Un’etica immorale?

C’è un retrogusto liberale che mi disturba – anche se non saprei dire bene perché e in quale misura – mentre leggo Un’etica senza Dio di Eugenio Lecaldano. Si tratta di un pamphlet chiaro e scorrevole che cerca di contrastare la diffusa credenza che un’esistenza autenticamente morale sia possibile soltanto a patto di credere in Dio e, allo stesso tempo, prova a edificare un’etica che escluda la presenza dei precetti divini dalla condotta di ciascuno. Per fare questo, in quella che lo stesso autore definisce la pars construens del suo libello, Lecaldano chiama in causa Hume, Kant, Stuart Mill, addirittura Adam Smith, e arriva in sostanza a dire che: «Solo quando un individuo assume su di sé la responsabilità di ciò che ha fatto, avanzando le sue ragioni, testimonia il suo accesso nella sfera morale. È proprio sotto questo profilo che appare netta la divaricazione tra prospettiva morale e prospettiva religiosa: la stessa possibilità di essere un soggetto moralmente responsabile richiede dal nostro punto di vista un atto di auto-affermazione, di consapevolezza, di autonomia e libertà individuali, laddove la prospettiva religiosa è spesso incline a condannare tale condizione come un peccato di orgoglio, una sorta di peccato originale». È forse proprio questa affermazione prepotente dell’io vista di pari passo con l’assunzione di responsabilità – la responsabilità, quella sì, mi sembra un concetto etico fondamentale – che mi tiene lontano: in definitiva, da profano quale sono, leggo nelle parole di Lecaldano niente di più che un’affermazione dell’individualismo.

Meno respingenti mi sembrano le motivazioni della pars destruens, soprattutto in passi come questo: «Derivare l’etica da Dio significa concepirla come un insieme di comandi emanati, appunto, da un’autorità, e ciò – in un certo senso – equivale a togliere valore etico alle norme morali. Questa norma è etica proprio perché il suo valore è indipendente dal comando di questa o quella autorità, di questo o quel paese (…) spostare l’attenzione al volere di Dio impedisce di prestare attenzione a quello che gli altri patiscono e subiscono, induce un’atrofia morale pericolosa e ostacola lo sviluppo di un’effettiva sensibilità etica». E questo: «La credenza nella vita futura, lungi dal rappresentare una marcia in più per il credente, è piuttosto ciò che lo allontana irreparabilmente dalla vita morale. All’interno di una prospettiva dominata dall’attesa di una vita futura e dalla presenza di un Dio che fa valere una giustizia retributiva, infatti, gli esseri umani saranno guidati prevalentemente dalla paura delle sanzioni e dalla ricerca dei premi e nelle loro vite non potrà dischiudersi l’orizzonte dell’azione morale».

E tuttavia pure in questa parte, che smonta pezzo a pezzo l’edificazione di una morale su base religiosa, c’è un momento che mi dà da pensare – quello che informa tutto il sesto capitolo: «Credere che l’universo in cui abitiamo è creato da Dio, che lo guida provvidenzialmente, porta a considerare come inestricabile il problema concernente l’origine del male. (…) Chi è, perciò, convinto della necessità di legare Dio all’etica finisce con il dover accettare queste assurdità barcamenandosi tra l’idea di Dio malvagio e ingiusto e quella di Dio impotente solo perché spettatore e non anche creatore del mondo. Proprio in questo senso si è mossa una parte della teologia del XX secolo, elaborando delle concezioni di Dio depotenziato». Lecaldano, mi pare, si dimentica del libero arbitrio – che non viene nominato nemmeno una volta nel corso di tutto il suo trattato. Sono convinto che non sia possibile parlare di etica senza passare per questo concetto fondamentale, anzi: credo che la sua rimozione sia una colpa consapevolmente perseguita. La rappresentazione dei credenti che fa Lecaldano è quella di una popolazione di pupazzi che, per paura o superstizione, fa ciò che il loro Dio ordina nella prospettiva di una ricompensa ultraterrena: questo è, a ragione, un comportamento spregevole, una pastoia etica e intellettuale. Tuttavia, non c’è soltanto questo, nel pensiero teologico: c’è, appunto, il libero arbitrio, e non prenderlo in considerazione significa non voler guardare metà del problema affinché le proprie teorie non incontrino ostacoli di sorta. Questo è, in una parola, immorale.

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