Il primo bianco


(ventisettesima puntata) di Michele Pinin
                                                                                                     a ogni santo la sua festa

Quando riescono finalmente a raggiungere l’uscita Mayuko è diventata una nuova donna. Ha ritrovato energia, dopo mesi, si sente finalmente utile. Ha capito che l’amica ha bisogno di aiuto. Deve sedersi all’aria aperta, bere un bicchiere d’acqua e mangiare qualcosa. Non può che passare il braccio destro dietro alla schiena di Abe, mettersi quello sinistro della donna sulle spalle e trascinarla di peso. Lasciato l’incrocio davanti al Bunkamura, dopo pochi metri fra una banca e un negozio di strumenti musicali, c’è un bar con delle sedie e dei tavolini messi fuori. E’ pieno di gente, non le piace; il volto  pallido di Abe non le lascia altra scelta, la fa sedere.
Daijobu – ripete Abe cercando di inghiottire aria e afferrare i vestiti di Mayuko per non scivolare dalla sedia. Sentendo l’amica ripetere quella parola è sicura che le cose non vadano bene e deve darsi da fare. Quando chi sta male, ripete daijobu (va bene) è per non fare preoccupare chi ha davanti. Mayuko non dice niente, entra nel bar, mentre degli stranieri seduti ai tavoli vicini – a voce alta – commentano dicendo: sarà ubriaca.
Non lo sa, perché non viene quasi mai a Shibuya, ma quel posto dove adesso è in fila alla cassa, è un  bar all’italiana, si chiama Segafredo. Per questo i commessi, ogni volta che qualcuno fa un’ordinazione, la ripetono a voce alta aggiungendo prego o per favore. Un caffè espresso prego, un cappuccino doppio per favore. Fa scena, fa Italia. Si guarda intorno e capisce di essere l’unica donna non truccata, non magra, non vestita alla moda; fa lo stesso, pensa, mentre è in fila alla cassa e si concentra su cosa ordinare. Davanti a lei una coppia di ragazzini che forse sono usciti insieme per la prima volta, si parlano senza guardarsi. Lei con il telefonino in mano, lui impegnato a mettersi a posto i capelli. Il cassiere aspetta che decidano. Mayuko nota solo adesso che il bancone dove servono caffe e cappuccini è di pietra nera con delle sottili venature bianche e le pareti sono piene di gigantografie in bianco e nero che ritraggono coppie di italiani, o comunque di stranieri, che sorridono felici. Sullo sfondo delle fotografie i tipici panorami delle città più famose; li sa riconoscere anche lei, che nella penisola non c’è mai stata. I due giovani hanno deciso cosa prendere e lei si trova davanti al cassiere che sorride. Vorrebbe pagare per andare via, ma questo sul menù non c’è scritto e allora procede per eliminazione: per Abe niente caffé, niente tè, niente camomilla. Un croissant e un succo di frutta, non freddo. Lo chiede al barista e lui risponde sì, abbiamo anche del succo di frutta non freddo, quale sceglie? Mayuko si accorge solo ora che per tutta la vita ha sempre pensato che i gusti dei succhi di frutta fossero tre: arancia, mela e pompelmo. Qui ce ne è uno in più che attira la sua attenzione: sicilian blood orange. Mentre legge quel nome, non proprio a voce alta, piuttosto mormorando, il cassiere le chiede se lo vuole piccolo, medio o grande. Lei pensa che Steve Jobs (puntata 11), un ragazzo così veloce e superficiale non lo avrebbe mai assunto, si innervosisce e ne ordina due grandi, uno a temperatura ambiente senza ghiaccio e uno freddo con molto ghiaccio, tutte e due con la cannuccia a parte e serviti insieme a due cornetti (in questo bar si chiamano così i croissant) senza crema, serviti al tavolino fuori dove l’aspetta la sua amica. Calcola il prezzo e mette sul piattino nero con la scritta Segafredo la cifra esatta in monete da cinquecento, cento, dieci e uno yen; ricambia con disprezzo lo sguardo del cameriere  e raggiunge Abe.
Le due amiche, finalmente sedute, si guardano e non hanno bisogno di parlare. Quello lo lasciano fare agli occhi: come sei dimagrita! Come sei ingrassata! Cosa ti è successo? Come siamo cambiate! Stasera fa quasi freddo, ma è sempre così durante la fioritura dei ciliegi: caldo di giorno, freddo la sera. Quest’anno sei riuscita a fare con calma un hanami? Figurati. Forse lo possiamo fare adesso. Sorridono. Accanto al loro tavolino, in un vaso abbastanza grande, hanno piantato un ramo di ciliegio che viene dalle montagne, uno yama zakura. Quando il vassoio del barista, rosso, come i succhi di frutta, si posa sul tavolino, Abe guarda le mani dell’amica che veloci, preso uno dei bicchieri e una cannuccia, li posa davanti a lei. E’ alla mano sinistra che manca qualcosa. Conta le dita e sono sempre cinque, ma sull’anulare manca una fettuccia di platino, la fede. Non ha bisogno di dire niente perché Mayuko ha notato la sua espressione. E questa volta non bastano gli occhi, deve chiedere aiuto alla bocca e dice: eh sì.
Abe non prende la cannuccia e si porta il bicchiere di sangue siciliano alla bocca; il succo dei tarocchi le punge la lingua e la fa uscire dal torpore in cui era caduta. Guarda l’amica dritta negli occhi e le chiede: quando è successo? Qualche mese fa, risponde Mayuko, che invece adora scartare le cannucce, piegarle al punto giusto e iniziare lentamente a far arrivare il succo di frutta sulla lingua. Un oggetto perfetto la cannuccia, pensa. Non vorrebbe parlare del suo divorzio. Non aggiunge niente, lasciando che la bevanda le massaggi il palato. Si mette il cardigan leggero che aveva ripiegato nella borsa prima di uscire, sapendo che dopo aver sudato da Don Quijote, una volta in strada, avrebbe avuto freddo.
– Perché? – chiede Abe. La più impertinente, inappropriata e fuori luogo delle domande che si possono fare a un’amica che ha divorziato e tu non te lo saresti mai aspettato. Ci sono dei divorzi che per la nostra immaginazione sono semplicemente inaccettabili. Danno la stessa sensazione che potremmo provare scoprendo che nostra madre, nel tempo libero, sevizia gli anziani della casa di cura a due passi dall’ufficio. Mayuko lo sa che l’amica non ha mai conosciuto Hirose, per davvero, e che gli unici ricordi che ha sono quelli di vent’anni prima, quando lui passava il tempo a studiare e suonare la chitarra. Abe non ha mai visto il suo ex marito alzarsi e spaccarla sulla testa di qualcuno che non applaudiva. Era successo davanti alla stazione, non una volta sola. Capita che quando sei giovane e magari non troppo bravo, se ti metti a suonare la chitarra per strada, qualcuno si ferma e dopo averti ascoltato per un paio di minuti si mette a ridere. Anche alla fine degli anni 80 quando – rispetto a ora – erano più numerosi i giovani che spesso vestiti di jeans, pantaloni e giubbotto, con un seggiolino e uno spartito aperto davanti, iniziavano a suonare la chitarra e cantare. Senza amplificatore, canzoni con la chitarra acustica, quasi mormorate e scritte da loro. Hirose poi era il suonatore da strada ideale. Prima di iniziare a suonare, dopo aver poggiato le custodie con le sue due chitarre e la borsa, toglieva i mozziconi delle sigarette da terra nei cinque metri davanti a lui. Quel particolare, il fatto che si preoccupasse di pulire la strada, prima di mettersi a suonare, aveva colpito Mayuko. Ecco perchè, quando un giorno, prese la chitarra e la spaccò contro la faccia di un impiegato che faceva lo spiritoso, Mayuko rimase impietrita, colta di sorpresa dalla velocità di Hirose che  subito dopo aver colpito l’uomo, aveva tirato fuori la seconda chitarra e ripreso a suonare. Non si era messo a urlare, non aveva fatto una scenata. Si era alzato e con la chitarra aveva mirato e centrato il volto dell’impiegato fratturandogli il naso. L’uomo a terra non riusciva a decidere a cosa dare la precedenza. Al dolore al naso e al sangue copioso che usciva dalle narici o al terrore scatenato dalla velocità e dalla risolutezza dei movimenti di Hirose che con lo sguardo si mostrava pronto a ucciderlo se necessario. L’imbarazzo per l’aggressione subita, richiedeva che almeno insultasse quel ragazzino che suonava la chitarra, ma l’istinto della sopravvivenza e soprattutto la codardia gli fece solo mormorare qualche parola nel fazzoletto, portato al naso per cercare di fermare il sangue. Mayuko all’inizio non riusciva a muoversi anche se voleva farlo. Si sarebbe dovuta alzare, andare via e non rivolgere mai più la parola a Hirose. Era l’unica cosa da fare, invece di cominciare a battere le mani per coinvolgere la gente che era rimasta allibita e stava per reagire, ma come lei, non sapeva davvero cosa fare. Si era alzata e aveva invitato quelle poche persone che avevano assistito a quanto successo a battere le mani e ripetere il ritornello della canzone. L’uomo sanguinante si allontanava e lei lo seguiva con gli occhi come per invitarlo a accelerare il passo e allo stesso tempo ondeggiava con il corpo cercando di ballare per rasserenare gli altri e invitarli a dimenticare quello che era appena accaduto.
Era il primo e non sarebbe stato l’ultimo degli attacchi subiti da Hirose. Quello che a molti era sembrato un gesto folle o isterico, era invece stato definito dai medici come un attacco di intemperanza. Hirose soffriva di offuscamenti dell’umore. Il fattore scatenante era il mancato controllo di quanto aveva intorno. Il problema sta in quello che generalmente attribuiamo come significato alla parola controllo. Diversamente da quanto crediamo non ha nulla a che fare con il nostro potere sulla situazione circostante. Controllare, significa prima di tutto verificare che quello che si trova intorno a noi corrisponda all’immagine che ne abbiamo. Ossia che l’albero che guardiamo sia davvero un albero. Abbiamo costantemente bisogno di verificare la corrispondenza fra quello che vediamo e l’immagine che pensiamo di vedere. Altrimenti in casi estremi – come era successo quel pomeriggio con la chitarra – se quello intorno a noi non corrisponde più, la verifica non torna e allora perdiamo il controllo. Attacchiamo, cercando di annullare la fonte di inquietudine e di pericolo. La fetta di realtà che non corrisponde alla nostra immagine. In questo caso, l’impiegato che invece di ascoltare in silenzio, ride.
Nel caso di personalità labili come quelle di Hirose, avere accanto amici o colleghi di lavoro come Okada, è molto importante. Per il fatto di assentarsi nel mezzo di una riunione, di essere presente con il corpo, ma vagare altrove con la mente (puntata 7) Okada veniva definito un elemento debole e inaffidabile. Hirose se ne era reso conto subito e per questo volendo proteggerlo, doveva tenere sempre la situazione sotto controllo. Quando lavoravano insieme si sentiva responsabile di quello che Okada faceva, di come si comportava. Senza saperlo, i due compari, si proteggevano a vicenda.
Abe, di tutto questo, come la maggior parte degli amici di Mayuko, non ne era a conoscenza. Pensava che Hirose fosse solo un buon giornalista e un marito attento, uno di quelli che esce prima dall’ufficio per andare a prendere i bambini in piscina o che la domenica si mette a fare la spesa per lasciare riposare la moglie. In effetti, scrivere articoli per il giornale, avere Okada a cui badare insieme ai bambini e alla moglie, aveva giovato molto al carattere di Hirose. Il difficile, per chi come Mayuko, si ritrovava a coprire il ruolo di moglie di una personalità come quella, era sapere che Hirose combatteva una guerra solitaria. Vedi, cercava di spiegare all’amica, lui è un po’ come i 24 ore che a te piacciono tanto (puntata 26). Cosa fanno i 24 ore per tutto il giorno e tutta la notte? Restano aperti, giusto? Abe assentiva, con gli occhi sbarrati mentre i brividi di terrore lungo la schiena le facevano dimenticare il freddo della sera. Ecco, Hirose è come il responsabile di un 24 ore, deve stare attento a chi entra, sorvegliare le persone per assicurarsi che non facciano cose strane. Lo sai, ci sono le donne anziane che di proposito schiacciano le merendine nelle buste per farne uscire il cioccolato, oppure gli adolescenti che  aprono i tappi delle bevande frizzanti o rovinano i gelati. E’ un continuo esercizio di sorveglianza, di controllo e di verifica, a cui mio marito deve sottoporsi. Non c’è via di scampo, salvo che non si voglia ricorrere ai medicinali, ai calmanti che però alla lunga, impediscono di concentrarti e di lavorare. Ti auguri sempre che certe persone non entrino e invece, di notte come di giorno, arrivano.
Deve essere stressante vivere con una persona così, era stato il commento di Abe, prima che Mayuko non riuscendo a trattenere le lacrime, cercasse di sorridere all’amica.
– Sì, diciamo che è molto stressante. E poi inizi a temere per i bambini, diventi apprensiva, forse anche troppo. Comunque è finita, non ce la facevo più e ho chiesto il divorzio.
Abe, non sa cosa dire, allunga una mano e la poggia su quelle di Mayuko che stringono il fazzoletto con cui si è asciugata le lacrime. Forse era l’unica cosa da fare, dice. Mayuko non vuole commentare, non vuole andare oltre. Come potrebbe dire, all’amica ritrovata dopo tanto tempo, che il peggio deve ancora venire. Come potrebbe spiegarle che  Hirose era stato mandato dal giornale nel nord del paese (puntate 12, 15, 18, 22)  e stava per raggiungere l’Hokkaido dove viveva suo fratello. Senza di lei e i bambini, senza Okada. Da solo. Come farà a controllare chi entra e chi esce dal 24 ore?

つづく
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