più formiche vive.
Divertito dalla scoperta cominciai ad andare a caccia di nuove vittime negli angoli più remoti dell’intero laboratorio, ma trovai solo i resti ormai rinsecchiti di una piccola scolopendra sotto al lavandino.
La caccia alle formiche era servita a distrarmi per qualche momento, però quando cominciai a lavorare sul serio quel pensiero tornò a farsi avanti.
Fare le misure di durezza dell’acqua è un lavoro metodico e noioso. Si tratta di prelevare un campione di acqua, versarvi dentro con una pipetta un quantitativo fisso di uno specifico sapone liquido e poi scuotere a mano il tutto per un tempo prefissato. Si forma così uno strato di schiuma sulla superficie del campione il cui spessore va misurato ad indicare il grado di durezza.
All’inizio di questa mia attività in punizione ci mettevo molto impegno ed attenzione, ma ormai le mie azioni erano completamente automatiche e potevo tranquillamente vagabondare tra mille altri pensieri contemporaneamente.
E quel giorno il mio pensiero ormai fisso era Chiara al gabinetto.
Chiara seduta sulla tazza, le mutande alle caviglie, mentre faceva pipì era un’immagine che non riuscivo a scacciare.
Fino a quel momento Chiara per me era stata sempre un essere asessuato. Ad esclusione di ciò che si vedeva, non aveva neppure la pelle sotto i vestiti; i suoi abiti erano la sua pelle, come una bambola di stoffa. Era una presenza scenica della mia vita di ufficio, con cui scambiare ogni tanto qualche parola, non una persona reale in carne ed ossa. Così come tutte le altre persone dell’ufficio in fondo.
Carne. Invece adesso la vedevo per la prima volta come carne, sangue, e un sesso ben preciso che faceva pipì.
Realizzavo in quel momento che aveva lo stesso sesso che guardavo eccitato in certi giornali che compravo, non senza un qualche imbarazzo, alla stazione Termini.
Per la prima volta mi trovai a dover ripetere una misurazione. Mi ero incantato ad immaginare Chiara completamente nuda, con in più i suoi piccoli paraurti, e avevo lasciato che la schiuma nel campione si esaurisse.
Cercai di concentrarmi sul lavoro come nei primi tempi, ma quel pensiero stava diventando ossessivo. Decisi che dovevo fare una pausa per distrarmi. Mi serviva un caffé, anche se lo avevo già preso da nemmeno una mezz’ora, perciò abbandonai tutto per scendere al bar di Piazzale Flaminio.
Infilai spedito il corridoio e mi sforzai di non pensare al sesso di Chiara una volta che le fossi inevitabilmente passato davanti per uscire.
Mentre mi avvicinavo all’atrio sentii un parlare fitto e qualche risatina dietro l’angolo del corridoio dove stavano le due segretarie.
Arrivato davanti alle scrivanie la mia comparsa destò una certa agitazione. Le due ragazze stavano confabulando presso la postazione di Franca. Franca era seduta al suo posto e Chiara era in piedi dietro di lei, china oltre la spalla dell’amica.
Al mio apparire alzarono contemporaneamente la testa e mi guardarono entrambe con un’espressione di sbalordimento. Franca si affrettò a chiudere un cassetto che teneva aperto, mentre Chiara, dopo essersi rialzata lentamente ed essersi messa a posto la frangetta con esagerata noncuranza, tornò al proprio posto.
“È tutto chiaro adesso?” le chiese Franca.
“Sì, sì” rispose distratta Chiara.
“E vedi di non farmele fare più certe figuracce.” finse di rimproverarla Franca, gettandomi uno sguardo complice.
Chiara, che nel frattempo si era seduta, si girò di scatto verso di lei come a voler protestare, ma poi tornò sbuffando al suo lavoro.
“Se hai bisogno di qualcosa, oggi puoi chiedere a me, ché la signorina qui ha le cose sue.” si rivolse a me Franca con un gran sorriso.
“Eddai!” si lamentò Chiara, ma tra i capelli che le coprivano in parte il viso notai un sorrisetto.
Non aveva una bella bocca, le labbra erano molto sottili, ma il suo sorriso mi piaceva. Se provavo ad immaginare lo stesso sorriso su un’altra bocca non ottenevo lo stesso effetto. Lei aveva le labbra giuste per quel sorriso.
“Ero solo qui di passaggio. Vado a farmi un caffé al bar perché stamattina non l’ho ancora preso” mentii.
Franca tossicchiò per attirare l’attenzione dell’amica.
“Oh, che combinazione,” disse “pensavamo proprio che ci servirebbe qualcosa dal bar. Cosa dici Chiara?”
“Non saprei. Sei tu la capa. Cosa hai in mente?”
“Una confezione di pastarelle? Non andrebbe?”
Chiara assunse un’espressione imbronciata, mentre si girava lentamente a guardarmi: “Mmh.. sì, perché no?”
“Ok allora.” disse Franca “Bruno, non ti scoccia vero portarci un vassoietto? Oggi siamo decise a rovinarci la linea.”
“Non c’è problema” ribattei io “che tipo di pastarelle volete?”
“Oh, fai pure tu. A tuo gusto, ci fidiamo” disse Franca euforica mentre si affaccendava nella sua borsa.
“Aspetta, ti do i soldi” aggiunse.
“Dai, non c’è bisogno. Offro io” mi opposi.
“Non se ne parla. Niente soldi, niente paste”
La passeggiata al Piazzale mi fece bene. Dopo un primo momento di crisi, durante il quale immaginavo ormai tutte le donne che mi passavano accanto mentre facevano pipì, riuscii a distrarmi concentrandomi nella scelta delle pastarelle.
Non mi avevano detto quante ne volevano e dovetti fare di testa mia. Prima mi orientai verso il numero di quattro poi ne aggiunsi una quinta sperando in cuor mio che me la offrissero per il disturbo.
La confusione dentro al bar, tra tintinnare di tazzine, colpi di filtro di caffé dietro al bancone e via vai di gente vociante, riuscì a rimettere in careggiata il mio cervello bacato, così, quando rientrai in ufficio, Chiara era tornata ad essere la bambola di stoffa come era sempre stata.
Intanto che ero fuori ne approfittai per comprarmi anche una birra ed un panino per il pranzo. Uscito dal bar mi recai in ultimo all’edicola per comprare anche il giornale, così non avevo più bisogno di uscire a mezzogiorno.
Al rientro confessai candidamente il giochetto del numero dispari di paste con l’espressione del cane bastonato che mendica un tozzo di pane.
Le due ragazze sorrisero apertamente. Chiara si sporse leggermente verso di me e con un sorriso perfido disse: “Me sa che t’ha detto male. Le paste non sono mica per noi.”
“Sono un regalo” cinguettò Franca.
Esalai un profondo sospiro di delusione.
“Che sfiga!” dissi.
“Ma non eravate voi a preoccuparvi della linea?” aggiunsi, dopo una breve riflessione.
“Beh, speriamo bene che qualcuno lasci qualcosa anche a noi” disse ridendo Franca, calcando il tono su quel ‘qualcuno’.
“Magari proprio la quinta tua” insinuò civettuola Chiara tornando a guardarmi con quei suoi occhi blu. Distolsi immediatamente lo sguardo.
Ma non si rendeva conto che aveva un’arma letale al posto degli occhi? Non poteva spazzare lo sguardo a destra e manca come niente fosse; non aveva gli occhi normali come tutti, avrebbe dovuto essere più responsabile. Andavano maneggiati con una cautela di cui lei non sembrava consapevole. Quegli occhi li doveva riservare solo ad un suo eventuale innamorato, ammesso che ne trovasse uno disposto a soprassedere su tutti gli altri difettucci. Per noi comuni mortali doveva dotarsi di un paio d’occhi di riserva, accidenti.
‘E non doveva andare al gabinetto’, continuai a pensare mentre mi ritiravo in laboratorio dopo avere brevemente salutato la compagnia.
A metà mattinata la routine aveva preso definitivamente il sopravvento sui miei disordinati pensieri. La musica di Joe Cocker faceva da sottofondo alle mie analisi mentre, tra un campione e l’altro, gettavo avide occhiate al bordo del lavello in cerca di piccole vittime a sei zampe da sacrificare al mio sadismo. Chiara e la sua pipì mi erano ormai indifferenti ad un punto tale da farmi dimenticare l’impegno preso con me stesso nei giorni passati.
In cuor mio sapevo che non ci sarebbe stata mai nessuna pizza. Io avrei continuato la mia vita come prima e lei la sua. Mi rendevo conto che non c’era nessuna infatuazione nei miei confronti e la cosa mi risollevava. Di positivo in questa storia mettevo che ora avevo con lei un rapporto più amichevole.
Per me, che ero uno straniero, la possibilità di avere un amico a Roma era una prospettiva bella. Non sarei stato così solo nei fine settimana; si sarebbe potuti andare in giro assieme e magari potevo entrare nella comitiva dei suoi amici, dove le ragazze più belle di lei certamente non dovevano mancare.
Però, per cominciare una amicizia, forse una pizza era d’obbligo. Almeno quello sforzo avrei dovuto farlo.
Mi strinsi nelle spalle. L’occasione non sarebbe mancata. Senza fretta.
Sentii bussare sommessamente e subito dopo la porta si aprì con esitazione. La testa bionda di Franca fece capolino, mentre dietro di lei intravidi la capigliatura corvina di Chiara.
“Possiamo entrare?” chiese Franca, facendo contemporaneamente un passo avanti senza attendere risposta.
“Prego.” feci io un po’ sorpreso “A cosa devo l’onore?”
Avanzarono quasi con cautela, dopo che Chiara si fu chiusa la porta alle spalle, con le braccia incrociate dietro la schiena e guardandosi platealmente attorno.
“Non ci vengo spesso qui,” disse Franca “però non mi ricordavo che non è proprio un posto dove farci una festa”
Chiara annuì con una smorfia.
“Non è vero” protestai ridendo “Adesso trovate un po’ di disordine solo perché l’ultima baldoria è finita da poco.”
“Che festa hai organizzato?” chiese Chiara incuriosita.
“Oh, beh!” risposi evitando di guardarla negli occhi “Ho fatto amicizia con una famigliola di pantegane e ogni tanto ci si vede qui per fare un po’ di casino”
Risero entrambe, poi Franca indietreggiò con fare teatralmente circospetto verso la mia scrivania, sempre con le mani dietro la schiena e senza perdermi di vista. Gettai uno sguardo interrogativo verso Chiara, ma i suoi occhi blu erano incautamente puntati su di me perciò tornai a guardare velocemente verso l’altra, che nel frattempo aveva posato sul ripiano della scrivania il vassoio di paste che io avevo comprato per loro.
“Auguri!” disse Franca con un gran sorriso.
“Auguri!” disse Chiara all’unisono dietro alle mie spalle.
Rimasi a bocca spalancata senza saper replicare.
Era il mio compleanno, ma non avevo mai pensato di festeggiarlo. Non lo sapeva praticamente nessuno e non avevo amicizie tali a Roma da sentirmi di condividerlo per festeggiare. Coloro ai quali pensavo veramente come amici erano tutti fuori in missione ed io avevo pensato di festeggiarlo in realtà durante il fine settimana che avrei passato a casa.
“Mancherebbe lo spumante, però non abbiamo osato chiederti di comprare anche quello perché avresti sicuramente subodorato la faccenda.” disse garrula Franca.
“Non c’era pericolo. Non sa manco che esistiamo!” mi rimbrottò Chiara con tono indolente.
Sorrisi impacciato.
“È certo una sorpresa” dissi “ma come facevate a saperlo?”
Chiara si avvicinò e mi prese sottobraccio con aria complice.
“Sai, ci sono i suoi vantaggi a frequentare l’ufficio del personale.” mi sussurrò all’orecchio.
Di nuovo sentii i peli della nuca rizzarsi, ma cercai di non farci caso.
“Io vi ringrazio, non so che dire. Mi avete proprio spiazzato” dissi, cercando di darmi un contegno mentre la mano di Chiara lasciava il mio braccio, ma io continuai a sentirne il calore sotto la stoffa della camicia.
“Non devi dire niente” affermò risoluta Franca “devi solo aprire il pacchetto e lasciarci dividere la quinta pastarella. Le altre sono tutte le tue”
“Ah no!” protestai ridendo “la quinta è la mia, voi vi dividete le altre quattro. I patti sono patti!”
“Ma come no! È la tua festa. Guarda! Abbiamo portato anche un raffinatissimo coltello di plastica proprio per dividerla.” disse Franca sventolandomi davanti al naso la posata.
“E io ho portato i tovagliolini di carta.” aggiunse Chiara posandoli sulla scrivania.
La guardai sospettoso perché continuava a tenere un braccio dietro la schiena. Franca intercettò il mio sguardo e si affrettò ad interporsi tra noi due.
“Naturalmente” disse “una festa di compleanno non è seria se non c’è anche il regalo. No?”
“E noi ti abbiamo fatto anche il regalo” aggiunse Chiara posando un pacchetto tutto infiocchettato sulla scrivania.
Lasciai cadere le braccia con gesto sconsolato: “Anche il regalo. Così mi volete proprio mettere in imbarazzo.”
“Ad un patto, però!” disse Franca posando risoluta una mano sul pacchetto “che tu lo apra solo dopo che saremo uscite di qui”
La guardai di sottecchi: “È uno scherzo allora!?”
“No, no!” si affrettò a rispondere “Non è uno scherzo. Anzi, è una cosa mo-olto seria. Però, conoscendoti un po’, preferiamo che tu lo apra quando noi siamo a distanza di sicurezza.”
Rise.
“Beh, non aspettarti chissà che.” disse Chiara timidamente “È solo un pensierino.”
“Che però ci ha tenute impegnate per una intera serata per trovarlo” aggiunse ironica Franca.
La festicciola fu piuttosto breve, stanti le urgenze di lavoro delle due segretarie, e le paste furono presto aggredite senza che nessuno dei tre si tirasse indietro. La più accanita delle mie avversarie nell’apprezzarle (io era noto a tutti come un goloso senza limiti) fu paradossalmente proprio Chiara, la più mingherlina del gruppo. Diceva che il suo metabolismo le permetteva qualunque stravizio.
Dopo che furono uscite guardai con sospetto il piccolo pacco regalo. Da una parte ero curioso di aprirlo, dall’altra ero titubante per paura di una delusione o peggio di uno scherzo.
Non era uno scherzo, almeno non completamente. Era un libro politico.
Tutti conoscevano le mie idee di comunista ortodosso e militante, con tanto di tessera del P.C.I. in tasca, e per questo ero sempre bonariamente preso in giro un po’ da tutti essendo l’unico in tutta l’azienda a professare apertamente tali idee con veemenza. Nessuno si interessava di politica ed io predicavo in pratica nel deserto. In ogni caso quasi tutti erano per lo più di idee moderate, se si escludevano un paio di colleghi di campagna, che si riconoscevano in Lotta Continua o Potere Operaio, e un dirigente, mio compaesano, che si professava socialista.
Di Franca non sapevo nulla, ma immaginavo avesse le stesse idee di Gianni che sembrava in tutto e per tutto un fascistone. Chiara non si sbilanciava; studiava e lavorava e solo per questo ero propenso ad inquadrarla come simpatizzante delle idee mie, ma in realtà poteva essere di tutt’altra parrocchia. In ogni caso con loro due non si erano mai fatti discorsi politici, ma solo cazzeggi vari.
Il titolo del libro era una vera e propria provocazione nei miei confronti: ‘Quel che non ha capito Carlo Marx‘ di Armando Plebe.
Conoscevo Plebe di fama. Un marxista rinnegato che nel ’68 abiurò le sue idee per passare nelle fila del M.S.I. Era quello che, per usare la terminologia cara alla sinistra extraparlamentare, si poteva definire un nemico del popolo.
Non avrei certo letto quel libro e mi dispiaceva che quelle due avessero buttato i loro soldi per arricchire uno stronzo solo per la voglia di prendermi un po’ in giro.
Aprii svogliatamente la copertina e sulla prima pagina bianca trovai la dedica scritta a due mani: ‘All’eremita della ditta con affetto Franca e Chiara‘ con due note tra parentesi sotto ognuno dei due nomi.
Sotto il nome di Franca c’era la scritta ‘(Perché tu no?)‘, mentre sotto l’altro nome c’era scritto ‘(Si è compromessa, vero?)‘.
Sfogliai senza convinzione alcune pagine.
‘Marx fu allievo perfetto nell’ereditare questa presunzione, così come nell’ereditare l’antipatia verso la natura‘
‘Dove sono i capitalisti padroni e despoti della società?‘
‘Sostanzialmente per il giovane Marx diventar uomo significava diventare gregario.’
Basta! Ne avevo già abbastanza della lettura del libro che chiusi sgarbatamente in un cassetto.
Mi alzai deciso, aprii la porta e a lunghe falcate mi diressi verso la postazione delle due “affettuose” amiche. Una volta giuntovi aspettai che entrambe mi guardassero ben bene e poi mostrai loro la lingua, girai i tacchi e me ne tornai in laboratorio, mentre dietro le mie spalle le sentii scoppiare in una risata.
“Dai, leggilo bene. Vedrai che ti piacerà” mi gridò dietro Franca.
Il resto della mattinata trascorse senza altre sorprese. Lavorai con lena e grande euforia in conseguenza della piacevole improvvisata che le due streghette mi avevano riservato.
Anche se il regalo non era stato di mio gusto alla fine lo accettai per ciò che era, un piccolo scherzo. In fin dei conti il vero regalo era stato organizzare quel minimo rinfresco, apposta per me.
Non misi più fuori il naso dal laboratorio fino a sera. Passai la pausa pranzo a sbocconcellare svogliatamente il panino, visto che le paste avevano lasciato il segno sul mio appetito, mentre curiosavo tra le pagine politiche del quotidiano.
Ero un lettore fedele de L’Unità che, prima di trovare lavoro a Roma, avevo anche distribuito su e giù per i vari piani dei condomini della mia zona.
Ricordai con piacere quella volta che mi ero trovato di fronte ad un uomo che non volle saperne assolutamente di acquistare il giornale e che, anzi, mi trattò parecchio male e con aggressività, sbattendomi poi la porta in faccia senza lasciarmi replicare. Rimasi per un po’ a fissare la porta chiusa, ferito nel mio amor proprio, poi stizzito decisi che il giornale glielo avrei comunque lasciato e glielo abbandonai sullo zerbino.
Quando fui tornato in sezione ed ebbi raccontato con orgoglio l’episodio non trovai un grande entusiasmo. Il giornale costava e non ci si poteva permettere di buttarlo via in quel modo. E poi non dovevamo imporre la nostra presenza agli altri: se uno voleva il giornale bene, altrimenti si passava oltre senza discussioni.
Perso nelle mie fantasie politiche ritirai fuori il libro dal cassetto. Sfogliai ancora qualche pagina: ‘… l’immagine che nei suoi scritti egli fornisce della società comunista è chiaramente quella di una società in cui, in odio alla cultura, l’improvvisazione e l’incompetenza sostituiscono la competenza.‘
Lasciai perdere e mi concentrai sulla dedica che era la cosa più seria di tutto il libro.
Le firme erano state scritte naturalmente da due mani diverse, ma il testo, con tanto di data, era sicuramente di Chiara e mostrava una grafia piuttosto allungata e morbida, mentre quella di Franca appariva più contratta e spigolosa. Notai che Franca, oltre alla propria firma aveva scritto anche la nota sotto il nome di Chiara: ‘(Si è compromessa, vero?)‘.
Ebbi un tuffo al cuore. La prima volta avevo letto le note nella stessa sequenza dei nomi, Franca e Chiara, e il tutto mi era apparso scherzoso, ma un po’ confuso. Adesso invece, isolata dal resto, quella frase brillava di luce propria e tornava a confermare le idee di cui volevo invece cominciare a dubitare.
Rimisi in fretta il libro nel cassetto. Non avevo nessuna di voglia di pensare a quella stramaledetta pizza. Non quel giorno almeno. Era la mia festa e non avevo nessuna intenzione di rovinarmela incaponendomi in inutili strategie velleitarie.
Alla fine dell’orario di lavoro sarei andato a fare un giro rilassante in via del Corso per farmi da me un regalo serio, e al diavolo le smancerie di Chiara e gli intrighi di Franca.
Mi buttai sul lavoro a testa bassa, anche per recuperare il ritardo accumulato nella mattina, e la rialzai solo quando ormai era sera.
Diedi un’occhiata all’orologio. Non avevo mai fatto così tardi e fortuna che era la mia festa.
Raccattai velocemente le mie cose, che buttai nella borsa, e mi fiondai lungo il corridoio, dopo un attimo di esitazione al pensiero di passare davanti alle segretarie. Le quali forse non avevano proprio apprezzato la mia scomparsa per tutto il resto del giorno, visto che si erano impegnate per farmi una cosa gradita.
Qualcosa mi sarei inventato.
Accolsi con sollievo il fatto che l’atrio fosse deserto. Era in effetti molto tardi ed erano praticamente già usciti tutti. Si sentiva solamente qualche voce isolata e attutita in una delle stanze dei dirigenti.
Prima di aprire il portone gettai un’occhiata verso la porta del gabinetto quasi col timore di veder riapparire Chiara.
Mi affrettai ad uscire e scesi le scale a due gradini alla volta fino all’ingresso, avviandomi poi frettolosamente verso Piazzale Flaminio.
Svoltato l’angolo del caseggiato con la via Flaminia mi arrestai di colpo. Davanti a me, distante pochi passi, c’era la sagoma inconfondibile di Chiara che con tranquillità si stava dirigendo verso le fermate dei bus.
Ed era sola.
Il suo passo era tipico e la faceva ancheggiare in un modo che evidenziava le sue gambette storte. Provai un attimo di tenerezza verso quelle gambette, poi mentalmente risalii fino al sedere e la immaginai di nuovo al gabinetto e tutto il resto.
Mi sentii avvampare. Non era esattamente il tipo di pensiero giusto per abbordare una ragazza per strada.
Poco coraggiosamente il mio primo istinto fu di cambiare direzione, attraversare la via Flaminia e poi dall’altro marciapiede andare direttamente alla stazione del trenino che mi avrebbe riportato a casa.
Però non lo feci. Questa era l’occasione che avevo cercato invano nei giorni precedenti, non potevo lasciarmela sfuggire.
Lei era lì, era la mia festa, eravamo in amicizia, la pizza ci poteva stare senza fraintendimenti.
Tirai un gran sospiro e mi decisi a raggiungerla cercando di scacciare i pensieri impudici.
Dopo pochi passi l’avevo affiancata.
“Signorina, la posso accompagnare per un tratto?” le dissi con tono affettato.
Lei si girò di scatto, sorpresa: “Ehi, ma ciao! Da dove sbuchi?”
Assunsi un’aria desolata: “Ho fatto un po’ tardi col lavoro. Sono rimasto indietro perché qualcuno mi induce in tentazione con delle orribili pastarelle.”
“Eh già, veramente orribili” convenne lei fingendo una faccia schifata “Praticamente mi hanno rovinato il pranzo. Ho lasciato tutto nel piatto”
Sorrisi con lei.
“Dove stai andando di bello?” le chiesi cercando di nascondere l’agitazione che si stava improvvisamente impossessando di me.
Lei alzò gli occhi al cielo come una martire: “E dove vuoi che vada? A casa. A studiare, come sempre.”
Sbuffò.
Ci fu un momento di silenzio imbarazzante. Con orrore mi resi conto che mi venivano a mancare le parole.
“Tu invece dove vai adesso?” mi soccorse lei.
“Mah. Avevo l’idea di fare una passeggiata lungo via del Corso prima di tornare a casa anch’io. Più avanti c’è un negozio di musica e pensavo di acquistare un po’ di spartiti per la chitarra”
La mia mano libera (l’altra teneva la borsa) gesticolava con un po’ troppa enfasi e mi imposi di tenerla in tasca.
“È vero che tu suoni la chitarra!” si ricordò lei radiosa.
“La suonicchio.” convenni.
“Un giorno mi fai sentire qualcosa?”
“Non ti conviene, dammi retta.” risposi ridendo, dandomi mentalmente dello stronzo. Perché non questa sera?
“Ti è piaciuto il nostro regalo?” chiese con uno sguardo beffardo di sottecchi.
“Lasciamo stare” replicai fingendo di essere arrabbiato.
Lei mi mostrò il suo bel sorriso.
“Ieri sera ci siamo andate noi in via del Corso. Ce semo fatte non so quante librerie per trovare il tuo regalo.”
Non riuscii a replicare con una battuta efficace per ironizzare su quella ricerca.
Nel frattempo eravamo arrivati alla piazzola di sosta, dove ci fermammo.
Di nuovo calò il silenzio. Forza, mi dicevo, chiediglielo. È fatta, basta aprire la bocca. ‘Perché non ci andiamo a mangiare una pizza stasera? In fondo è ancora la mia festa. Studierai domani.‘
Niente. Le parole non volevano uscire e cominciai a sentire un leggero tremore alle gambe e compresi che ero ormai nel panico.
“Beh, io devo aspettare qui il mio numero. Allora buona passeggiata.”
Lo disse con tono gaio, ma il suo sguardo era assente.
Annuii con la testa e borbottai un grazie.
Dopo un attimo di esitazione mossi il primo passo per attraversare il piazzale e andare in Piazza del Popolo.
“Ciao.”
“Ci vediamo domani.”
Mentre attraversavo faticosamente Piazzale Flaminio, cercando di schivare le macchine, mi davo mentalmente del cretino. Sentivo i suoi occhi azzurri penetrarmi la nuca, ma forse no. Lei in fondo non si aspettava realmente niente da me di diverso dal solito. Non si aspettava che una piccola nota di Franca mi illuminasse all’improvviso e certo non sapeva che io avevo capito tutto da tempo.
Arrivato alla porta di accesso alla piazza del Popolo un pensiero mi fulminò: Quel che non ha capito Carlo Marx!
Io ero Carlo Marx. Il comunista. Io ero colui che non aveva capito.
Mi girai a guardare il Piazzale, ma l’area di sosta dove l’avevo lasciata era ormai vuota. Il suo bus era probabilmente quello che in quel momento stava accelerando in direzione del Lungotevere sbuffando una polvere grigia dal tubo di scappamento.