Il dolore del paratesto

Non una recensione su La gemella H di Giorgio Falco – che pure sto leggendo e che, benché la cinquantina di pagine che ho consumato finora non mi autorizzi a dare un giudizio, è sicuramente il libro di un autore potente e con una grande voce –, ma due piccole riflessioni sui suoi paratesti, il primo editoriale il secondo d’autore.

È probabilmente la quarta di copertina più incredibilmente stupida che abbia mai posseduto: criptica, enfatica senza dire nulla, parla di corti circuiti che fanno esplodere il presente, del cuore segreto dei totalitarismi e di altre sciocchezze. Soprattutto, a Stile Libero hanno avuto il coraggio e la faccia di paragonare La gemella H (su cui, ripeto, nutro buone aspettative) ai Buddenbrook di Thomas Mann, facendo capire che questo libro ne sarebbe un’ideale continuazione. Solo che, nel caos sonoro e di senso che l’estensore della quarta ha creato, è partito un refuso osceno, in grado quasi di farmi lasciare il romanzo sullo scaffale della libreria: vi si dice I Buddenbrock. In quarta, ossia nel manifesto dell’opera, dove si parla di cuori segreti, di presenti che esplodono e di «un’opera che restituisce alla letteratura il suo ruolo di svelamento di un’intera epoca».

Il libro termina con una Nota dell’Autore – pratica che in generale non amo: i libri non si spiegano, si capiscono; non mi ricordo un capolavoro della letteratura il cui autore, alla fine, abbia sentito il bisogno di chiosare alcuni passi del suo libro, ma so che oggi le cose sono cambiate: io stesso ho messo dediche e ringraziamenti nei libri che ho fatto come se uno, girando un quadro, vi leggesse scritta di pugno dal pittore la gratitudine per il negozio dove ha comprato i colori.

Giorgio Falco scrive in questa sua Nota alcuni concetti che non leggo per la prima volta, ma che per la prima volta mi danno da pensare. Scrive: «L’autostrada A95, Monaco–Garmisch-Partenkirchen non è stata costruita durante il Terzo Reich ma, per ragioni narrative, l’ho inserita nell’infanzia delle gemelle Hinner. Per lo stesso motivo ho anticipato al 1936 la commercializzazione del Maggiolino Volkswagen». [Corsivi miei]

Qual è il limite oltre il quale un romanzo storico non può andare? È giusto modificare la realtà e la Storia per ragioni narrative? È morale fare ciò, in un racconto che fin dalle prime righe si pone esso stesso come morale? Perché le ragioni narrative sono più forti dell’attinenza ai fatti? Perché esse possono prendere, stravolgere, manipolare la realtà e la Storia? Da dove deriva questa supposta onnipotenza? Non sono forse la realtà e la Storia così potenti e terribili e vere da piegare a sé qualunque ragione narrativa? Ancora: perché si sceglie di fare un romanzo storico se poi, anche in minima parte, bisogna piegare alle proprie esigenze addirittura delle date, spostando avvenimenti e creando del falso laddove ci dovrebbe essere del vero? Un romanzo storico nasce dall’equilibrio tra realtà storica e finzione: ma se anche la realtà viene modificata e resa fictional siamo ancora dentro un romanzo storico? Che cosa c’è di vero e dimostrabile nella Gemella H? Che cosa sarebbe successo se Falco, anziché modificare le date dell’A95 e del Maggiolino, avesse trovato altri stratagemmi per la sua storia lasciando in pace la verità storica? Il libro ne sarebbe uscito monco? Perché si sceglie un’epoca se poi bisogna modificarla per poterla raccontare?

2 pensieri riguardo “Il dolore del paratesto

  1. Secondo me non è la stessa cosa: lì Dick fa di quella distopia un punto di partenza. Dice: “faccio un romanzo di fantascienza in cui ipotizzo che…”. Qui (e altrove), invece, si dice: “questo è un romanzo storico, ma alcuni avvenimenti sono modificati per farli rientrare nella finzione”.

  2. Molto interessante la seconda parte dell’articolo. La butto lì: sarebbe la stessa cosa se Dick, alla fine della Svastica sul sole (The man in the high castle), avesse scritto: “Il terzo reich non ha realmente vinto la seconda guerra mondiale, ma per ragioni narrative ipotizzo che… ecc”?

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