Gli intagliatori del legno #2

Pensieri sparsi sulla fine dei libri (il pezzo è un’ideale continuazione di questo)

Esistono almeno due tipologie di libro ricattatorio: il primo tipo è quello dei libri scritti con toni sapienziali, vagamente lirici e che mirano a risvegliare il poetico in chi legge mentre, sotto, l’intento non dichiarato è quello di “insegnare a vivere”. Esiste almeno uno scrittore molto noto e molto amato che scrive in questo modo, ma se mi addentrassi a studiare approfonditamente il problema so bene che vi troverei un esercito. Il secondo tipo è meno grossolano, ma proprio per questo più subdolo: è il libro scritto dallo scrittore “buono”, quello moralmente impeccabile, che si occupa di storie edificanti – che magari c’entrano con l’emigrazione o con la criminalità – e che sa far piangere e, soprattutto, far riflettere. «Non puoi non leggermi» dicono queste due tipologie di libri. E nello specifico: «Se non mi leggi sei un mostro: non puoi, infatti, non avere un animo poetico, quella sensibilità che io so risvegliare con i miei aggettivi e quella voglia arcaica di stare ad ascoltare qualcuno più vecchio di te che di vita ne ha già fatta e te la vuole raccontare». E ancora: «Sei non mi leggi sei un mostro: non puoi, infatti, tu che possiedi un animo sensibile ai problemi della nostra società, non voler leggere questa storia tragica di emigrazione, l’epopea semplice di questa famiglia/ragazzo/bambina in fuga da un mondo che la opprime e la ucciderebbe; seguila insieme a me, amico, vediamo se ce la fa a realizzare il suo sogno di emancipazione, se riesce a riscattarsi nel lavoro onesto/a ricongiungersi con il resto dei suoi cari/a liberarsi dalle ombre di un passato violento».

Ho seguito in modo disattento il discorso della cosiddetta “palude” che è partito da Franco Cordelli sulla Lettura del Corriere della Sera. Non avendo comprato il giornale, poi, non ho visto la famigerata mappa. Ho visto però altre cose: la prima, del tutto evidente, è che Cordelli parla di qualcosa che non solo non conosce, ma che non vuole conoscere; c’è un disagio che traspare dalle sue righe, ed è il disagio di chi si inoltra a parlare di qualcosa che è altro rispetto a sé: il suo pezzo è pieno di autogiustificazioni a priori (qualcuno direbbe: «è un pezzo paraculo»), di «questo è un tentativo», «è così, ma potrebbe non esserlo», «Non posso che semplificare, ridurre, stravolgere». Insomma faccio una cosa ma potrei non farla, propongo questo ma forse è sbagliato: non esiste niente di più terribile e ignorante di un lavoro critico impostato su queste premesse. Coglie però nel segno, secondo me, emettendo alcuni giudizi e, soprattutto, parlando di tribù: è infatti dalle varie tribù che gli sono arrivate le risposte che, a seconda della provenienza tribale, erano ora carezze ora anatemi.

Ma in fondo tutto questo non è importante, anzi: è proprio sciocco. Ciò che conta è che da questo episodio sono emersi, mi pare, due atteggiamenti fondamentali: il primo, che era del tutto evidente da anni, è legato al fatto che la letteratura italiana, come la società di cui è espressione, si muove in clan. Tutto ciò che sta fuori o al di là o anche al di sopra di questi clan semplicemente non esiste; tutto ciò che, invece, appartiene a un clan opposto o lontano viene sistematicamente passato sotto silenzio, ovvero: a Milano può uscire un capolavoro, ma a Roma si continuerà a elogiare il libretto sfinito dello scrittore/scrittrice con cui ci si vede il venerdì. E viceversa. Il secondo, più grave e profondo, ha invece a che fare con lo statuto della critica letteraria: so che molti non saranno d’accordo, ma io la vera crisi, più che nel romanzo, la vedo lì. Posso fare alcuni nomi di scrittori contemporanei che secondo me rimarranno – o meglio, che dovrebbero rimanere: in Filippo Tuena, in Michele Mari, in Antonio Moresco, per esempio, io vedo dei possibili classici del futuro; non vedo però nella critica i Bachtin, i Bloom, i Debenedetti. E se li vedo, li scopro periferici.

Perché alla fine è tutto un problema di memoria e di permanenza: è la critica, è il lavoro delle biblioteche e delle università che, nella storia, ha perpetuato i libri che erano destinati a rimanere. Immagino che la prima edizione dell’Ulisse abbia venduto qualche decina di copie, così come non credo che fuori dalle librerie parigine ci fossero le code per I Guermantes. Eppure si trattava di libri enormi che dovevano rimanere e sono rimasti. C’era chi lavorava per loro: oggi un libro esce e si trova o ignorato («Non sei del mio clan!») o preso dentro un vortice di incapacità cognitiva e di impossibilità di perpetuarne la memoria. Il mercato è cambiato (ma si legge molto molto di più che un secolo fa, e non è detto che si legga davvero peggio), gli interessi sono altrove: è tutto vero. Eppure perché non ho visto e non vedo un lavoro di pensiero sui grandi libri del mio tempo? Perché fatico a trovarlo? A suo modo, come la letteratura anche la critica è e deve essere soprattutto una produttrice di pensiero: quello che vedo, invece, sono mappe, «tentativi», recensioni, libretti classificatori, raccolte di elzeviri; raramente trovo una struttura, un discorso su cui si regga un pensiero critico: se lo trovo, come pure mi è capitato recentemente, mi accorgo che non è dominante e che la storia del (non)pensiero critico di questi anni è fatta di scritti d’occasione, liste della spesa e prese di posizione entro l’alveo materno del proprio clan.

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