Il voto degli iracheni meritava un nostro esordio migliore

febbraio 17, 2005


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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La linea del niente nemici a sinistra peserà su identità, scelte e consensi della FED

Iraq, unità della Federazione, sua identità politica: la vicenda del voto sul rifinanziamento della nostra missione la si comprende per intero solo collocandola all’interno di un triangolo di cui questi sono i vertici. Sono tre argomenti sui quali le opinioni si dividono in modi diversi: vi sono critiche con notevoli differenze sull’Iraq, larghissimo consenso sulla Federazione in sé; mentre ancora tutta da costruire è l’identità politica.

Si è voluto scegliere – difficile davvero credere si sia trattato di un puro caso, o di coincidenza di calendario – un tema tra i più controversi come l’Iraq per saggiare e dimostrare la compattezza della Federazione. La compattezza è stata raggiunta e dimostrata, con un certo dispiegamento di leadership anche ruvida, ma il suo prezzo è stata l’afasia: l’Ulivo non ha presentato nessuna mozione al voto del Parlamento. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, viene da dire.
All’assemblea al Senato di martedì mattina sull’Iraq si sono succeduti interventi appassionati, argomentazioni raffinate; si sono ricordati i morti, gli attentati, il voto. Finché non ha preso la parola Cesare Salvi: «Se presentate un documento – ha detto parlando in piedi col microfono in mano – Rifondazione ne presenterà un altro e molti di noi lo voteranno». Trenta secondi, e la discussione era finita. Senza bisogno di dire una parola sull’Iraq. Su che cosa vi si sia messo in moto dopo il voto, su come e se convenga all’Italia e all’Europa sostenerne concretamente la transizione odierna, a prescindere dal giudizio di condanna dato ieri sulla guerra. Diventava chiaro che tutto era strumentale all’unico obiettivo che contava, prendere una decisione funzionale all’obiettivo politico di non distinguersi da Rifondazione.
Quanto all’Iraq, il nostro voto è senza conseguenze pratiche. Quanto all’unità della Federazione, la si dovrà verificare a ogni nuova prova. Quella che durerà a lungo è sin d’ora la conseguenza sul terzo vertice del triangolo: il profilo politico della Federazione. Questo è ciò di cui si dovrebbe discutere e votare: e invece deriva come conseguenza dell’aver preso in ostaggio, col voto sull’Iraq, la volontà unitaria della stragrande maggioranza dell’Ulivo. Davvero una conseguenza initenzionale? Viene fin da dubitarne.
In ogni caso le conseguenze di questo voto vanno ben oltre il caso Iraq ed è con queste che avremo a che fare. Mi domando se la maggioranza dei Ds, che hanno modificato il proprio statuto e ceduto sovranità alla Federazione su temi fondamentali di politica estera ed economica, l’hanno fatto condividendo davvero una linea politica tanto preoccupata di non rompere a sinistra. O se invece non sia un obiettivo abilmente pilotato da una ristretta leadership. La linea del nessun nemico a sinistra non è di per sé improponibile. Io però la considero sbagliata. I problemi attuali del paese sono la risultante di una deriva iniziata venti, forse trenta anni fa, proseguita e accresciuta al cambiare dei governi. Ad invertire questo trend non basterà proporsi di creare un diverso clima nel Paese, chiedere più condivisione di responsabilità e offrire più sicurezza. Questo è il necessario punto di partenza, certo: ma rischia di essere un’illusione uguale e contraria a quella di Berlusconi, cioè che bastasse liberare gli animal spirit per avviare il paese sul sentiero di una forte crescita. Quel “declino” discende da decenni di comportamenti corporativi e collusivi: ci vorranno la forza di volontà e la forza di persuasione di un Blair per sradicarli. Questa non è la visione di Rifondazione: si legga per credere il saggio di Fausto Bertinotti pubblicato proprio martedì su Liberazione e giustamente “beccato” dal Riformista. Certo, sono propositi di una minoranza nell’Unione. Ma come riusciremo a far credere agli elettori che se oggi sull’Iraq la Federazione cede, non cederà domani su altri temi? Chi ci darà fiducia se mostriamo di cedere per non rischiare su un’elezione regionale?
Se una linea politica molto attenta a non rompere a sinistra non è di per sé improponibile, meno accettabile è l’ambiguità che aleggia intorno alla nostra posizione. Non chiediamo il ritiro, si dice, neghiamo solo il rifinanziamento della missione; cerchiamo di buttare la palla nel campo del governo. Ma la distinzione è logicamente insostenibile; e il governo la palla ce l’ha restituita e senza neppure affondare il colpo. Gli elettori non capiranno questi sofismi, coglieranno solo la nostra imbarazzata ambiguità.
Quella di non perdere a sinistra non è un’operazione a costo zero. Il voto di quelli che ancora non credono in noi, di quelli che sono in dubbio, noi lo dobbiamo ancora conquistare. Sono elettori che non hanno interesse a organizzarsi in partiti, non aspettiamoci che perdano tempo e denaro per manifestarci la loro contrarietà. Semplicemente troveranno conferma ai loro dubbi.
I riformisti hanno voluto la Federazione quando nessuno ci credeva, e quindi abbiamo votato tutti con disciplina di gruppo. Ma ci sono lezioni da ricordare per il futuro. Primo, che il vero obiettivo è il profilo riformista della Federazione, e che il metodo di formazione delle decisioni nella Federazione è strumentale ad esso. Secondo: che questo obiettivo non verrà mai raggiunto, se al momento buono ci si sparpaglia su iniziative frettolose e scoordinate come i documenti e gli emendamenti presentati ieri e confusamente affossati. Era la prima prova della Federazione dell’Ulivo: i riformisti non sono i soli che non dovrebbero considerare quella di ieri come una giornata luminosa.

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