Nella scelta tra il possesso e l’uso si mostra la “fine dei tempi”.

Chiamate in attesa (7)
a cura di Tolentino Mendonça.

concetto di proprietà

Devo al filosofo Giorgio Agamben il mio risveglio d’interesse per un’appassionante querelle che anticamente cominciò a essere formulata da Aristotele, la quale ha trovato una singolare tematizzazione in una delle lettere di san Paolo, che poi riemergerà con il movimento francescano e che adesso, di nuovo, la contemporaneità riscopre: la questione dell’uso, non solo come problematizzazione dell’idea di proprietà ma come pedagogia per arrivare ad abitare quello che siamo. L’ultimo volume del progetto Homo sacer, con cui Agamben apre con originalità nuovi cammini al pensiero contemporaneo, s’intitola L’uso dei corpi. La sua proposta è di sostituire il concetto di azione, che da secoli poniamo come motore e giustificazione della vita politica, con la categoria di uso. Ci chiediamo allora: che cosa mai l’uso potrà fornire, come strumento della costruzione umana e sociale, che non sia già contenuto tanto nell’azione come nella proprietà? Agamben lo dice con chiarezza: solamente l’uso ci permette di configurare nella verità una forma-di-vita.

Il concetto di azione è parziale, dato che in ogni momento essa è legata a un determinato motivo; parimenti la proprietà, che coinvolge l’essere nel suo impegno di possedere, e a questo lo riduce. Agamben porta l’esempio della forma-di-vita del pianista Glenn Gould: «Egli non è titolare o padrone della potenza di suonare, che può mettere o non mettere in opera, è, però, solo colui che può non suonare, e, rivolgendo la potenza non solo all’atto, ma alla sua stessa impotenza, suona, per così dire, con la sua potenza di non suonare». In questo senso, sostiene il filosofo, l’uso, come pure l’abitudine, è una forma-di-vita, e non il sapere o la facoltà di un determinato soggetto in una particolare azione.

Mi ha interessato in particolare la problematizzazione sviluppata da Agamben sulla categoria di proprietà, obbligandomi alla rilettura di quanto scrive san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non [hos me] l’avessero; quelli che piangono, come se non [hos me] piangessero; quelli che gioiscono, come se non [hos me] gioissero; quelli che comprano, come se non [hos me] possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non [hos me] li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!».

Il testo fu scritto in greco, verso la metà del I secolo, e la prima difficoltà sta nella sua traduzione. Come tradurre l’espressione greca hos me? Seguendo un’interpretazione tradizionale del testo, ancor oggi si ricorre alla formula “come se” ma il traduttore stesso è cosciente della sua ambivalenza. Giorgio Agamben propone di tradurre semplicemente “come non”, evitando la formulazione ipotetica. Paolo avrebbe davanti agli occhi la definizione di proprietà del diritto romano e contrappone esplicitamente l’uso, in senso messianico, alle forme di dominazione. La chiamata messianica non è un diritto, né una proprietà: è un abitare ed è un uso. Similmente anche i primi teorici del francescanesimo si ingaggiarono in una polemica giuridica rinunciando al diritto di proprietà (abdicatio iuris) e approfondendo un’alternativa di vita comune fondata unicamente sull’uso.

Il concetto di proprietà è statico: ci lega a quel che possediamo e a esso solo. L’uso è un’esperienza polare: in esso realizziamo allo stesso tempo il gesto dell’avere e del non avere; compiamo un’appropriazione, ma senza perdere di vista l’inappropriabile. Per questo, usare significa vivere nella tensione tra abitudine e perdita, fra patria ed esilio. Non sarà questo il vero abitare?

Avvenire 15/10/2015

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