Settecani

di Cinzia Pierangelini

“ La lingua nun havi l’ossa
e rumpi l’ossa.”

La prima volta che vidi Settecani avrò avuto otto anni. Era un pomeriggio di primavera, e passeggiavo sul corso con mia madre e mio fratello. Settecani apparve in fondo alla strada: una visione inquietante, irreale.
Come ogni mamma che, seriamente irritata, usa minacciare la propria pestifera discendenza con frasi del tipo: piantala di fare i capricci o chiamo l’uomo nero, il ba-bau, l’orco e così via, “Eccolo, guardate!” disse quel giorno mia madre, stremata dai nostri continui capricci, “Adesso vi piglierà, così imparate a fare i monelli!” Dovette certo pentirsi di quella stupida frase, perché passò le nottate seguenti a consolare mio fratello che sognava le bestie di Settecani, e si svegliava gridando, sudatizzo e terrorizzato.
Settecani non era certo il nome dello sconosciuto, ma l’epiteto che adottò la gente per il mio eroe misterioso. Dalla sua comparsa in paese, infatti, l’uomo non si separò mai da sette cagnacci ringhiosi, che lo adoravano e impedivano a chiunque di avvicinarglisi. Non che ce ne fosse bisogno in realtà, ché escluso me, tutti s’impegnavano a mettere la maggior distanza possibile tra la propria persona e Settecani.

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