La raccolta d’lê còchê

Pugnetto è un frazione del Comune di Mezzenile situato nelle Valli di Lanzo (To) e l’Uja di Calcante è la sua montagna, famosa per la presenza dell’Euphorbia Gibelliana Peola,  Pianta unica al mondo.

Come in tanti altri villaggi di montagna, la natura, con i suoi cicli, determinava il tempo dei valligiani. Soprattutto la natura scandiva i tempi del lavoro e ogni anno, come un rito, si svolgeva la raccolta delle castagne.

Ho avuto la grande occasione di conoscere l’autrice di questa testimonianza, di questo spaccato di vita di montagna.

Si chiamava Maddalena Vottero-Prina e nel 2002 scrisse il libro “A l’ombra ‘d CALCANT” dove ci sono tanti aspetti che riguardano un mondo che ormai non esiste più ma che ha sicuramente ancora tanto da dire e molto da insegnare proprio oggi dove il nostro modello di sviluppo sta ormai mostrando tutti i suoi limiti, andando ad impattare profondamente sulla vita del nostro Pianeta.

Ciò che qui potete leggere, personalmente ritengo lo si possa considerare una perfetta lezione di ecologia. E’ una meravigliosa e commuovente testimonianza (un insegnamento vero, uno dei tanti che, purtroppo, si stanno sempre più dissolvendo nell’oceano di oblio a cui abbiamo destinato la ricca saggezza dei “vecchi”) di cosa significhi equlibrio con la natura. La cosa stupefacente, incredibile per i nostri stili di vita, è tentare di rintracciare il rifiuto, lo scarto, lo spreco, la cosa che si butta via.

Dov’è?

Oggi tutto questo lo si può soltanto rubricare fra le utopie. Ma solo qualche decennio fa non lo era. Oggi, leggere della raccolta delle castagne, che avveniva a poche decine di chilometri dalle nostra città, è come “incontrare” una civiltà aliena che disponeva di saperi straordinari. Sarebbe un grave errore liquidare un rito così importante dicendo semplicemente che si tratta di epoche di miseria e di economia di sussitenza. Non auguro a nessuno di vivere in estrema, relativa, povertà. Ma non auguro neanche a nessuno di vivere un’epoca minacciata pesantemente dalla nostra stessa “civilità” dove rintracciare un sentiero di crescita sostenibilie, sta diventando una missione quasi impossibile. E’ in gioco il nostro futuro. E forse, in questi casi, un salto nel passato (molto recente) può davvero introdurci ad importanti riflessioni. Buona lettura.

La raccolta d’lê còchê (delle castagne)
“Il gigante della nostra alimentazione”

Veniva posta particolare cura alla raccolta ed alla conservazione delle castagne che garantivano un’alimentazione sufficiente alle persone e servivano pure come integratore agli animali.

A maturazione avvenuta, non si aspettava, come ora, la libera caduta “’d li aris” (ricci): quando i ricci dalle piante “èncaminont a rirj” (incominciano a ridere) – si aprono e lasciano intravvedere le tre castagne – si procedeva alla raccolta: partecipavano tutti, come per ogni cosa, dagli ottantenni ai bambini anche di tre, quattro anni.

Gli uomini salivano “ês lê bosciasê” (castagni innestati) e con “una piercij” (lunga frusta – anche 7/8 metri) di larice ed a volte anche solo di betulla, scuotevano i rami facendo cadere tutti i ricci. Per la “frusta” occorrevano anni di attenzione affinché crescesse solo in altezza e poco in diametro!

Un compito dei bambini era indicare al padre, che si trovava sulla pianta, ove eventuali ricci, riottosi, erano rimasti e con la frusta poterli far cadere.

I “battitori” più bravi non ne lasciavano neanche uno e facevano cadere pochissime gemme con foglie che avrebbero danneggiato l’albero per la produzione dell’anno seguente.

Era un lavoro molto faticoso in quanto ci si trovava su una pianta (anche se i castagni sono …accoglienti rispetto ad altri alberi), la frusta era molto pesante ed il lavoro di braccia e di reni era notevole (nessuno aveva la … pancia! E non solo per la dieta!).

Erano pure muniti di “faosêt” per tagliare eventuali rami secchi e liberare la pianta da “ingombri”. Intanto si erano preparate, a valle delle piante “lê parièndê” (barriere) fatte di fascine, trattenute da bastoni piantati all’ interno ed all’esterno di esse per frenare il rotolamento dei ricci che, allora, con i prati rasati all’inglese, sembravano palle in precipitosa discesa.

Lê parièndê” servivano sia per rendere più agevole la raccolta dei ricci (limitando l’area di caduta) sia perché non avessero a sconfinare su terreno altrui e senza la possibilità di prelievo.

Pugnetto poi è situata in località molto ripida ed il rotolamento così estremamente favorito tanto da far dire “in città”: “Ah, a Pugnetto debbono fare le paratie per le galline, altrimenti le uova scivolano, senza neanche rompersi, fino a Stura e bisogna, poi, scendere, fin lì, per recuperarle!”.

La raccolta veniva effettuata da donne, anziani e bambini muniti “’d cavagnê” (ceste), “molê” (molle di legno di castagno giovane tagliato a strisce dopo averne tolto la corteccia, lasciato a bagno e, piegato poi: tale da farlo assomigliare alle molle degli alari ma flessibilissime) e con un grembiule rivoltato con le nocche legate a vita a mo’ di sacchetto per raccogliere “lê poòrgij” (castagne uscite …incautamente dal riccio aperto e che, poi, non si conservano a lungo).

I ricci venivano raccolti con le molle mediante una lieve pressione e successivo rilascio per depositare i ricci “ên tê lê cavagnê” (ceste) le quali poi riempivano dei “garbin” che venivano portati negli “èjràl” (piccoli pianori appositamente destinati ad uso apposito per la fermentazione dei ricci con castagne ed a volte usati anche come “carboneri”) e si formava “l’arisij” (intraducibile: mucchio di ricci).

Si muovevano pure le foglie con le molle per individuare le castagne uscite (quelle … incaute) dal riccio ( poòrgij).

Ogni proprietà aveva un sito destinato a tale lavorazione se non c’era proprio l’aia, era usata a “tal bisogna”.

Intanto gli uomini continuavano “a bati ‘l còchê” sulla altre piante.

Questo lavoro era, come detto sopra, riservato alle “bosciasê” (femminile di castagno che sta a significare: pianta innestata), quelle non innestate e chiamate ora “’d sêlvaj” (selvaggio) erano conosciute come “bosciàs”: portano frutti quasi sempre “fòl”, con riccio senza castagne e precisamente tre buccie senza “anima”: belli pomposi e rotondetti, con spine acuminate (chissà cosa intendono difendere, o, forse, tutto il loro “vigore” si tramuta in spine), sembrano invitanti palle, al contrario delle “bosciasê” che producono ricci panciuti (gravidi) e se qualche riccio dei “bosciàs” è provvisto di frutto esso è, anche se di “buona presenza”, estremamente insipido e la forma delle castagne è, rispetto a quelle delle “bosciasê”, decisamente più snella.

Forse è per questo che chi cerca castagne “dêzarisànt” (schiacciando il riccio per far uscire il frutto) non sempre trova frutti di “ottimo sapore” (qual è per le castagne innestate): non sempre riesce a distinguere il bello (bosciàs) dal buono (bosciàsê), magari più piccole e meno “brillanti” ma non “insipide”.

E’ pianta spontanea (da questo il nome “sêlvaj”: può essere un pollone o un frutto che, in fermentazione ha dato origine alla pianta) e serve egregiamente come legname da costruzione: credo sia superato solo dal larice.

Il termine “bosciàs” (senza frutto) veniva comunemente usato per gli Uomini non sposati ma … un po’ galletti ed un po’ vanitosi ed era un appellativo estremamente offensivo: “Laslo stà chê o jêst mach ên bosciàs!“.

Quando tutti i ricci pieni erano raccolti e portati “ên t’l’èjràl” si pressava il mucchio battendolo, leggermente, con “lo rastèl” (rastrello robusto) ma di legno: di ferro non ne esistevano e, neanche ne dovrebbero esistere, si copriva con “fojê” (foglie secche) e fasci di rami verdi di castagno (polloni), se il terreno era molto asciutto, s’inumidivano i ricci bagnandoli con varii secchi d’acqua onde permettere una migliore macerazione e si lasciavano “riposare” per una quindicina di giorni.

Prima della “Festa di Ognissanti”, si procedeva “a picà” (intraducibile) scoprendo “l’arisij” e con un rastrello robusto (come quelli usati per “frosij” – schiacciare il letame sul prato – e non di quelli, quasi senza peso per il fieno) ed una zappa (usata con mano “eterea”) si tagliava (letteralmente) una fetta dello stesso in modo lieve, senza danneggiare le castagne, ma facendole uscire un po’ dai ricci, ormai quasi decomposti, con “la tèsta dòo rastèl”.

Uja di CalcanteL’abilità di questo “preludio” era nel lasciare il minor numero possibile di ricci “êntij” (interi e chiusi).

Muniti “dè scagn” (sgabelli a tre gambe) e “pich” (martello di legno: in pratica un’assicella rettangolare leggermente appuntita su due lati munita di bastoncino centrale) si procedeva ad aprire tutti i ricci, seduti in fila, come ad una catena di montaggio.

Si provvedeva (generalmente un lavoro maschile, ma le nostre donne non si sono mai tirate indietro per ogni lavoro anche “maschile”) poi, con il rastrello a portare (con un lieve solletico ai ricci – ed anche qui un lavoro di destrezza in quanto le castagne, anche con riccio aperto tendono a restare “imbrigliate” nell’ovattato rifugio) i ricci in superficie e rastrellarli, spingendoli leggermente oltre.

Le castagne tutte scoperte, restavano a terra!

Si procedeva alla cernita senza guanti (le spine erano molte ma s’imparava molto presto ad evitarle).

Si ponevano davanti tre “cavagnê”: in una si mettevano le più belle e turgide (destinate, se possibile, alla vendita), nella seconda quelle piene, ma piccole (che si mangiavano in inverno) e nella terza, quelle piccolissime e quasi “pocèl” (vuote) che servivano come pasto finale (dessert) alle capre ed anche alle mucche.

Tutto questo procedimento serviva alla conservazione delle castagne per l’inverno e la primavera.

Quelle raccolte al di fuori dell’arsij, le “poòrgij”, anche se più buone non si conservavano.

Una differenza tra le due raccolte è: per quelle fermentate, a cottura ultimata, in fase di pelatura si possono togliere, con estrema facilità la buccia e la vellutata “seconda pelle” a volte quasi contemporaneamnete (blinê), per le “poòrgij” è quasi impossibile.

Il freddo, a fine ottobre, era già “incisivo” e poi non esistevano guanti e giacche in “gore-tex”.

La cernita era un lavoro “temuto” dai più; in quanto svolto in condizioni meteorologiche “infelici”, con le mani sempre bagnate, seduti, al freddo ed all’aria di novembre e “la bisà” (corrente d’aria) nelle orecchie.

A volte i ritardatari nel disbrigo optavano alla raccolta unica: si portavano tutte le castagne “picà” al riparo per poi, inverno inoltrato (ormai quasi era lo era già) procedere alla suddivisione.

PugnettoSarebbe stato un lavoro più lieve (e fatto in relativo calore) senonché le castagne, per essere conservate bene ed a lungo debbono essere fatte un po’ asciugare e divise da quelle bacate che sono fonte di ulteriore contagio.

Era, pertanto, la scelta solo un ripiego.

La cernita delle castagne che può sembrere una cosa semplicissima, richiedeva esperienza: le castagne belle (e buone) non sono quelle grosse ma quelle piene, con il musetto bianco e ben tirato, devono avere peso proporzionato alla grossezza, non debbano esserci “rughe” nella parte marrone e debbono essere sempre “più largi chê longi” (più larghe che lunghe) e non debbono essere, naturalmente bacate (e non è facile vedere, con la castagna umida, il foro prodotto dal baco o, se foro non c’è, la “corteccia meno tesa”.

Una valutazione che, necessariamente, deve essere fatta con un “colpo d’occhio” (e di mani) era (ed è) di tutto rispetto!

Si raccoglievano anche i polloni che erano serviti alla copertura, si legavano in “fàs ‘d fòji”, si mettevano “ês lê lòbiê” (balconi in legno) e servivano, in inverno, per le capre, che abituate a mangiare l’erba verde ‘d Calcant, male si adattavano ai rigori ed all’alimentazione invernale fatta di “volgare” fieno!

Quasi, quasi, come noi, abituati a cioccolatini, ci troviamo di punto in bianco a solo pane rancido!

Proviamo?

Le forme tagliate verdi e seccate all’ombra erano, per le capre, quello che per noi, dopo il pane rancido, è un pezzetto di cioccolato!

Si era, nel frattempo (tra la raccolta delle castagne e la macerazione dei ricci) provveduto a raccogliere tutti i ricci restati sotto gli alberi: quelli vuoti e quelli “fòl” (senza polpa di castagna, oltre il guscio) onde permettere la raccolta delle foglie secche per le lettiere degli animali nella stalla.

Se ne riempivano interi solai tanto che in ogni casa rurale (magari non c’era la camera da letto) esisteva “lo solè dòo giàs” e “lo solè dòo fèn” (il solaio delle foglie ed il solaio del fieno).

Si raccoglievano le foglie quando il tempo era secco, riempendo “li garbin ‘d li grànt” (quelli grandi) fino a raso e pressandole, poi con le mani si avvolgevano le foglie rimaste formando “li roij” (involti di foglie) che si spingevano ai lati interni “dòo garbin” (le donne più abili ne facevano stare sette/otto “involti” fintanto “lo garbin” sembrava il cono di un gelato.

E’ incredibile la quantità di foglie ci si riusciva far “entrare” “èn tòo gàrbin”.

A volte, la fortuna amica, faceva sì che dopo la caduta delle foglie s’alzasse il vento e chi disponeva “êd na viasj” (sentiero privato, profondo, con muri laterali alti) si trovava col passaggio pieno di foglie, portate dal vento che bastava raccogliere e portare in solaio.

Per non lasciarsele sfuggire si lavorava “quasi giorno e notte!”

Si facevano anche “êl cordà” con la “frascièri”, era un lavoro di grande abilità ma quando c’era abbondanza…

I ricci rimasti dopo “sèrnu êl còchê” venivano (per i residenti più …agiati) bruciati: ad ogni scoppiettio (che equivaleva ad una castagna lasciata …dispersa) i bambini, i quali avevano largamente partecipato alla cernita, sentivano i rimbrotti degli adulti con: “Hai visto quante castagne hai sprecato, non facendo attenzione ’a sièrni”.

Inutile (anche se vera al cinquanta per cento) la giustificazione: “Ma anche “li pocèl” scoppiano!”:

Li pocèl” sono castagne senza “anima” o frutto, solo con buccia, a tenuta stagna in quanto non bacate e “veramente scoppiettano”.

Era un modo “benevolo” per insegnare quanto avrebbe potuto essere (o lo era) dura la vita e che “tuj li pòch o fònt lo pro” (tutto il poco, riunito, riesce a fare il sufficiente).

Chi non si poteva permettere molta legna (e Pugnetto ne era veramente scarsa – i ricchi di legna erano quelli che “trasnsumavano” verso “il Calcante”, “Cian ‘d l’Oca”, “La Piènci”…) teneva i ricci per accendere la stufa (in ghisa per chi poteva, oppure in pietra – fatta in casa – formata da quattro pietre ai lati, una base ed un’altra pietra a mo’ di coperchio, con il posto per “lo pèiru”, tutto sempre in pietra, tenuti insieme da un pezzo di ferro o, anche solo di cemento); si prendeva una manciata di foglie secche di castagno ed un po’ di ricci ed il fuoco brillava!

Quando la stufa non serviva per far bollire alimenti o riscaldare le bevande agli animali ma solo “per rompere l’aria”, si riempiva la stessa (solo quella di pietra) di ricci, si pressavano e si teneva così l’ambiente (di regola la stalla) tiepido per tutto il giorno.

Le castagne venivano consumate facendole bollire “ên tòo pèiru” (paiolo) di rame, sulla stufa, appena coperte di acqua, per non sprecare combustibile (e poi, se non galleggiano, cuociono prima), sbucciate e mangiate così.

Si poneva il paiolo a terra e tutti, seduti intorno, le pelavano e mangiavano.

Per i più piccoli, senza coltello, provvedevano “i grandi”: una a me ed una a te!”.

Venivano pure usate per la minestra, sbucciandole ed immergendole, a freddo, in acqua salata ed un po’ di latte scremato.

A bollitura si aggiungeva riso (se c’era), pasta, o, per i più poveri, un pugno di farina ed una “nocciola” (veramente tale) di burro.

Con le dovute correzioni (più latte e più burro e solo riso) è, tuttora, una tentazione!

Si facevano anche essicare, nei solai, solleticandole ogni tanto con le mani per rimuoverle; servivano per minestre e, per chi aveva fame, anche crude!

Sono molto buone!

Non si parlava di castagne abbrustolite (era uno spreco) in quanto una parte scoppiettava, una parte rimaneva aderente alla corteccia, un’altra era semicruda e … la necessità era tanta!

La tentazione dei bambini era di mordere le castagne cotte (mai, comunque, abbrustolite) senza pelarle e l’immancabile ordine (eseguito alla lettera) era: “Scacèla gnênt êl còchê” (non sgusciarescacèla è intraducibile – le castagne).

E, poi, lo spreco era un’offesa a quanto il buon DIO ci concedeva!

Il paiolo di cottura, ribollendo “borbottava” ed ai brontoloni o ad un anziano che faceva “la paternale” si soleva dire di rimando: “T’è cazi mè ên pèiru ‘d còchê” (sei quasi come un paiolo di castagne).

Le castagne, poi, e questo quasi nessuno lo sa, sono un forte astringente e regolatore intestinale.

Ai bambini, con dissenteria veniva prescritto (dai saggi che allora c’erano ed erano anche ascoltati): “‘d deuo donali ‘d còchê blinà” (devi dargli delle castagne “pulite” dalla buccia e dalla seconda pelle).

Forse, si dirà, è solo un palliativo ma ho sperimentato di persona il loro potere astringente: non naturalmente dopo un pastoPugnetto “pantagruelico” ma come “portata unica” di una “cena”.

Ed ora dopo questa “lunga panoramica” sul “nostro vecchio vivere”, relativa anche a quanto rimane (e viene usato) dalle piante di castagno (escluso quanto concerne il legname da costruzione del quale poco saprei esporre) e che non sarei in grado inserire in altro contesto riporto il pensiero alle nostre “piante”.

Esistono da noi (salvo casi di piantagioni specifiche e solo in parchi privati) solo due tipi di “castagni”: “lê bosciasê” e “li coà”, oltre, naturalmente, i già nominati “bosciàs” (non produttivi).

I frutti delle “bosciasê” sono quasi sempre contenute nei ricci in quantita di tre: le due laterali più “pompose” ai lati esterni e quella centrale appiattita in entrambi i lati in quanto “le sorelle” hanno cercato “farsi largo!”.

Sono di un colore marrone scuro, la pianta produce pochissimi frutti “fòl” (o vuoti o con “pocèl”) che crescono solo nei primi anni di vita dei polloni che “nascono” laterali al tronco ed anche alla base della pianta madre.

I frutti “’d lê bosciasê” sono i primi a giungere a maturazione.

La pianta può essere molto alta e longeva.

Li gìt” (i polloni del tronco) sempre copiosi e che permettono alla pianta, invecchiando, di rigenerarsi, producono, quasi subito “aris” senza frutto e con gli anni riprendono la produzione della pianta madre i cui ricci sono di un colore verde-giallastro.

Li coà” hanno frutti ancora più saporiti, un po’ più piccoli, maturano una decina di giorni dopo “lê bosciasê“, difficilmente (solo nelle piante più curate) ci sono tre frutti nello stesso riccio (solo due): uno è solo buccia.

Le castagne sono quasi rosse (amaranto vivo).

La pianta è molto bella, non alta ma con fronde laterali che vanno quasi al suolo: sembrano un imponente ombrello appoggiato a terra.

Sono molto delicate: andrebbero sempre liberate dai rami secchi – anche le altre ma loro ne soffrono di più – , mai dovrebbero essere tagliati i rami verdi (si offende!).

PugnettoAma, questo imponente e, pur, etereo, castagno il terreno umido ma non stagnante, con esposizione non “in pieno sole”, ama il prato sottostante ben tagliato (non con i tosaerba ma, magari liberato da animali al pascolo), le voluttuose fronde proteggono (sempre con prato curato) i funghi “bolaj reàl” che crescono idealmente sotto quell’amena ombra.

Da tutto ciò la scarsita di tale tipo di albero!

Ce ne sono due (non curati, purtroppo, ma ancora bellissimi) nel prato della località Precastòt, in basso verso “lo fon dòo prà”.

Se ne trovavano alcuni anche nel “tenimento” “Le Combe”, ma, quando, nel 1948 circa, il Comune di Pessinetto, proprietario della “tenuta” vendette tutta la “boscrinà” (tutte le piante) anch’esse furono abbattute.

Le piante di castagno innestate, nella proprietà “Le Combe”, superavano, allora, di gran lunga, la cinquantina e, tutte, molto “datate”.

Chi aveva la fortuna di possedere “en coà” alla raccolta dei ricci provvedeva ad una dislocazione diversa dagli altri, per la macerazione.

Le castagne, poi, venivano tenute a parte e curate di più (fatte asciugare con più cura) in quanto più difficili da conservare.

Vedere, dopo le fatiche (e le cure in quanto ci sarà pur stato qualcuno che pensando solo ai “posteri” le avrà “piantate” sapendo “di seminare ma di non raccogliere”) dei nostri “Padri”, tanta “grazia di Dio” sprecata, è molto triste!

La cultura (e coltura) delle castagne, esclusa qualche sporadica “sagra” da noi è “cancellata”!

E’ desolante vedere, attualmente, lo stato di fatto, sotto i “castagni”.

Alpini PugnettoRivolgo, ora, lo sguardo, con rispetto affettuoso, alle fronde, in un mormorio di scusa! Quanto dispregio ad un “prodotto” che anche solo ai tempi della Prima Guerra Mondiale, ed ancora poi, ha permesso, a chi le possedeva, di tacitare agevolmente … le proteste dello stomaco!

Il paragone del rispetto della natura mi ritrova agli Indiani d’America nei confronti dei bisonti: le castagne vengono raccolte dai “profani” schiacciando (prendendo a calci) con i piedi il riccio (ne vedo un inconscio sprezzo), raccogliendo, a malapena, due dei tre frutti, vengono poi malamente bruciacchiate, cosa che non solo non ne esalta il sapore ma lo annulla e lasciando ai piedi dei “castagnetì” i ricci, impietosamente e, desolatamente, semivuoti.

Civiltà?

Non vorrei, e non auguro, ma ripenso all’ultimo verso di una poesia del Generale Mac Arthur, scritta nel 1945:

Se un giorno,

il vostro cuore fosse morso dal pessimismo

e roso dal cinismo

possa Dio aver pietà della Vostra anima di vecchi!“.

Speriamo DIO abbia pietà del nostro “inconsulto” TROPPO!


Tratto da: “A l’ombra ‘d CALCANT” (all’ombra del Calcante)

A cura di Maddalena Vottero-Prina e la collaborazione del Gruppo A.N.A. di Pugnetto.

Beppeley

10 pensieri riguardo “La raccolta d’lê còchê

  1. Interessantissimo. Ripenso alle “sapienze” che si perdono e che sono nascoste dietro ad ogni gesto, oggetto, procedimento, di fronte al quale siamo inconsapevoli (se va bene..) o indifferenti (se decidiamo di non vedere). Ripenso ai pastori di cui ci racconta marzia, ma anche ai mille procedimenti che stanno dietro ad una carta di cioccolatino. Se siamo così “bravi” a studiare e piegare la “materia” al nostro volere e potere, perché siamo così indifferenti allo spreco di risorse ed alla mala gestione di quel che ci circonda? é un problema di abbondanza, di ignoranza, di indifferenza?

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  2. gpcastellano: è il paradigma della nostra epoca: consumare per creare ricchezza. Crediamo solo più al consumo e alla tecnica. Tutto, prima o poi, verrà risolto grazie ai nostri consumi e alla meraviglie della tecnologia. Manca solo un aspetto, in mezzo a tutto ciò: è che noi siamo schiavi sia del consumo che della tecnica. Non ce ne rendiamo conto. Siamo come dei drogati. Non ci accorgiamo più di nulla, neanche del fatto che ci stiamo uccidendo con le nostre stesse mani. Non immagini quante volte mi sono vergognato mentre ascoltavo i racconti come quelli di Maddalena Vottero-Prina. Il loro rispetto per la natura è qualcosa che noi cittadini non possiamo capire. La loro vita era “immersa” quotidianamente nella natura: terra, acqua, animali, vento, neve… La nostra invece, almeno quella che io vivo in città, è immersa nel cemento, nell’asfalto, nell’aria velenosa, nella sporcizia, nei rumori assordanti… Domanda: “Ma Dio ci ha creati per vivere in questo mondo?”. La natura, ci ha “programmato” per una vità così?

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  3. Io continuo a pensare che non sia vero che un tempo si rispettasse la natura più di oggi. Sono solo cambiati i numeri dello sviluppo.
    Esempio:
    FORESTE: rasate a zero. Tutta la legge forestale vigente (la prima nazionale del 1877 che segue numerosi editti locali) è basata sul vincolo, proprio perchè un tempo non c’era alcun rispetto del bosco ma si portava via tutto. Togliere i rami dal bosco affinchè sia “pulito” è un segno di rispetto verso la natura?? Tutti, specie in montagna, dicono di sì “Come si faceva una volta!!” ma ecologicamente non è affatto vero.
    TERRITORIO: cerca foto delle vecchie alluvioni. Rispetto a oggi non cambia nulla. I paesi sono sempre stati fatti sui conoidi, i versanti disboscati. Ci sono luoghi in cui è incredibile pensare che la piena vi sia arrivata, ma ci sono le testimonianze. E allora nascono i grandi rimboschimenti dell’ 800, poi quelli del fascio, fino agli ultimi del dopoguerra (situazioni diverse…)
    PROPRIETA’: ho fatto un post sul problema del frazionamento fondiario, risultato dell’egoismo degli avi.

    Ecc ecc ecc…

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  4. Non penso che era meglio una volta ed e’ peggio oggi: di ogni periodo bisognerebbe “catturare” il positivo e raccontarlo, tramandarlo.
    Cio’ che mi fa riflettere, ieri rispetto ad oggi, e’ che non c’era un consumismo dilagante e se si “pulivano” i boschi e se si faceva “razzia” di animali selvatici in ogni periodo, era per fame…

    Serpillo

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  5. serpillo: anche io la penso come te, quando sostieni che un tempo se si "consumava" il territorio era solo per la sopravvivenza di una civiltà che non si poteva di certo considerare opulenta (come è definita la nostra) e dove era bandito lo spreco. Sprecare era come un’offesa a Dio, come una grave bestemmia. Se si disboscavano intensamente i pendii montani era per soddisfare dei bisogni primari (il "riscaldamento" per esempio…), non di certo per comprarsi il SUV.
    A proposito di riscaldamento… una carissima signora, abitante della Val d’Ala, attualmente va a dormire, in inverno, con 8 gradi in camera da letto. In molti condomini, come succede puntualmente ogni anno a Torino, la temperatura in inverno arriva tranquillamente anche a 26 gradi (!). Questo è solo consumismo. Non c’entra più il soddisfacimento di un bisogno primario. I 18 gradi che separano il sottoscritto cittadino dalla signora "montagnina" cosa rappresentano in termini di costi (anche ambientali, ovviamente) e di sperpero delle risorse? Non è difficile sentire parlare, rimandendo in ambito montano, di valligiani che si alzavano alla mattina, solo qualche decennio fa, con il risvolto delle lenzuola semi ghiacciato. Ma non si ricordano di bronchiti.
    No, JohnDeere, non tentare improbabili paragoni con la nostra epoca, definita, giustamente, dagli economisti, opulenta e quella dei montanari. Loro almeno non dovevano temere di vergognarsi di vedere in tv bambini che fanno 5 chilometri per potersi abbeverare, mentre noi oggi ci permettiamo acquedotti che sprecano il 40% dell’acqua potabile. E allora, come non condividere il pensiero di Annibale Salsa quando ci parla del male morale generato dagli uomini? Quella montanara è stata una grande civiltà, che noi avevamo a poche decine di chilometri di distatnza e a cui non è stato permesso di tramandare quasi nulla. Non ci hanno lasciato niente, lo vediamo tristemente tutti i giorni, sotto i nostri occhi. Un vero peccato, perché certi saperi si sedimentano con i secoli, non di certo con i decenni. Noi, invece, abbiamo la pretesa di sapere tutto. Dov’è la saggezza dei "vecchi" ? Dov’è l’umiltà?
    "Chiunque senta un giorno di primavera sulle piante selvagge, l’odore moroso dei fiori di castagno, comprenderà bene quanto conti, quanto sia importante, fiorire spesso, amare sempre."
    Jean Giono

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  6. Caro Beppeley, non voglio certo fare paragoni tra ieri e oggi. Non ho infatti detto “meglio oggi di ieri!”.
    Sono solo perplesso quando dici che quella montanara “E’ stata una grande civiltà”. Non ne vedo i segni. Certo oggi vediamo muretti a secco che crollano, prati invasi dai boschi. C’era un vissuto e c’è un abbandono. Sono il primo a scrivere un blog sull’importanza dell’uomo in montagna (a fronte di chi vorrebbe la montagna un grande parco naturale), ma di lì a creare il mito del montanaro secondo me ce ne passa.

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  7. Chissa’ se il film di Gastinelli che si svolge nelle valli del Kye’ e narra del castagno attraverso le esperienze di uomini e donne e’ simile a questo racconto?
    Qualcuno l’ha visto?

    Serpillo

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  8. serpillo: ecco il film di Sandro Gastinelli.

    A l’Avirun ed l’Aibu

    Nelle valli del Kyè, la zona montana del Monregalese, così come in tutto il resto del sud-Piemonte, sulle Alpi Occidentali, il castagno ha rappresentato per secoli l’elemento essenziale di sopravvivenza tanto che oggi, parlando di quel lungo periodo di tempo, lo si definisce come “civiltà del castagno”.

    Uomini e donne di una certa età hanno ancora ben presente cosa abbia voluto dire vivere quel periodo. E il film narra proprio di loro, attraverso i loro sguardi, le loro parole, la loro emozionata ed emozionante passione. Storie di vita, di lavoro, di fatica, ma anche improvvisi squarci di serena allegrezza e di autentica armonia.

    Una memoria, un modo di condursi sulla terra che, nonostante l’apparente pessimismo degli anziani, ha lasciato qualcosa nelle nuove generazioni: c’è chi sta pensando di poter tornare a vivere, e qualcuno ci è già riuscito, “A l’avirun ed l’aibu”: intorno al castagno.

    I protagonisti parlano in italiano e nelle varianti del “Kyè”, appartenente al ceppo linguistico provenzale alpino.

    I sottotitoli sulle parti in “Kyè” sono in italiano

    http://www.sandrogastinelli.it/i_miei_film/montagna/avirun_aibu.php

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