“Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore”

Primo Levi, “La chiave a stella”, Einaudi 2006

primo-levi-la-chiave-a-stellaDopo una riflessione sul tema della buona salute o meno della nostra lingua italiana, del suo supposto decadere, del confine incerto che intercorre tra il suo impoverimento, e non invece, o anche, il suo svilupparsi, cambiare, materia vivente che si adatta al tempo e ai bisogni diversi dei parlanti; dopo questo, è stato quasi inevitabile ritrovarmi tra le mani il Primo Levi di “La chiave a stella”.

Ne ricordavo il meraviglioso italiano intriso di costruzioni dialettali, ma anche ricco di vocaboli perduti, ai quali oggi non corrisponde più un significato, per la caduta del riferimento; e di vocaboli che, pure non perduti, vengono escissi dal vocabolario della cultura ufficiale che, definendo sé, assegna all’area delle sottoculture gli insiemi di conoscenze che esulano dai canoni codificati, in quanto tali sanciti dalla scuola. Frammista al tutto vi si trova la lingua, la voce – di grande efficacia e pulizia – dell’autore, per piccoli appunti, per brevi descrizioni di paesaggi; che integra il racconto, senza togliere voce al personaggio narrante.

Una felicissima convivenza. Per non dimenticare, per assumere, che ogni cultura è costituita da insiemi di sottoculture, senza di che verrebbe perduta la necessaria vitalità che consente il cambiamento e, con esso, l’evoluzione adattiva all’ambiente.

Questo romanzo ci presenta un personaggio, tale Faussone, di professione montatore, compagno casuale del chimico delle vernici Primo Levi, incontrato alla mensa di una fabbrica “molto lontana (…)”; due italiani, all’estero per lavoro, in un luogo isolato, che si trovano a condividere le ore libere dei giorni stabilendo una obbligata amicizia. Faussone racconta. Gli piace; e pensa che le sue storie possano interessare il narratore Primo Levi.

“Lei poi, se proprio lo vuole raccontare, ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé e tira fuori una storia”.

Faussone ha molte storie da raccontare, vissute nei luoghi più disparati del mondo, a contatto con le culture e gli ambienti più diversi. Non è un buon narratore, dice Levi (con un grande artificio), e tuttavia, “come c’è un’arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove ed errori, così c’è pure un’arte dell’ascoltare, altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, che io sappia, non è stata mai data norma. Eppure, ogni narratore sa per esperienza che ad ogni narrazione l’ascoltatore apporta un contributo decisivo.”

In questo caso, l’ascoltatore Primo Levi fa tutta la differenza. Fa niente se c’è il trucco, dato che questo è il primo romanzo di fantasia di Primo Levi, e il personaggio Faussone possiede – ce ne informa l’autore – unicamente un’esistenza letteraria. Ascriveremo anche questa informazione all’attitudine alla bugia propria di ogni narratore perché, per chi legge, risulterà impossibile rinunciare alla realtà del personaggio. Dopotutto, nel narrare, ce ne informa sempre l’autore, con la voce di Faussone, è previsto, è dovuto, l’imbroglio:

“Senta, non mi piace dire le bugie. Esagerare un poco sì, specie quando racconto del mio lavoro, e credo che non sia peccato, perché tanto chi sta a sentire si accorge subito”.

Faussone racconta: la propria vita, del padre stagnino (“magnino”, dice lui), che fabbricava pentole artigianali; della propria scelta di vita, del rifiuto di condividere quella del padre – “Vede, era un mestiere come tutti i mestieri, fatto di malizie grosse e piccole, inventate da chissà quale Faussone nei tempi dei tempi, che a dirle tutte ci andrebbe un libro, e è un libro che non lo scriverà mai nessuno e in fondo è un peccato; anzi adesso che sono passati gli anni mi rincresce di quella questione che ho fatto con mio padre, di avergli risposto e di averlo fatto stare zitto. (…) Perché vede, il suo lavoro gli piaceva, e adesso lo capisco perché adesso a me mi piace il mio.”

Aveva fatto la sua scelta: “Tutti i ragazzi si sognano di andare nella giungla o nei deserti o in Malesia (…). C’erano due maniere: aspettare di diventare ricco e poi fare il turista, oppure fare il montatore.”

Gireremo il mondo, con Faussone, a modo suo, di cantiere in cantiere; conoscendo genti e diversità; e il miracolo del linguaggio condiviso dentro una cultura del lavoro, declinata, certo, diversamente, ma capace di attraversare i continenti – che verrà immortalata dall’opera compiuta, dalla propria parte agita con competenza e consapevolezza, con un pensiero che sa, anche nelle difficoltà, talvolta estreme, la propria identità.

Faussone racconterà il piacere del ritornare, da turista, a rivedere, se capita, i “suoi” lavori – quel ponte, alla cui costruzione ha collaborato montando la grande gru; quell’elettrodotto, del quale ha supervisionato, collaborando anche manualmente, il montaggio; quel derrick (che, ho scoperto, sarebbe una “torre di perforazione” in un impianto petrolifero).

Conosceremo il fallimento, perché non sempre tutto va per il verso giusto; e allora incombono le domande “prive di senso“, dice Faussone, le domande sul cosa ci stiamo a fare al mondo, quando “non si può mica rispondere che stiamo al mondo per montare tralicci, dico bene?”

Tutti i lavori sono uguali, infine, presentano i loro problemi. Faussone tuttavia è colto da un dubbio. Che tipo di mestiere è lo scrivere. “Ma mi dica un po’, capita anche a voialtri?”primo-levi

La risposta di Levi, che partecipa delle due culture, è la risposta di chi conosce il fare e i suoi vincoli. Capita, risponde, di scrivere “cose pasticciate e inutili”. E tuttavia, a differenza di quanto capita a Faussone, nel suo lavoro, è possibile non accorgersene:

Perché la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai (…). Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali: non c’è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando è ormai troppo tardi, e allora si mette male: anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai scuse né pretesti, ne rispondi appieno.”

Faussone sbalordisce.

“Già Questo è un bel fatto. Non ci avevo mai pensato. Pensi un po’, se per noi gli strumenti di controllo nessuno li avesse mai inventati, e il lavoro si dovesse mandarlo avanti così, a trucco e branca: ci sarebbe da venir matti.”

Ci verrà posto, dinnanzi allo sguardo, un valore, reso concreto da un fare nel quale la mano e il pensiero si legano con il rispetto di sé e la precisa, evidente chiarezza del proprio agire nel mondo. Perché, ci dirà Primo Levi, “se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide.”

Ci si diverte a leggere questo romanzo. Alla fine, si sta bene. Con l’autore, che si è indubbiamente divertito a scriverlo; che, in questo lavoro, deve aver trovato un puntello alla propria vita, una fonte di serenità. Con il piacere di restituirla.

Nel leggerlo oggi, tuttavia, il piacere è ingabbiato nella perdita, del lavoro, del senso del lavoro, del suo essere creazione, di cui poter dire: l’ho fatto io e l’ho fatto bene; sia esso una pentola, un traliccio, un libro.

Poi, si sa, la vita è fatta di tante cose. Talvolta di troppe.  Tanto più, si alza al cielo l’importanza di far sì che il proprio lavoro sia piacere, consapevolezza, e misura di sé. E l’importanza di lottare per questo. Per la dignità del lavoro.