Un continuatore di parabole

Su Lazzaro e su altri racconti di Leonid Andreev

Ne Gli archetipi dell’inconscio collettivo Jung descrive l’esperienza di una visione avuta da un mistico eremita svizzero canonizzato dal Vaticano, frate Niklaus von der Flüe: pare che, mentre era rinchiuso nella propria cella a meditare, egli ebbe la visione della Trinità – visione talmente sconvolgente che l’eremita la dipinse sulle pareti della propria cella per non dimenticarsela più. Jung racconta che la visione del Summum Bonum non fu, per frate Niklaus, una visione piacevole: pare infatti che ciò che egli vide fu talmente orrendo da segnare il mistico svizzero mutandogli il volto. Dopo che ebbe visto (o credette di vedere) la Trinità, frate Niklaus ebbe sul volto dei segni talmente spaventosi che la gente – dice Jung – aveva paura a guardarlo. Ecco come lo descrive Wölflin: «Tutti quelli che lo avvicinavano erano al primo sguardo pieni di grande spavento, sulla causa del quale era solito dire egli stesso che aveva visto una luce penetrante che raffigurava un volto umano. A quella vista aveva temuto che il suo cuore andasse in frantumi; perciò, stordito dallo spavento, aveva subito distolto la faccia, era caduto a terra, e questo era il motivo per cui il suo volto terrorizzava la gente». Jung prosegue spiegando che tale visione è stata associata all’immagine che viene data di Cristo nell’Apocalisse (I.13 e sgg.).
Nel 1907 l’ormai dimenticato scrittore russo Leonid Andreev compone una delle sue novelle più famose e sconvolgenti e la dedica a Lazzaro, il resuscitato delle Scritture. Andreev è un grandissimo, un misconosciuto fondamento del Novecento, ed è stato colpevolmente dimenticato da critica e pubblico. I suoi figli sono ovunque, dalla grande stagione del romanzo tedesco degli anni Venti all’esistenzialismo francese (il racconto di Sartre Il muro assomiglia pericolosamente ad alcune scene de I sette impiccati, ad esempio), anche se oggi come oggi, almeno in Italia, le sue opere sono pressoché introvabili (le si recuperano solamente in qualche circuito remainders, ma anche lì bisogna essere fortunati). A cavallo del 1900, invece, Andreev era non solo uno dei più noti e fortunati autori della Russia prerivoluzionaria, ma era considerato un maestro anche fuori dai patri confini.
Lazzaro comincia così: «Quando Lazzaro uscì dalla tomba dove aveva passato tre giorni e tre notti nella misteriosa stretta della morte e tornò vivo alla propria casa, nessuno, a tutta prima, notò strani, sinistri particolari che in seguito resero infausto persino il suo nome». Lazzaro, il resuscitato, torna in vita e viene festeggiato dagli amici, dai parenti e dai membri della comunità. Tutti gli portano cibo, bevande, gli regalano vesti e persino sconosciuti lo vengono a trovare per sederglisi accanto. Ma «Sulle tempie di Lazzaro, nelle occhiaie e nell’incavo delle guance stagnava un denso colore livido, terreo; dello stesso terreo lividore erano le lunghe dita delle mani, e intorno alla unghie, cresciute nella tomba, sfumava un orlo ancora più scuro, di un rosso violaceo. In alcuni punti, sulle labbra e sul corpo, la pelle tumefatta era screpolata, venata di sottili incrinature rossicce, che parevano ricoperte di mica traslucida. Il corpo era divenuto flaccido; enfiatosi nella tomba, aveva conservato in proporzioni mostruose quei ripugnanti rigonfi sotto cui s’indovina il marcescente umore della decomposizione». Lazzaro è diventato cupo, taciturno, e partecipa alle feste in suo onore senza aprire bocca. Finché un giorno, durante un banchetto, qualcuno gli pone la domanda che nessuno finora aveva pensato di poter porre: «Perché non ci racconti che cosa c’era, di là, Lazzaro?». La musica si ferma, tutti tacciono e anche Lazzaro non apre bocca; tutti però cominciano ad accorgersi del suo aspetto, dell’odore del suo corpo e, soprattutto, dei suoi occhi, il cui sguardo è «indifferente a tutto ciò che [è] vivo».
A poco a poco, tutti cominciano ad evitarlo, anche le sorelle lo abbandonano, qualcuno propone di mettergli al collo un campanellino come ai lebbrosi, per essere avvisati quando è nelle vicinanze. Solo i bambini non hanno paura di lui, e gli portano il cibo. Tutti coloro che incontrano il suo sguardo, mutano. «Ecco un altro pazzo che è stato fissato da Lazzaro» dice la gente di Gerusalemme. Attraverso gli occhi di Lazzaro, suggerisce Andreev, gli uomini contemplano il «grande vuoto dell’universo» e il principio di ogni cosa «che era ormai vicino alla fine»: così, ad esempio, i muratori che stanno costruendo una casa, guardando Lazzaro, cominciano a vedere le rovine che ne verranno e il vuoto che le inghiottirà, e smettono di costruire. Lo sguardo di Lazzaro spegne i volti, rende indifferenti e come morti in vita.
Da Roma giunge Aurelio, uno scultore in cerca di qualcosa di immortale da scolpire. Egli incontra Lazzaro con la segreta speranza di restituire alla sua anima, tramite la bellezza, quel soffio di vita che Cristo ha restituito al corpo. Egli passa una notte con Lazzaro e poi torna a Roma, dove crea un’opera mostruosa, informe, scavata; all’interno di uno degli incavi è raffigurata una farfalla meravigliosa, di cui lo scultore non sa rendere conto. Un amico di Aurelio distrugge la scultura: da quel momento lo scultore, dice Andreev, non produrrà più nulla, ma rimarrà fermo a contemplare il marmo intatto. Lazzaro, ormai divenuto celebre su entrambe le sponde del Mediterraneo, viene chiamato a Roma dall’imperatore Augusto. Qui incontra alcune persone e ne «spegne» le vite: dall’incontro con un saggio, Andreev ricava queste parole: «(…) il saggio intuì che la nozione dell’orrore non è ancora l’orrore, e la visione della morte non è ancora la morte. E comprese che saggezza e stupidità sono eguali al cospetto dell’infinito, giacché l’infinito le ignora. E così scomparve l’abisso tra sapienza e ignoranza, fra verità e menzogna, fra basso e alto (…)». Il momento culminante del racconto è l’incontro con Augusto. Dapprima l’imperatore vieta a Lazzaro di guardarlo negli occhi, e lo minaccia di metterlo a morte in quanto il suo è il regno dei vivi e dunque in esso chi è resuscitato è superfluo. Poi, finalmente, i due si guardano. Per un istante, Andreev ferma la storia: in quello sguardo, dice, c’è il crollo di Roma, la fine dell’impero e tutto il mondo di Augusto è inghiottito dal nero vuoto degli occhi di Lazzaro. Ma Augusto ha una reazione, viene richiamato in vita dai suoi doveri di uomo e di reggente, pensa al proprio sangue che pulsa nei vasi sanguigni e decide di far bruciare gli occhi al vecchio, sigillando all’interno del cranio tutta la conoscenza nera che Lazzaro ha portato dalla tomba al mondo dei vivi. Così si chiude il racconto, con l’accecamento. Di Lazzaro si dice poi che vagò per anni da solo nel deserto e che all’improvviso scomparve e non ci fu più.
Il disegno, dice Jung, che frate Niklaus fece sulle pareti della propria cella era sostanzialmente un mandala diviso in sei parti con al centro una figura che rappresentava il volto di Dio; Lazzaro, invece, «detta» allo scultore qualcosa che, in qualche modo, anticipa nella sua assenza di forma alcune figure che diventeranno patrimonio dell’iconografia delle avanguardie, dell’astrattismo – come già era successo a un altro artista a contatto con l’infinito, il vecchio pittore de Il capolavoro sconosciuto di Balzac (anch’egli, per inciso, un «vegliardo con gli occhi bianchi»). C’è però, nella scultura di Andreev, l’immagine netta e bellissima di una farfalla, che credo possa essere presa come l’equivalente del volto di cui parla Jung – e che è l’immagine di Dio.
In Lazzaro risuonano i miti: il suo sguardo è quello della Medusa, la sua fine è quella di Edipo. Per qualche verso, nell’incontro tra Lazzaro e Augusto riecheggiano anche alcune delle tematiche del Grande Inquisitore, mi pare: il silenzio di uno degli interlocutori, la ragion di Stato dell’altro; lo scontro tra due diverse gradazioni di potere; la possibilità dell’Inquisitore/imperatore di disporre a proprio piacimento della vita dell’altro; il confronto tra il sapere secolare e la verità data dalla visione dell’infinito; la violenza a cui si contrappone un’assoluta consapevolezza di un mondo «altro». È molto possibile che Andreev si sia ispirato a Dostoevskij, anche se non ne ho le prove.
Ma al di là delle possibili simbologie, delle corrispondenze e dei rimandi, e al di là delle interpretazioni, la visione di Andreev mi pare centrale perché pone l’uomo, l’uomo comune, all’interno di un vortice e di una sofferenza totali causatigli dal contatto con il mistero, con il miracolo e con l’autorità. In Giuda Iscariota, altro capolavoro del nostro, viene messo in scena un uomo, Giuda, che agisce per eccesso d’amore nei confronti di Cristo: Giuda tradisce Cristo perché si sente da lui respinto (nella tradizione russa Cristo è sempre bellissimo e, per troppa bellezza, lontano dagli uomini – il dostoevskijano principe Myškin è modellato proprio su questa credenza ortodossa). Giuda lo fa uccidere e poi si uccide per dimostrargli la propria fedeltà: è infatti l’unico, dice Andreev, ad amarlo così tanto da seguirlo immediatamente nella morte. Ne I cristiani, la protagonista è una puttana che si rifiuta, davanti a un tribunale, di giurare su un dio in cui non crede perché non lo conosce: Andreev suggerisce implicitamente che l’unica vera e autentica cristiana in mezzo ai dotti del tribunale è proprio lei, nella sua ottusità, umiltà e prostrazione. La puttana è infatti, tra quelle rappresentate, l’anima più vicina a Dio.
Come si fa a mettere l’uomo davanti al miracolo, al mistero e all’autorità? La risposta di Andreev è apparentemente semplice: negli esempi segnalati, i personaggi sono semplicemente dei continuatori di parabole bibliche (Lazzaro) o degli exempla (la puttana) o dei punti di vista interni (Giuda, le cui gesta nelle Scritture sono sempre raccontate da un punto di vista terzo). Andreev non riscrive le Scritture, le continua, prova a mettere in scena quello che avrebbe potuto essere e probabilmente è stato. Di Lazzaro noi sappiamo che morì e che fu resuscitato, ma non sappiamo che cosa gli accadde a partire dal quarto giorno; di Giuda sappiamo che tradì e come, ma il perché intimo e in qualche modo amoroso di questa scelta non ci viene dato; nella puttana de I cristiani riecheggiano invece tutte le donne maltrattate e vessate delle Scritture.
Con questi procedimenti e con la sua capacità di accedere al lato più profondo e oscuro degli uomini, Andreev finisce sempre per ribaltare le verità del cristianesimo senza contestarle. Nessuno scrittore prima di lui si era mai posto il problema del dopo: Andreev invece prende le parabole come storie e prova a mettergli un finale o a rileggerle da un altro punto di vista. Immediatamente, le parabole si sgonfiano, perdono il loro senso e la loro potenza rivelatrice per mettere in scena, invece, dei corpi devastati, diversi, profondamente umani e incompresi. Ne vengono narrazioni insieme poetiche e tese, che rivelano un’umanità tutta terrena a contatto con un trascendente che la disfa, e la rende inavvicinabile dagli altri uomini.

2 pensieri riguardo “Un continuatore di parabole

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