Su Mo Yan, a ruota libera

Leggo Mo Yan e «sento» Tolstoj. Non che ci sia un filo rosso che dal secondo porta al primo: si tratta di due scrittori profondamente diversi. Il secondo, per esempio, non si abbandonerebbe mai all’elemento fantastico e surreale che invece accompagna i libri del primo; allo stesso tempo, anche quando è crudo, il realismo di Tolstoj non ha mai l’asprezza di quello di Mo Yan. E così via: si potrebbe scrivere per pagine su ciò che non li accomuna. Eppure leggo uno e sento l’altro. Sarà per via del fatto che, per me, la letteratura è essenzialmente una questione di voce: le domande che mi assillano quando leggo o quando scrivo sono «Da dove viene la voce che sta parlando? Verso dove si dirige? Chi la raccoglie?» – il perché questa voce parli e venga raccolta, invece, è un problema che arriva dopo, dal momento non sempre e non per forza ci deve essere un perché di tutte le cose. La voce in Tolstoj è quasi sempre la voce di Tolstoj. Non credo di aver mai trovato, nella mia vita, uno scrittore con la mano più ferma e la voce più certa. La grandezza di Tolstoj sta tutta nel polso con cui tiene la pagina, nella forza che si sprigiona da ogni singolo vocabolo: alla fine della Morte di Ivan Ilič, uno legge che «Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’è? Ma che morte? Non c’era più paura perché non c’era più morte» e gli sembra che non ci sia altro da sapere sugli ultimi istanti di un uomo. Allo stesso modo, nel famosissimo attacco di Anna Karenina stanno racchiusi molti romanzi, così come nel mal di denti finale di Vronskij, che dice più di pagine e pagine di dialoghi fitti e di introspezione. Ecco, in Mo Yan io vedo questa forza, questo polso fermo. Non so come spiegare altrimenti.
Le atrocità del Supplizio del legno di sandalo sono raccontate con un iperrealismo e una minuzia ai limiti del tollerabile (tanto da costringere lo stesso Mo Yan a una nota finale di chiarimento), ma nel romanzo non si fa mai pornografia della tortura e del dolore: Mo Yan mostra le sevizie e la sofferenza ma non ne gode, non le estetizza. La sua penna è contadina, dice quel che c’è da dire senza girarvi troppo attorno: il sangue «cola» e non «sgorga», per così dire, la merda è merda. Non c’è pornografia.
Leggendo lo splendido Le sei reincarnazioni di Ximen Nao ho provato dopo molto tempo la voglia di trovarmi davanti a un libro che non finisse mai, in cui potermi immergere per sempre. Ho sperato che le reincarnazioni fossero ben più di sei (oltretutto, se ne raccontano per esteso soltanto quattro), e dire che si tratta di un libro di oltre 700 pagine. Mo Yan rilegge la storia della Cina della seconda metà del Novecento attraverso l’occhio estraniato – ma non troppo – di un asino, di un toro, di un maiale, di un cane e, in parte, di una scimmia. Gli animali, reincarnazione del vecchio proprietario terriero Ximen Nao, ritornano nei suoi luoghi e vivono la loro vita di bestie mentre fuori ci sono la Rivoluzione Culturale, il Grande balzo in avanti, la morte di Mao, il capitalismo di Stato e così via. Ognuno di loro conserva il ricordo delle sue vite passate, tra cui spicca, naturalmente, quella di uomo. Così, l’asino Ximen è il fedele servitore di Lan Lian, un tempo dipendente di Ximen Nao. Il maiale Zhu Sedicesimo vive nel porcile di Ximen Jinlong – figlio, votato alla Causa, di Ximen Nao. E così via: ogni animale è ora di proprietà di un figlio, un nipote, un’ex concubina, un servitore di Ximen Nao, e a voler fare il gioco degli intrecci di parentele e amicizie tra uomini e bestie ci si passerebbe la giornata. Naturalmente, il solo a essere consapevole di tutto questo è Ximen Nao reincarnato. Il libro è raccontato da due diversi narratori, che si dividono le reincarnazioni e che solo a tratti intervengono l’uno nel racconto dell’altro: Lan Qiansui, ultima incarnazione di Ximen Nao, nato il primo giorno del nuovo millennio, che all’età di cinque anni decide di rievocare le sue vite passate; Lan Jiefang, figlio di Lan Lian, come il padre segnato da una metà della faccia di colore blu. Questi narratori, con una voce molto simile, restituiscono la storia della Cina attraverso l’occhio straniato degli animali e di chi, per via di una deformazione fisica, è sempre stato un soggetto “particolare” nel villaggio dello Shandong dove è ambientata la storia.
Nel Supplizio di legno di sandalo, la storia era anticipata, almeno parzialmente, dai versi dell’Opera dei gatti: una cantata popolare tramandata di cantore in cantore, in cui eccelleva Sun Bing, il protagonista (suo malgrado) del libro. Quello che gli uomini non riescono a dire, nel Supplizio, lo dice l’Opera dei gatti, che è sì fatta dagli uomini, ma questi si fingono gatti e possono dire ciò che vogliono. Le pagine dedicate all’Opera, nel libro, sono di una bellezza irraggiungibile. Molti scrittori che conosco, anche bravissimi, si bloccano davanti a una bellezza irraggiungibile: conosco per esempio un grande scrittore che ama Faulkner alla follia, ma che non lo può leggere mentre compone i suoi libri. Il complesso di inferiorità che la lettura di Luce d’agosto o Mentre morivo gli provoca lo blocca e gli fa sembrare inutile ogni sforzo. A me succede l’esatto contrario: benché sappia che è irraggiungibile, solo una bellezza assoluta mi spinge e mi sprona. Quando leggo libri mediocri provo una rabbia tale che mi si blocca la mano. Ogni volta che leggo un libro grandioso, invece, mi innamoro di nuovo della letteratura e degli uomini che la fanno, e provo il desiderio inestinguibile di far parte della loro schiera. Perciò, leggere Mo Yan e dare istintivamente un’accelerata al lavoro preparatorio per il libro nuovo sono stati una sola cosa.
In un mondo dove ci fosse giustizia nel mondo delle lettere, e dove i lettori fossero in grado di vedere al di là del proprio naso, nessuno parlerebbe della metà degli americani che normalmente vengono adorati, e ci si scambierebbe sottobanco nelle scuole le Sei reincarnazioni.
Le Sei reincarnazioni riesce a essere nello stesso momento un romanzo storico e surreale, tragico e profondamente comico: il Re Yama che beffa continuamente Ximen Nao, facendogli credere ogni volta di restituirgli sembianze umane salvo poi gettarlo in un porcile o una cuccia, è un Mefistofele spietato e burlone, molto vicino agli dei greci che continuamente gabbano gli eroi, ma con un’anima popolaresca, quasi da osteria. La storia della Cina scorre in filigrana tra le imprese degli animali e degli uomini che se ne prendono cura, e Mo Yan rende perfettamente verosimili personaggi i cui capelli, se tagliati, perdono sangue che ha proprietà lenitive, o animali che si comportano come uomini e provano pietà per le vicende umane, o eunuchi castratori, o demoni che, stufi delle lamentele dei morti, ne hanno quasi timore.
Nel suo delirio, Vaslav Nižinskij scrisse a un certo punto che voleva che il manoscritto del suo diario fosse fotografato perché sentiva che fosse vivo: «vivo» è il primo aggettivo che mi viene in mente quando penso alla mano con cui il fabbro Tolstoj forgiò le sue storie e le monumentali figure dei suoi personaggi; «viva» è ogni frase che compone i capolavori del più grande scrittore vivente, il cinese Mo Yan.

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