Italia senza capitali? Quattro proposte per attirarli dall’estero

luglio 30, 1995


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


È noto quelli che mancano nel mondo non sono i capitali, ma le occasioni di buoni investimenti. È necessario pensare a una duplice azione: per attrarre maggior investimenti dall’estero, e per renderli rapidamente attivi. Quanto alla disponibilità a investire sull’Italia, sembra che essa sia superiore a quanto abbiamo fatto per meritarcela. stando almeno ai dati rilasciati dall’Ufficio Italiano dei Cambi, riferiti dalla Stampa del 27 luglio: un saldo del movimento di capitali positivo per 4.600 miliardi nei primi sei mesi del ’95 contro un dato negativo per 10 mila miliardi nello stesso periodo dello scorso anno, con investimenti esteri per 11.700 miliardi. Anche l’afflusso del prestito obbligazionario in yen, che ha contribuito al record della bilancia dei pagamenti, conferma la fiducia, se non nella nostra valuta, nella credibilità finanziaria del paese.

A dir la verità, noi più che cercare di attrarre imprese abbiamo preferito la strada degli aiuti comunitari. Il latente pregiudizio verso gli investimenti diretti esteri nel nostro paese emerge a ogni occasione: che si tratti di aziende o banche da privatizzare, o che si tema la ‘svendita’ a causa del cambio (quello stesso cui dobbiamo la nostra ripresa): fino al vescovo di Como Maggiolini che ha chiamato alla crociata contro l’infedele che mette i suoi capitali in Fininvest.
Ma neppure nell’usare i fondi comunitari siamo stati efficienti: il buon Masera ha dovuto correre un’altra volta a
Bruxelles per chiedere l’ennesima proroga per non perdere i 1.000 miliardi (per 4.000 l’Italia non ha neppure concorso) stanziati dalla Comunità a favore di 17 programmi regionali e multiregionali scaduti. Masera ce l’ha fatta, la proroga è stata ottenuta: cinque mesi ancora, ma è proprio l’ul-tima volta.
Che fare dunque per attirare imprese e non solo capitali? C’è una gradualità di proposte che si elencano, dalle meno alle più radicali.
Primo punto: predisporre un prontuario dei vantaggi che si offrono alle imprese, in particolare a quelle che si insediano nel Mezzogiorno. Se sta in un foglio A4, meglio: basta che dica cose concrete. Banale? Certo, solo che pare che non esista.
Secondo: se si pensa prioritariamente al Mezzogiorno, bisognerà individuare aree di sviluppo, quali sono state predisposte nei paesi ex comunisti europei o, se si vuole pensare in grande, in Cina. E qui sarà giocoforza parlare di costo del lavoro, scontrarsi con un tabù protetto dall’orrendo nome di ‘gabbie salariali’. Ma è indubbio che la realtà del paese sta drammaticamente evolvendo nel senso di aumentare il divario tra nord (in particolare il nord-est) e sud (in particolare le isole). Il costo della vita è diverso, diversi sono già i salari realmente pagati. A eliminare questa diversità è più funzionale attivare gli strumenti che ne rimuovano (alcune) cause o inalberare lo slogan del ‘pari salario a pari lavoro’? Se si interpretano correttamente alcuni segnali, i sindacati potrebbero non essere pregiudizialmente ostili, a patto ovviamente che il provvedimento faccia parte di un’iniziativa straordinaria concreta e credibile.
Terzo: si tratta di evitare che l’interesse di chi desidera investire non evapori al contatto con la realtà delle procedure burocratiche. Il governo ha predisposto le cosiddette ‘cabine di regia’, e un decreto che prevede incentivi automatici per chi investe nel sud: sia lecito avere qualche dubbio, la burocrazia non è facilmente bypassabile, è tutt’uno con le norme e le procedure che emette e da cui viene perpetuata, i sentieri preferenziali ben presto ritornano a riempirsi di liane. Si avanza una proposta più radicale: si attivi finalmente lo sportello unico, dando incarico a una grande banca d’investimento estera, di procedere direttamente a valutazioni, selezioni, pratiche burocratiche. È un sistema che ha funzionato altrove, nei paesi dell’Europa dell’est. E non si dica che in tal modo si perde la sovranità nazionale, o che si intendono mortificare competenze indubbie (quali quelle dell’Imi o del Mediocredito, che dovrebbero essere chiamate a collaborare): bisogna riconoscere che i capitali internazionali hanno i loro riferimenti, e che la fiducia si fonda anche sulle consuetudini. E poi si conta sullo scontro con chi ha mentalità, abitudini ed esperienze maturate in contesti diversi.
Quarto: indentificare condizioni fiscali diversificate. Ci si rende conto che è un problema delicatissimo, che in tal modo si creerebbero condizioni di non uguaglianza tra imprese e tra cittadini, ma è più serio discutere di questo che non di minacce di secessione o di rischi di insurrezioni.
Dobbiamo aumentare il rating di fiducia delle imprese estere verso il nostro paese e non solo quello dei capitali verso la nostra valuta. Gli investimenti diretti, in particolare quelli esteri, portano idee, competenze, modi di lavorare. Anche questo è capitale, forse quello di cui c’è maggiormente bisogno per colmare quella diversità di cui si diceva. Ad aumentare questo rating di fiducia, non bastano i pur indispensabili interventi sulla finanza pubblica, per i quali il governo Dini si è mosso, ci vogliono azioni specifiche. E su queste il giudizio non può essere altrettanto positivo.

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