Il sopravvento

Letterarietà, documentazione e (auto)fiction

HHhH di Laurent Binet comincia così:

«Gabčik – così si chiama – è un personaggio che è realmente esistito. Ha forse sentito, fuori, dietro alle imposte di un appartamento immerso nell’oscurità, solo, sdraiato su un lettuccio di ferro, ha forse ascoltato lo stridio così inconfondibile dei tram di Praga? Mi piace pensarlo. Conoscendo bene Praga, posso immaginare il numero del tram (ma forse è cambiato) […].» 

Ho messo in corsivo alcune parole ed espressioni, perché di quelle vorrei parlare. Il libro di Binet, uscito in Francia nel 2010, vincitore del Goncourt opera prima nello stesso anno e tradotto da Einaudi nell’aprile di quest’anno, è un oggetto particolare: scritto da un quarantenne con la passione per la storia e trascorsi in Repubblica Ceca, è, documenti alla mano, la ricostruzione di un episodio storico cruciale della Seconda guerra mondiale: l’attentato – per quanto goffo, riuscito – che due paracadutisti, uno ceco e l’altro slovacco, fecero a Reynard Heydrich, in una via periferica della capitale boema. Heydrich, soprannominato «la bestia bionda», era il numero 2 di Himmler, e fu uno dei principali artefici della Soluzione finale. HHhH (acronimo che sta per Himmlers Hirn heißt Heydrich, ossia «il cervello di Himmler si chiama Heydrich» – che è una delle molteplici definizioni che le SS davano della bestia bionda quando questi era in vita), è una narrazione – mantengo per il momento un termine volutamente generico – che si nutre di varie ossessioni: la biografia del gerarca, gli eventi storici a ridosso della giornata del maggio del 1942 in cui si consumò l’attentato ma, soprattutto, la volontà di Binet di non scrivere un romanzo.

È questa, credo, la particolarità che rende HHhH un’opera diversa da ogni suo possibile omologo: è infatti una biografia storica, ma lo è fino a un certo punto, perché non rispetta un ordine cronologico preciso e non fornisce dati bibliografici tali da poterci impostare una ricerca; è un «romanzo biografico», salvo che, del romanzo, non ha l’impostazione: manca quasi del tutto di dialoghi, di scene d’ambiente, di pensieri dei personaggi e così via. È insomma un ibrido, e in questo non ci sarebbe nulla di particolarmente originale se non per un punto: Binet ragiona di continuo su questo suo fluttuare tra i generi e sulla volontà di tenersi lontano dagli stilemi del romanzo. In qualche modo, cioè, mantiene costante, durante la narrazione, un momento di riflessione metatestuale che lo porta a ragionare non solo sulla lingua, ma anche sui possibili «livelli di verità» che informano via via il suo testo.

La deviazione e il patto
Prendiamo l’attacco come l’ho riportato poco sopra: la prima informazione che ci viene data è che Gabčik , uno dei due attentatori, è un personaggio reale, storico. Egli è veramente esistito e ha veramente attentato alla vita di Heydrich. Immediatamente dopo, però, la penna di Binet “scivola” e prova a definire un suo stato d’animo: in meno di tre righe, il registro di HHhH passa da un tono da biografia per così dire scientifica a un modo romanzesco; salvo che, nello stesso istante in cui la penna gli scivola, Binet inserisce un paio di espressioni che non consentono al testo di sfociare appieno nel romanzesco: forse e Mi piace pensarlo. Binet è perfettamente consapevole che Gabčik  ha avuto dei sentimenti e, benché l’obiettivo che si è prefisso – il racconto storico-biografico – non glielo consentirebbe, si lascia andare e ce li descrive. La descrizione, però, non è innocente: Binet è consapevole che, lasciando da parte fonti e documenti ed entrando anche per un solo istante nella testa del suo personaggio, il testo sta deviando dalla norma, per cui si premura di dirci subito che forse Gabčik  ha pensato una cosa e che, in ogni caso, all’autore piace pensare che sia così.

HHhH è costruito su un patto di lettura che ci viene continuamente ribadito dall’autore e che è riassunto nella chiusa del capitolo introduttivo:

«Ma se metto per iscritto quell’immagine, come sto surrettiziamente facendo, non sono certo di rendergli omaggio. Riduco quell’uomo a un volgare personaggio, e i suoi atti a letteratura: infamante alchimia, ma che farci? […] Spero solo che sotto la stessa patina d’idealizzazione che stenderò su questa storia leggendaria sia ancora possibile guardare attraverso il vetro trasparente della realtà storica». (corsivo mio)

L’autore si scusa perché sente che non sarà in grado di tenere del tutto fuori dalla porta la letteratura, la trasfigurazione, la finzione romanzesca. Non ho contato, all’interno del testo, quanti sono i momenti in cui Binet ripete di non voler fare un romanzo, ma solo mettersi al servizio della realtà storica.
Nel capitolo 39, l’impianto apparentemente rigido che Binet si è dato mostra un segno di cedimento: compaiono, in una scena dove vengono dati più particolari di quanti normalmente ne dà un documento, tre battute di dialogo – prese però di peso dalle carte. Nel capitolo successivo, Binet racconta la visita di un suo amico, che sta leggendo il manoscritto man mano che l’autore lo porta avanti: Fabrice, questo il nome dell’amico, si complimenta con Binet per «aver inventato» delle scene così efficaci da sembrare vere. Il messaggio di Fabrice è: «Lo so che è tutto basato sui documenti, ma è l’efficacia della resa letteraria a rendere vivo ciò che si legge». Avvilito, Binet scrive che avrebbe «dovuto essere più chiaro riguardo al patto di lettura».

A poco a poco, quella che era partita come una diffidenza nei confronti della forma-romanzo, diventa, per Binet, una sorta di demone da combattere:

«Non so ancora se «visualizzerò» (cioè inventerò!) o meno quell’incontro. Se lo farò, sarà la prova definitiva che, decisamente, l’opera di immaginazione non rispetta proprio niente.»

…scrive infatti chiudendo il capitolo 92: se si vuole dire il vero, non bisogna raccontarlo con gli stilemi della fiction, ma con il rigore dello storico. Eppure – e qui sta gran parte dell’impasse e della bellezza di HHhH –, alcune pagine più tardi, la bellissima fidanzata Natacha rilegge il finale del capitolo 106 e rimprovera Laurent di essersi inventato una scena in cui a Himmler «sale il sangue alle guance». Dopo essersi lamentato per «il carattere ridicolo e puerile della finzione romanzesca», Binet prova a tornare sui suoi passi e correggere la descrizione di Himmler e non ci riesce. Dopo vari tentativi, non gli resta che lasciare la frase per come l’ha scritta la prima volta. Sappiamo così di Himmler che «il sangue gli sale alle guance, e sente il cervello gonfiarsi nella scatola cranica» e che, in un certo senso, il romanzesco ha vinto.

La storia di chi scrive la storia
Allo stesso tempo, mentre leggiamo la parabola di Heydrich, del governo ceco in esilio a Londra, dell’organizzazione dell’attentato e così via, veniamo costantemente informati, oltre che sul livello metaletterario su cui Binet ha impostato il lavoro, sulla vita dell’autore: di Binet, infatti, scopriamo a poco a poco il percorso di studi, la piccola carriera militare, i nomi degli amici, il luogo dove va in vacanza, i nomi (e le fattezze) di almeno due fidanzate, il rapporto con il padre, la fatica che gli ha richiesto la preparazione di HHhH. In sostanza, il libro è anche la storia di chi scrive la storia, ossia uno splendido esercizio di autofiction nascosta. Vediamo Heydrich, i suoi attentatori, Himmler, la città di Praga che fa da sfondo alla storia e, allo stesso tempo, vediamo Binet che studia e commenta i testi che ha sottomano, sappiamo di lui qualcosa che non è necessariamente in relazione con la vicenda di cui scrive, conosciamo di passaggio alcune persone che fanno parte della sua cerchia. Tutto ciò dà corpo a una sorta di cortocircuito che non mi era ancora capitato di vedere: alcuni giorni prima di leggere HHhH, ho letto per la prima volta Operazione massacro di Rodolfo Walsh. Si tratta di un’operazione del tutto diversa da quella di Binet, benché anche qui si tratti di ricostruire dei fatti realmente accaduti basandosi sulla documentazione. Le differenze tra i due libri sono enormi, non fosse altro che perché Walsh, per scrivere il suo reportage ha rischiato personalmente la vita e in seguito l’ha persa a causa di questa e altre inchieste; è, inoltre, Operazione massacro, un’incursione in un mondo – quello della dittatura argentina – fatta da un argentino che quella dittatura non solo l’ha vissuta, ma la sta vivendo nel momento in cui scrive. Proprio per questo – e forse influenzato dalla lettura in sequenza delle due opere – mi sono chiesto come avesse fatto Walsh a tenersi fuori dalla narrazione: se si escludono la prefazione e alcuni interventi estremamente marginali, infatti, Walsh non compare mai nel suo libro. Al contrario, come ho detto, Binet fa di se stesso uno dei perni attorno ai quali costruire la propria narrazione. Confrontando i due libri – mi rendo conto che si tratta di un confronto del tutto arbitrario – ho pensato che, tra i due, sarebbe Walsh quello con più diritti di comparire all’interno della storia: Binet scrive a più di sessant’anni di distanza dai fatti, non è tedesco, non è ceco – anche se ha vissuto vari anni a Praga –, non è stato toccato direttamente dalle vicende di cui narra e, per così dire, dal clima in cui immerge la sua storia. Eppure Binet c’è, Walsh no. Soprattutto, nonostante i proclami e le cautele, HHhH è sicuramente più romanzo di Operazione massacro.

Ne ho dedotto, in modo ancora embrionale, che Walsh può permettersi di stare fuori dalla storia che narra perché è dentro la Storia che fa da sfondo al suo scritto. Egli non ha bisogno di comparire o di compatire, perché c’è. Soprattutto, ha un’urgenza che non è quella del filologo o dello storico: la sua ansia di narrazione è l’ansia di chi ha bisogno di prendere la penna per raccontare le cose come stanno, e per denunciarle. Anche a Binet sta a cuore la verità: ma la verità entro cui si muove il francese è più conciliata, è più lontana. La storia della Seconda guerra mondiale, di Heydrich e della sua morte, esiste, è codificata e riconosciuta. Il livello di verità per cui si batte Binet non è lo stesso livello (che ha a che fare con la sua stessa vita e con un rinnovamento politico dell’Argentina) per cui si batte Walsh.

Storie “come se”
In questa intercapedine nata dall’incontro tra due verità – l’una urgente l’altra filologica – si inseriscono l’autofiction e la metaletterarietà. Ho sotto gli occhi un articolo che Walter Siti scrisse in preparazione di Un dolore normale, nel 1999. L’ha ripubblicato qualche tempo fa il sito Le parole e le cose, intitolandolo significativamente Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti. In esso, Siti sostiene che, a dispetto dei nomi dei suoi protagonisti – tutti «Walter Siti» –, nei suoi romanzi, in cui apparentemente egli mette in scena se stesso, sia impossibile distinguere tra realtà e finzione. Scrive, inoltre:

«Forse non è un caso che proprio all’origine del romanzo moderno, nel diciottesimo secolo (e già in quel capostipite del romanzo moderno che è il Chisciotte), gli scrittori si sforzassero di far credere vere le storie che raccontavano: proprio perché stavano fondando un diverso tipo di conoscenza, diverso sia dalla conoscenza retorica che dalla conoscenza scientifica. Nell’estetica dell’infotainment, la mancata distinzione tra vero e finto conduce a una ‘ubriacatura passiva’ dello spettatore-ascoltatore; nell’incertezza voluta dal romanzo, invece, è invitato a mettere in discussione (attivamente!) il proprio identificarsi con i personaggi della storia. Ti identifichi diversamente, a seconda che tu sappia di avere a che fare con una persona vera o con un personaggio romanzesco. Io credo che il particolare tipo di conoscenza che è proprio del romanzo non possa fare a meno della magia dell’identificazione, nonostante tutti gli straniamenti e le diffidenze».

Il romanzo, dunque, ha sempre raccontato storie fittizie come se fossero vere. Il procedimento sotteso ai romanzi di Siti fa un passo più in là: racconta come se fosse vera una storia fittizia autobiografica. L’autobiografia di Siti è dunque la biografia di un se stesso che non c’è: appunto, un’autobiografia di fatti non accaduti. E soprattutto:

«La decisione di chiamare il protagonista dei miei romanzi col mio nome e cognome, che sembra comicamente narcisista, ottiene in realtà un effetto minaccioso di spossessamento. Se Walter Siti è lui, e vive esperienze che io non ho mai vissuto, esperienze ‘portate al limite’ che svelano la verità delle mie misere esperienze empiriche, chi è allora questo Walter Siti qua, che non è più in grado di provare quelle emozioni, e che deve ricominciare ogni volta a vivere daccapo?»

Insomma: Walsh racconta una storia vera e per così dire in diretta, in cui lui non c’è se non nelle coordinate iniziali dettate dalla prefazione; Siti racconta di un se stesso fittizio, in cui il suo vero io esplode e viene spossessato; Binet racconta una storia passata, definita, in cui non riesce a non far entrare il vero se stesso. Qual è, di queste tre esperienze, quella più romanzesca?
Nonostante sia evidente che la letterarietà stia dalla parte di Siti, sarei tentato di dire Binet. È infatti nella sua lotta apparente contro il romanzesco e la finzione – e proprio in virtù di questa lotta – che la fiction prende il sopravvento e sconvolge i piani: la menzogna della letteratura invade il campo ed entra prepotentemente, ora in forma di autofiction ora in forma di dialoghi e di scene inventate o arricchite, in un impianto che, per sua natura e in virtù del patto stipulato con i lettori, non la prevede. C’è di più: le esperienze dell’io di Binet, l’impianto insomma autobiografico della sua opera, sono vere. È vero che, mentre scriveva (ora non so) Binet stava con Natacha, è vero che ha fatto leggere il manoscritto a un amico (che forse non si chiama Fabrice, ma non è decisivo), mentre non è vera gran parte delle esperienze dei Walter Siti personaggio. La letteratura, con la sua mole di trasfigurazione, entra in HHhH e scombina i piani, mentre è un punto di partenza in Un dolore normale o in Troppi paradisi ed è “solo” un punto di arrivo (vista la straordinarietà e la bellezza del testo) in Operazione massacro.

L’immaginario del lettore di HHhH viene “gonfiato” proprio dai continui tentativi di Binet di scrivere un’opera che non preveda un immaginario. È però curioso – e forse non del tutto innocente – che nelle poche note bibliografiche in coda al volume, che rendono conto delle citazioni inserite nel testo, si faccia riferimento solo a opere letterarie, da Burgess a Kundera, da Schiller a Vollmann. Allo stesso modo, Binet è perfettamente cosciente del fatto che il suo libro non è scritto (e dunque non sarà letto) in concorrenza con le opere degli storici della Seconda guerra mondiale: il suo riferimento costante, ora sotterraneo ora esplicito (si veda per esempio il capitolo 191), è Le Benevole di Littell, opera documentatissima (forse addirittura più di HHhH) ma irrimediabilmente di finzione – su cui per altro Binet ha un’opinione precisa: Maximilian Aue sarebbe un personaggio di Houellebecq inserito in un contesto storico…

La manipolazione e i gradi della verità
In ogni caso, Binet sostiene che inventare un personaggio per comprendere dei fatti storici sia una sorta di manipolazione delle prove. Il messaggio è: la Storia è lì, ha i suoi personaggi, i suoi tempi, basta solo essere onesti e raccontarla per come è per fare una grande narrazione. Eppure, in HHhH non succede questo, o meglio, non succede solo questo. Senza l’autofiction, senza il compiacimento di raccontare, mentre si parla di Praga, anche la propria vita, Binet non avrebbe costruito il libro sorprendente che ha scritto e non sarebbe riuscito a restituire quel ritratto vivido che invece ha fatto.

Ma allora dove sta la verità? Se, come dice Siti, uno dei compiti della letteratura è far prendere per vere le finzioni che si raccontano, come si giudica un libro che ha al centro una storia vera e documentata in cui entrano dei fatti che, benché veri perché autobiografici, portano la narrazione a un livello che ha a che fare con la trasfigurazione romanzesca?

La stessa Operazione massacro non può raccontare tutto quanto è accaduto nella notte attorno cui fa perno, e non ne ha la pretesa. È però piena di un furore civile e documentario che la rende immediatamente vicina a chi legge, si basa su carte effettivamente esistenti e, soprattutto, non si pone il problema della finzione: quando deve inventare uno stato d’animo, Walsh lo inventa senza porsi il problema. Non è quello il punto, per lui: ciò che conta è stabilire la verità giudiziaria, dissipare ogni dubbio sull’ora dell’effettiva proclamazione delle legge marziale e così via. È questa la verità che insegue Walsh: tutto il resto sono, immagino, bagattelle intellettualistiche che di fronte a una dittatura perdono senso. È verosimile che il personaggio x abbia pianto e urlato in una determinata circostanza? Che pianga e urli, allora, anche se nella realtà non l’ha fatto: la verità che cerco risiede non nel suo pianto ma nel motivo per cui ha senso che l’abbia fatto.

Coda personale e irrisolta
Al di là del caso di Walsh e di libri ad esso analoghi che mi è capitato di leggere negli anni, non ho mai letto un libro pensando di leggervi la verità. Ho sempre ben presente il fatto di trovarmi di fronte a un’opera, il cui livello di verità sta altrove rispetto alla verosimiglianza dei fatti o degli atteggiamenti. Quando ho scritto Il demone a Beslan, pensavo proprio a questo: mi trovavo di fronte a un materiale documentario non ancora elaborato, fatto di video, di comunicati ufficiali, di articoli scritti a caldo; leggevo dei libri dove si davano notizie che una certa stampa smentiva o aveva smentito, ma di cui non potevo non tenere conto anche perché spesso erano l’unica fonte disponibile; avevo testimonianze di persone che restituivano – come è giusto e prezioso che sia – l’aspetto umano della vicenda prima di quello politico o di intelligence. Inoltre, avevo deciso di dare la voce a un uomo spaventoso, che era stato nell’abisso del male e non ne era uscito e sul quale, per di più, non avevo molte informazioni. Dov’era la verità? Che cosa avrei scritto e come? Che cosa avrei fatto dire al mio narratore?

Ho tentato di giocare la partita su un piano esattamente opposto a quello di Binet (che ovviamente non avevo ancora letto, perché mentre scrivevo io stava scrivendo anche lui): il piano della letteratura tout court. Stavo creando un personaggio “storico” che è il doppio letterario di un uomo che è insieme “storico” e vivo. Dovevo per forza spostare i piani, uscire dalla realtà fin da subito (nella prima riga del libro gli metto in mano una forca, che terrà attaccata alla cintura fino alla fine) e, sulla base comunque di una certa mole di documentazione, vedermela da un’altra parte. Mentre scrivevo, mi ripetevo continuamente una specie di mantra, che credo di aver rispettato solo in parte: «Non la verità storica in senso stretto, ma quella umana». È una frase quasi priva di senso, ma credevo e credo che fosse l’unico modo che avevo per mettermi di traverso in questa storia più grande di me, e provare a raccontarla. È per questo che il libro è pieno di voci che continuamente tentano di spostare il baricentro della storia (e della verità): perché, nonostante i documenti, la verità non ce l’ho, e solo la letteratura mi consentiva di restituire una visione tridimensionale dei fatti, e degli esseri umani.

In un caso che devo ancora verificare, poi, una certa realtà, grazie alla finzione del libro, potrebbe entrare prepotentemente nel mio ordine delle cose, ma è ancora troppo presto per parlarne, e forse non sarà mai il momento. Si tratta però di un aspetto – ne parla per esempio Carrère in La vita come un romanzo russo – ineludibile: la finzione che smuove delle cose nel mondo “vero”, e il mondo vero che entra di prepotenza nella finzione cambiando le carte in tavola. È però, come dicevo, un altro discorso, e non è questo il momento di parlarne.

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