Nick mano fredda n° 1 – 2001

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Nick mano fredda
Fare Cinema in Romagna
Sommario n° 1 – 2001
Anno secondo

Caro Paul,
dal piccolo territorio che sta tra il mare e le colline, da dove ti giungono queste cronache, siamo felici di annunciarti che il nostro secondo film Tizca. Gli uccelli dipinti del Caucaso, che ti arriverà con questo numero, incontrerà finalmente il suo pubblico. C’è voluto molto tempo e molta pazienza perché questo accadesse ma come diresti tu con un’alzata di spalle: “Normale, è risaputo che i film fatti col cuore fanno fatica a vedere la luce”.
Ancora una volta tutto è bene quel che finisce bene, quindi: ciao Paul, la risata di Nick illumina i nostri volti assieme all’affetto che ti portiamo,
la VACA

Uomini & muli
Capitoli di una storia d’ordinaria… censura.

Cap.1. Il Sindaco di Russi.
Russi è un piccolo comune simbolicamente centro della Romagna da quando ha dato i natali all’accoppiata risorgimentale Farini & Baccarini (sia detto per inciso: fu l’appassionato discorso di Farini, al Senato del Regno, contro la militarizzazione della Romagna a rendere per sempre cara, al cuore dei vecchi Romagnoli questa cittadina). Lì c’è un sindaco più testardo della più testarda delle bestie che s’è giocato (e ha vinto) il tutto per tutto su due progetti tanto vistosi quanto capaci di annullare tutto il resto: realizzare il sottopassaggio alla ferrovia di dimensioni tali che potessero passarci i TIR e riaprire il Teatro Comunale. Lo hanno rieletto con una maggioranza come suol dirsi bulgara, si vede che i suoi concittadini sono della stessa pasta. Noi siamo suoi concittadini. Una parte di noi VACA lo è di fatto, gli altri per elezione visto che qui abbiamo voluto la sede della nostra associazione culturale.

Cap. 2. Elogio del mulo.
Un barese, di statura piccola e di sguardo severissimo, che faceva il professore di matematica in una delle più rinomate scuole italiane dei primi anni sessanta e giocava con le equazioni di terzo grado, coi sistemi e con roba del genere con la stessa fulminea velocità e leggiadria con cui i suoi allievi solitamente giocavano a biliardo, aveva spiegato un giorno, ad un allibito genitore, che il figliolo era solo un cavallo. Troppo poco per essere sufficiente in matematica. Per la matematica, aveva sentenziato, ci vuole un mulo! Il genitore più che confuso friggeva d’indignazione ma il prof non diede segno d’accorgersene e proseguì impavido nella sua dimostrazione: ” Voglio dire che per fare bene della matematica ci vuole la testardaggine del mulo, questo come base e poi l’uomo su questa base supera la bestia con la luce della sua intelligenza; ergo bisogna essere più testardi della bestia e questo di più lo mette l’intelligenza umana. Suo figlio invece è solo un cavallo, fa una galoppata poi si ferma. Una trottatina poi si ferma. O diventa un mulo o lo boccio!” Il padre guardò il figlio con aria afflitta, di professione era un allevatore di cavalli, questo il professore non poteva saperlo e quel che aveva sentito era poco più poco meno di una bestemmia. Usciti dal colloquio andarono al bar. Il figlio attese più che preoccupato che il padre rompesse il silenzio da cui non era più uscito dopo la stretta di mano con il docente. Probabilmente c’è qualcosa negli umani con esperienza della vita, (s’intenda: coloro che riflettono su quel che gli capita nella vita), che li rende capaci di intuire, pare quasi senza avvedersene, che un gesto, una parola possono cambiare a volte un destino e ciò li fa guardinghi e misurati. Quel che successe lì, in quel bar, ne è la dimostrazione emblematica; il padre guardò ben bene in faccia il figlio prima di dirgli: Va là che clu chi le u-n t’à miga inc—ra cnunsù ben(su andiamo che quello lì non ti ancora conosciuto bene!) e s’incamminò sorridendo e sicuro del fatto suo. Il figlio infatti fu promosso anche in matematica.

Cap. 3. I muli della VACA vanno al Ministero… c’è un piccolo problema.
La mattina di giovedì 5 ottobre 2000, previo appuntamento, alle ore 11.30 due delegati della VACA entrano nella stanza della dirigente l’Ufficio visti di circolazione per i film, volgarmente Ufficio visto censura: c’è un piccolo problema. La VACA ha scritto diretto e prodotto un film in digitale, Tizca, gli uccelli dipinti del Caucaso, e ora lo vuole proiettare in pubblico… con lo stesso sistema, vale a dire senza trasportarlo in pellicola. Le nuove tecnologie lo consentono. Ma… per proiettare un film in pubblico, in Italia, ci vuole un visto di circolazione. La legge che disciplina la concessione del “visto”, a sentire alcuni, pare richieda assolutamente la pellicola. Già! La legge è del 1962! A quanto pare non siamo affatto i primi che cercano di presentare un film non su pellicola, anzi c’è una ricca tradizione alle spalle, con nomi illustri, che hanno dovuto desistere di fronte al diniego da parte della commissione competente ad esaminare film “in cassetta” (i casi precedenti riguardavano infatti VHS, cassette Beta,ecc.). Con molto tatto e molta disponibilità veniamo invitati a fare una copia, magari videografata (passaggio in pellicola a basso costo) ma a non scornarci nell’insistere e se proprio vogliamo insistere allora bisogna rivolgersi al ministro perché faccia tutto l’iter per cambiare la legge. Azidénti! Però verificare questa legge non guasta. Così il colloquio di quella mattina si chiude tra il rammarico di dirigenti e tecnici e la nostra dipartita dal Ministero con copia della legge fornitaci con gentilezza.

Cap. 4. Romagna: stupore e meraviglia.
Ripartiamo da Roma e se già nei corridoi prima e in ascensore poi ci eravamo messi a spulciare la legge, figuriamoci in macchina. La leggiamo e rileggiamo e continuiamo a farlo una volta giunti a Russi. Azidénti dò volt! (Accidenti due volte). La parola pellicola in quel benedetto testo di legge non compare mai, dico mai! Questo però potrebbe non voler dire proprio niente (anche se è un buon indizio), poiché ad ogni legge fanno seguito declaratorie (?), disposizioni e tutto un armamentario in cui qualsiasi povero suddito inciampa e… velleitariamente muore. E’ qui che ci soccorre un amico romagnolo di vecchia data che sta a Roma e di professione fa le leggi. Le fa proprio nel senso che è di quelli che si mettono lì assieme al parlamentare e stendono il testo; insomma un tecnico e anche di quelli più inferociti contro l’incompetenza di certi suoi colleghi in questa delicata materia. Informarlo del tutto, dargli gli estremi e aspettare il suo responso è stato un unico lasso di tempo. E il responso era musica per noi; da nessuna parte si faceva obbligo della pellicola, c’era solo un punto, in una disposizione, dove si parlava di tassa da pagare a seconda del metraggio ma la tassa del metraggio era stata abolita da anni! Che fare?

Cap. 5. Il senatore Luigi Manconi.
Il fatto che i Verdi e la sinistra in generale abbiano pensato di poter fare a meno del sen. Manconi è un indizio certo di qualcosa che non va nel meccanismo di scelta dei candidati. Lo diciamo con cognizione di causa poiché Luigi Manconi, che all’epoca di questi fatti era ancora senatore, s’è presa la briga di andare a parlare di questa questione proprio col ministro (oddio, è vero che il ministro era la signora Melandri e che mezza Italia si sarebbe messa in fila per andare a conferire con lei) ma è anche vero che Manconi aveva un appuntamento per altre storie e che questa faccenda del digitale ci stava come il classico cavolo a merenda e ci risulta che la Melandri sia letteralmente sobbalzata quando ha saputo tutta la storia e abbia deciso di passare seduta stante il problema al dott. Forlenza capo di gabinetto.

Cap. 6. Il dr. Forlenza.
Noi non l’abbiamo mai conosciuto personalmente ma certo quelle due pagine dove, con la competenza del magistrato, sfrugola la legge & relativi derivati per dichiarare che non c’è proprio nessun impedimento a che le commissioni di censura vistino i film anche se non sono su pellicola, dopo averle lette e rilette non le dimenticheremo tanto facilmente.

Cap. 7. Il direttore della Banca del Credito Cooperativo a Russi.
Il direttore del Credito Cooperativo di Russi prima o poi verrà immortalato dalla VACA in un film. Non possiamo farne a meno perché di figure così sode, determinate e pratiche, per adesso se ne vedono solo nei film americani. Ogni volta che ci convoca per il rinnovo dei “fidi” (banalmente le disponibilità di prestito a cui puoi attingere, a determinate condizioni presso la banca) si sobbarca una paurosa marea di storie… cinematografiche e con composta fermezza termina il colloquio chiedendoci di mettere per iscritto – in modo sintetico -, le nostre vicende, possibilmente comparandole con termini economici del tipo: investimento, rendimento, tempi di rientro e altre frivolezze. Ogni volta che invadiamo il suo ufficio abbiamo l’impressione di essere una comitiva di simpatici alieni che per un attimo lo distolgono dalle sudate carte a cui però prima o poi bisogna fare ritorno. Insomma è come uno dei tanti padri che di questi tempi non capiscono bene cosa fanno i figli ma si affidano al fatto che lo fanno con tanta buona volontà e tanta convinzione che può pure darsi che abbiano imbroccato la strada giusta.

Cap. 8. Il tempo passa… ma è galantuomo.
7 marzo 2001. Il sen. Manconi ci riceve nel suo ufficio al Senato. I soliti due, a nome della VACA tutta, sono lì a dirgli che nonostante tutti i buoni propositi non si muove una foglia.
6 aprile 2001. Blitz al Ministero. Siamo decisi a consegnare la cassetta perché sappiamo che hanno ricevuto i chiarimenti del dott. Forlenza ma qui ci accolgono a muso duro. L’addetto al ricevimento, di solito cortese e disponibile, ci guarda in cagnesco prima di sbottare: “Del fax del dott. Forlenza io non me ne faccio proprio niente! Voi mi dovete portare un foglio scritto firmato dal responsabile dove si dichiara che posso accettare cassette, altrimenti valgono le precise disposizioni che ho in materia” (cioè niente ricevimento di film che non siano su pellicola).
31 maggio. Il film è stato accettato al Festival di Bellaria nella sezione fuori concorso. E’ una buona notizia.
5 giugno. Telefonata al Ministero e di lì la grande nuova: si consegni la cassetta. Pensiamo sia fatta: illusi!
11 giugno lunedì. Al Ministero con cassetta e documentazione. Prova video per il controllo titoli di testa e titoli di coda: 1 minuto e siamo fottuti. Secondo l’addetto al ricevimento dai titoli di testa non si capisce bene chi abbia prodotto il film! Poi manca – nessuno ovviamente ce l’ha detto -, la dicitura “Copia per Il Ministero dei Beni Culturali,ecc”.
13 giugno mercoledì. Alle 10 del mattino siamo in pole-position, superiamo l’esame finestra e saliamo agli uffici superiori per consegnare le carte. Ci sono altri problemini ma alla fine il tutto è consegnato. Ora non resta che aspettare di essere convocati per la proiezione, poiché il Ministero non ha l’attrezzatura per visionare il film e quindi noi da Ravenna dobbiamo portare giù il tutto, allestire la proiezione e uscire dalla sala perché la commissione possa guardare il film indisturbata.
5 luglio, giovedì pomeriggio. Arriviamo a Roma con il doppio di tutto il necessario, compreso le casse per l’audio che si riveleranno subito indispensabili. L’Ottava Commissione visiona il film e lo dichiara “per tutti”. Sono passati 9 mesi esatti ma è fatta. Per la prima volta in Italia un lungometraggio ha avuto il visto di circolazione pur non essendo su pellicola. In settembre iniziano le proiezioni al pubblico al Teatro Comunale di Russi. Un tempo ci fu una canzone famosa che iniziava così: “Torna a settembre…”, bene, arieccoci!

INTERVISTA (a cuore aperto) a Paola Amadesi
a cura di W.P.

“Per me non esiste definire quello che faccio io cinema”.

W. Paola Amadesi e il suo modo di fare cinema.
P. Per me non esiste definire quello che faccio io cinema poiché prima di tutto è divertimento. Secondo: divertimento/affiatamento con chi lo fa con me. La prima cosa da cui partire è assolutamente il mezzo, l’espressione. Primariamente io uso la scrittura, anche se non sono schiava della penna, oppure oggi della tastiera: per me la scrittura è – in assoluto – il mio mezzo espressivo primo, da quando ero ragazzina. Ho scritto anche romanzi, sono lì, ponderosi.
W.Il tuo rapporto con il linguaggio cinema, la fattura cinema…
P. Prendo Pasolini come esempio -lungi da me paragonarmi a lui-, Pasolini usava sia la scrittura sia l’immagine come media espressivi; non è cinema quello di Pasolini: lo diventa in un secondo momento. Per me vale lo stesso discorso, e non è un paragone. Mi viene in mente un’idea, come la realizzo? Scrivendo o per immagini? Se la realizzo con l’immagine, dopo, forse diventa cinema, dopo, non a priori quando è ancora embrionale e la stai pensando.
W. Io ti avevo telefonato dopo aver visto Le more (1996) e ti avevo chiesto come mai l’avevi fatto in quel modo e tu mi avevi detto che non t’interessava niente il “modo”.
P. Non m’interessa il montaggio, la ripresa
W. E questo non tradisce l’idea che volevi esprimere?
P. La tradisce necessariamente e obbligatoriamente, prima di tutto perché non ho mai i mezzi che vorrei, perciò quando non hai i mezzi che vorresti è ovvio che tu t’immagini una certa cosa – non dico un kolossal- poi il mezzo ti costringe a tornare indietro ed adattarti. A Poor devil che è uno dei pochi girati in pellicola – super otto!-, tre minuti, mi rende molto meglio rispetto al video, questo è fuori discussione, il video offre altre cose però Ribadisco: non me ne frega niente di come faccio le cose. Io faccio le cose con un bisogno che devo seguire, poi spesso c’è questo “gap” tra quello che avevo pensato e quello che è venuto fuori. E mi devo accontentare quasi regolarmente mentre ci sono delle cose che sono venute esattamente come le volevo io vedi A Poor devil.
W. Io ho visto solo Le more, parlami della tua produzione in generale.
P. Ne ho fatti tanti! Aida (1995), videoclip tratto da una canzone di Rino Gaetano vinse la rassegna Massenzio a Roma. Ho fatto molti videoclip: Le more non è altro che un videoclip lungo. Il videoclip sia musicale che non musicale, il video di tre minuti insomma, è in assoluto la scelta che mi dà molta più soddisfazione perché in tre minuti riesci a dire tutto quello che vuoi pur stando sempre a lottare con i mezzi che hai, questo inevitabilmente, però per me è di un’immediatezza che mi piace molto.
W. Non sei patita del lungo, mi pare.
P. No. Io trovo che “registicamente” parlando quando un film supera un tot di minuti diventa superfluo, come un citarsi addosso, a meno che non sia un kolossal dove tu non vai al cinema per ricevere un messaggio ma vai per guardare, tipo Il gladiatore non è che ti dà un messaggio, a parte che ho visto dei finimenti sui cavalli che non potevano esistere (scoppio di risa). Quello che penso essenzialmente è questo: 1°) il budget deve essere limitatissimo altrimenti non c’è gusto: io faccio un videoclip con centomila lire, assolutamente deve essere così. 2) Dobbiamo essere veramente un “team” e, a partire da quando viene fuori un’idea – di solito viene fuori in un contesto gastronomico, mangereccio -, quest’idea dev’essere assolutamente sviluppata assieme. Io poi sono quella che torna a casa e scrive e butta giù un minimo di traccia da seguire, proprio un minimo. Tutto questo divertendoci, senza fare sacrifici, senza brutture, senza stress e di solito quello che viene fuori è quantomeno qualcosa che ha come messaggio: Ch’as avessom d’anghè Mo as divartessom. (da Stecchetti: rischiammo d’annegare ma ci divertimmo). In fin dei conti questi corti che ho realizzato dal 1995 sino adesso hanno girato tutta Italia, basta guardare i cataloghi di cinema indipendente. Quando mi arrivano i cataloghi o mi dicono che il tal corto mio è stato selezionato io dico: ma cosa stai dicendo, stento a crederci. Quali sono i parametri, mi chiedo? (Paola cita premi e menzioni, vedi biofilmografia in fine all’intervista). Questo dimostra -premi e menzioni- che la gente che vede l’immagine deve sempre, necessariamente, trovare un messaggio: secondo me è una cosa lampante o forse è l’idea che conta. Me lo sono chiesta tante volte. Forse non è il mezzo ma l’idea. O forse è il montaggio: manca l’idea, manca il mezzo poi quando vai in montaggio viene fuori qualcosa.
W. La tua produzione più costosa qual’è stata? Le more?
P. Le more Io allora ero sposata e lo sponsorizzò il mio ex-marito e costò due milioni, comprese le spese vive, voglio dire le piadine, le bibite (risate) compresa la nafta per spostarci. Con un anno di lavorazione perché ci vedevamo solo il sabato e la domenicaPoi una settimana di montaggio.
W. Il montaggio con chi lo fai?
P. Un amico carissimo, Vladimiro Zambelli che è un grande! Senza il quale io non farei niente! Abbiamo cominciato nel 1984 facendo una parodia ai Duran Duran. Il video che girammo presentava infatti le Dureran Dureran? Alla loro prima apparizione
W. Scusa, quanti anni hai?
P. 37 a luglio.
W. Quindi tu non hai sogni cinematografici nel cassetto?
P. No.
W. Di scrittura invece?
P. Sì. Tanti. Infatti adesso devo fare un lavoro che sembra buono ma che non dico per scaramanzia.
W. Nella scrittura c’è anche la sceneggiatura
P. No, no non nei miei sogni. La sceneggiatura non la so fare: io faccio dei romanzi! Se tu leggi una mia sceneggiatura ridi quattro anni. Però debbo dire che il mio grande amico e Pigmalione Massimo Troisi, da due miei romanzi voleva fare due film. Massimo, che io contattai inviandogli un romanzo all’indirizzo sbagliato ma che lui trovò lo stesso e lesse e di lì nacque una grande amicizia, mi chiamò a casa sua chiedendomi di aiutarlo nella sceneggiatura, ma non fu possibile per questioni di tempo, viste come sono andate purtroppo le cose Io faccio degli script ma poi è il team che ce la mette tutta: Daniele Morini (molto meglio di Russel Crowe !!!) Rossella Rabitti che è la musa, Paolo Spada, l’amico di Brisighella che è il Ninetto Davoli della situazione, nonché Vladimiro. Adesso sto coinvolgendo Attila che è un altro brisighellese doc. Stiamo preparando una rivisitazione del Don Chisciotte in chiave brisighellese con tanto di stalloni, asini
W. Budget?
P. Non ne parliamo neanche centomila lire una volta ho spallato, centocinqantamila, non deve succedere più.
W. Degli altri che fanno cinema in Romagna sai niente? Sei in contatto?
P. Conosco quelli della Palazzina di Imola e pochi altri. Io sono troisiana in questo, ho una pigrizia congenita per queste cose di contatto o confronto, che davvero non mi interessano. Questo, forse, perché sono napoletana “d’adozione”. Ho avuto in eredità da Massimo la sua meravigliosa tribù di fratelli e sorelle, quindi faccio parte ufficialmente della tribù di San Giorgio a Cremano e questo da anni. La mia città è questa perché senza la Romagna non ci posso stare ma la mia seconda città è Napoli. Quindi da buona napoletana sono pigra ma da buona napoletana sono anche iperattiva perché a Napoli è così: pigrizia e iperattività. Quindi non ho veramente il tempo di seguire altre cose.
W. Soddisfazioni con la tua attività di scrittrice?
P. Sono collaboratrice di “Cavallo Magazine” e questo mi rende molto fiera: sono 30 anni che vado a cavallo e li amo molto, quindi scrivere di cavalli per me è il massimo.
W. Il Don Chisciotte
P. Ci penso spesso sarà una cosa patetica, assolutamente patetica. Io sono Don Chisciotte
W. Don Chisciotte va a vedere un film, cosa succede?
P. Non posso andare al cinema a vedere un film in mezzo alla gente: debbo assolutamente vedermelo da sola, poi posso andare al cinema. Tenevo una pagina sul cinema, su “Fred”, ma odio l’accademismo. Parlavo delle mie emozioni e ho avuto la gioia di sentirmi dire da gente che incontravo, che era andata a vedere quel film perché aveva letto la mia scheda. I film che io amo – ho 600 titoli archiviati nella mia videoteca- debbo vederli e rivederli anche più volte una stessa scena. Il cinema è immagine: io amo l’immagine.

Paola Amadesi
Ravenna il 23 Luglio 1964, laureata D. A. M. S. con una tesi in filosofia estetica dal titolo Il Malessere, la Risata. Viaggio all’interno della poetica di Massimo Troisi. Iscritta al quarto anno di Filosofia indirizzo estetico presso l’ateneo di Bologna.
-Aida (1995), videoclip sceneggiato sull’omonima canzone di Rino Gaetano. La solitaria esistenza di una donna è costellata dai ricordi di gioventù e del marito morto. Ha vinto la rassegna Massenzio a Roma nell’Agosto 1995.
-Mio fratello è figlio unico (1995), sceneggiatura da Rino Gaetano. E’ la storia di due fratelli incompatibili caratterialmente ed ideologicamente ambientata nell’Italia degli anni di piombo. Ha avuto la menzione speciale al Festival del Cinema Indipendente di Arezzo nel Febbraio 1996.
-Il tempo di morire (1996), libera rilettura della Carmen di Bizet al maschile. Carmen, qui, è uno spacciatore di droga unito ad un killer professionista, Don Josè.. Tra i due s’intromette Escamillo, giovane imprenditore. Tra i tre uomini un’unica donna, che assiste impotente al duplice omicidio commesso da Don Josè per gelosia. Presente a spazio aperto in seno al Festival del Cinema Indipendente di Bellaria Maggio 1996.
-Soul Man (1996), girato con telecamera a spalla e quasi totalmente privo di montaggio, racconta uno stupro che avviene di notte sotto gli occhi di due indifferenti giovani amanti. Presente alla rassegna di Fano Video Festival nell’Ottobre 1996.
-Il Teatro Socjale di Piangipane (1996), documentario realizzato in più serata al glorioso Teatro Socjale di Piangipane. Musica, interviste e chiacchiere. Ha fatto parte della manifestazione romana Jazz and Image, dopo avere passato una selezione di più di 150 lavori a tema musicale provenienti da ogni parte del mondo.
-Il Grido del Cuore (1996), realizzato con cinepresa Super 8 e telecamera Super VHS. Un viandante s’aggira sugli ultimi luoghi pasoliniani a Roma, seguito da una ragazza sconosciuta che getta un urlo sgorgante dal cuore e che sgomenta l’uomo: così avviene il risveglio della coscienza.
-Le More (1996), lungometraggio ambientato e girato nella campagna romagnola. Storia di due donne e le loro misere esistenze povere d’amore.
-Non è Francesca (1998), girato in Super 8 e telecamera 8 millimetri. Sceneggiato a clip sull’omonima canzone Mogol/Battisti in questa splendida versione cantata da Mina. Si ribaltano i ruoli, ed è una donna a cercare di convincere l’uomo di cui è innamorata (ma che ha un’altra relazione e vive con Francesca) che Francesca gli è fedele, pur avendola vista in compagnia di un altro. Il finale: credendosi tradita, Francesca, che rientra nel mezzo della conversazione tra i due, si uccide, ponendo fine alla sua inquieta esistenza.
-Donne (1998), videoclip sceneggiato sul testo della canzone omonima del giovane cantautore Michele Fenati. Il protagonista, in bilico tra sogno e realtà affronta con ironico sorriso l’universo femminile più vario, senza mai dimenticare il suo amore verso tutte le donne.
-A Poor devil (1999), grottesco d’ambientazione medievale: la fanciulla fugge, il perverso diavolo le è appresso, finché le circostanze non lo rendono ridicolo al punto tale da indurre lei alla pietà.
-Pier Paolo, Laura e Ninetto (2000), l’amicizia tra Pier Paolo Pasolini, Ninetto Davoli e Laura Betti tra ricordi ed emozioni. Insieme con “Il grido del cuore”, questo clip è disponibile sul sito internet “Pagine Corsare”, sito dedicato a Pier Paolo Pasolini.

IO C’ERO. Documentari a Bardonecchia 2001
di Luisa Pretolani

Sole sul palazzo dei Congressi di Bardonecchia, sulle montagne, sui sentieri, il fiume attraversa il paese, cartelli un po’ ovunque annunciano “Olimpiadi Invernali 2008”. Sembra di essere entrati in una cartolina, soprattutto se si arriva dal nord grigio e umido… Un signore alto dai capelli rossi è seduto davanti ad un caffè con un’espressione felice, baciato dal sole, ha gli ochi chiusi è Paul Pauwels. Arriva come altri dell’Europe Documentary Network (EDN) da quel nord grigio e umido. Sono tutti qui dal 3 al 7 luglio a parlare della produzione di documentari in Europa e a dare consigli, a chi vuole presentare i propri progetti ai diversi networks televisivi presenti al convegno. Il Documentary In Europe workshop costituito in collaborazione con EDN, è alla sua quinta edizione sotto la direzione del produttore/ regista Stefano Tealdi e per la prima volta verranno proiettati documentari italiani e non, presentati, quando erano ancora solo sulla carta, nelle edizioni precedenti. I tutors dell’EDN che terranno il laboratorio ai 16 progetti selezionati per il “pitching” sono produttori che arrivano soprattutto dal Belgio, come Paul Pauwels, dalla Danimarca, Tue Steen Muller direttore di EDN e dalla Finlandia Kristiina Pervila produttrice della Millenium Film, ma anche da Israele come la produttrice Orna Yarmut. L’EDN (www.edn.dk), come dice il titolo stesso dell’organizzazione, è un network nato con lo scopo di radunare produttori, registi e aficionados del documentario e dare loro una luogo cibernetico e non, dove discutere di documentari. Dagli articoli pubblicati nella loro rivista quadrimestarle “DOX” sino al loro sito web http://www.edn.dk si evince lo spirito e l’impegno di chi vuole fare del documentario l’ottava arte… ma torniamo a Bardonecchia. Dopo tre giorni di lavoro da parte dei 16 autori/produttori per rifinire la presentazione dei loro rispettivi progetti, venerdi’ pomeriggio cominciano i pitching. Nell’auditorioum del Palazzo dei Congressi davanti ad un folto pubblico, e’riunito un pannello di commissioning editors provenienti da diversi networks italiani ed europei quali Sherin Salvetti di National Geographic Italia, Bettina Hatami di Discovery Europe, il francese Michel Badinter di Planete, la tedesca Kathrin Brinkmann di ARTE e Heino Deckert di D.NET. I progetti vengono presentati uno dopo l’altro. Ognuno ha 15 minuti a disposizione divisi in due tempi: 7 minuti per mostrare il video trailer e illustare oralmente il progetto e altri 7 minuti di “risposta” dei networks con commenti e proposte per possibili collaborazioni di co-produzione… in fondo siamo tutti qui per vedere se riusciamo a trovare finanziamenti per realizzare il nostro amatissimo soggetto! I progetti proposti sono tutti estremamente interessanti e variano dal documentario antropologico a quello sociale, dallo storico, a quello di analisi di una quotidianità intima e personale. Le voci che si alternano sul podio propongono soggetti diversi: dal produttore spagnolo Juan Ubeda che presenta un progetto su uno degli ultimi indios “jibaros” dell’Amazzonia, famosi per la loro antica tradizione guerriera che voleva che si riduccessero le teste dei nemici uccisi; al regista/produttore italiano Antonello Padovano che con il suo A Prisoner in the Cellar racconta la storia di un soldato azero che durante la guerra tra Armenia e Azerbaijan, viene preso in ostaggio per due anni da una famiglia armena con l’intento di scambiarlo con la controparte azera, con un loro caro disperso durante la guerra. Ci sono anche storie “più vicine” alla realtà italiana che vogliono mostrare come questa stia cambiando e i difficili assestamenti politici e sociali. Alcuni documentari trattano dell’immigrazione da Cafè Genova dell’autrice Francesca Borghetti e The Slaughter House di Roberta Cortella Victory Stadium di Amoroso d’Aragona e quello della sottoscritta Leaving/Living. Dalle risposte dei networks si evince una volontà di programmare e finanziare progetti che abbiano un respiro internazionale e nazionale al tempo stesso… ma com’è possibile? I commenti fanno comprendere che se il tema di un determinato documentario ha delle possibilita’ di trovare una produzione, poi pero’ lo sviluppo deve riuscire ad interessare un audience locale, quella italiana, o francese per esempio, ma deve anche avere delle proprieta’ che lo rendano vendibile su un mercato internazionale. Perché un pubblico tedesco dovrebbe essere interessato alla vita notturna dei giovani italiani, chiede Heino Deckert della D.NET ad Alessandro Piva, che dopo aver diretto La Capa Gira ora lavora sulla no-fiction? O cosa farà in modo che un pubblico italiano sintonizzato su National Geographic Italia non cambi canale se arriva la storia di una giovane ragazza tedesca che vive in Nepal con un gruppo di suore…? E ancora, un gruppo di signori di mezza età che vive nel modenese e decide di mettere su un gruppo musicale per passarsi un po’; il tempo e suonare con piacere in fiere di paese, cosa lo distingue da un gruppo simile che vive nella provincia di Copenaghen? La distinzione sarà nel modo in cui Paolo Berni, per esempio, regista di Carpi riuscirà a filmare il gruppo musicale de I Lords e a mostrarne la loro unicità, simpatia e autoironia. E il signor Rossi seduto sul suo comodo sofà in una serata d’inverno forse troverà il documentario sul Nepal interessante proprio per il carisma dei personaggi ritratti anche se lontani dalla “sua” quotidianità. E un suo coetaneo, un certo Schmidt dall’accento bavarese sarà incuriosito dalla vita notturna dei giovani italiani del sud Italia e della riviera adriatica, un po’ perché gli ricorda dov’era stato lui qualche estate fa, un po’ perché forse suo figlio fa la stessa cosa ma non glielo dice più perché suo padre è troppo preso a guardare sempre la tv… Il convegno giunge al termine sabato mattina e a parte la sezione dei pitching, ci sono state interessanti proiezioni di documentari italiani e stranieri, tavole rotonde sulle nuove tecniche digitali per girare documentari e incontri di discussione sul rapporto tra le leggi italiane e i produttori documentari. Ci sono i saluti, lo scambio di e-mail e qualcuno che sorride soddisfatto per il contratto interessante fatto tra un caffè e un aperitivo con qualche network… ora sono all’aeroporto, sulla via del ritorno e leggo finalmente la guida all’evento che avevo sfogliato velocemente nei giorni passati, cita statistiche e numeri, sto per saltare il paragrafo poi mi cade l’occhio su: “per gli anni ’97, ’98 e ’99 c’è stato un trend crescente nelle ore di trasmissione di documentari. In particolare tra il ’98 e ’99 l’aumento è stato del 12% per il complesso delle reti RAI, del 6,8% per Mediaset e del 3,4% per Tele+. (…)” numeri sì, ma danno molta speranza a coloro che vogliono produrre e vedere documentari non solo sulla vita dei coccodrilli (!), ma credono nei fotogrammi di quei loro padri che quasi un secolo fa andarono tra i ghiacci a seguire l’eschimese Nanook…”

UOMINI E BAR. Esistono. Esistono ancora!
di E. Rajna

Esistono. Esistono ancora! Non solo in periferia o in qualche sperduto paese ma anche in centro città: bar dove si discute di tutto, cinema compreso. Non saranno i dibattiti del neorealismo e neanche quelli degli anni ’70 ma sono comunque discussioni di volta in volta serie, semiserie, assurde o strampalate; spesso solo divertenti o mirate a strappare una risata o a fare impressione. Questa rubrica vuol essere un bar virtuale, basterà inviare le proprie “tesi” a vaca@vaca.it e se saranno assurde oppure originali, strampalate o semiserie o serie ne daremo stralci con o senza nome, a piacere del cliente. Quelle che trascriviamo qui sotto provengono da un bar vero, sotto casa.
Abbiamo isolato un “corpus omogeneo”: ultimi film italiani.
Schema trascrittivo: ogni interlocutore è distinto con un numero seguito dalla lettera C. che sta per cliente.

Gostanza da Libbiano, regia Paolo Benvenuti.
(Il dibattito è particolarmente vivace fra tre clienti che sono andati a Bellaria, dove il festival di quest’anno ha avuto il merito di dedicare una serata alla proiezione di Gostanza).

1C. Lo ripeto: cavaci Lucia Poli e quel film non esiste.
2C. Tanto che ci sei cava anche la pellicola così sei più sicuro (che non esiste).
1C. Non fare il patacca. Leggo in giro di occhio su Dreyer e di paragoni con Bresson. Roba da ridere. Non scherziamo. Lavoro dignitoso, questo sì ma ingessato. Fra i documenti storici da una parte e Lucia Poli dall’altra il regista è sparito.
3C. Ben detto. Ti pare poco? Con tutti questi coglioni di registi italiani che berciano come scimmie e poi tirano fuori delle cagate pazzesche Ho proprio ammirato il “silenzio” di Benvenuti. Quel suo stare vigile senza invadere la scena. Proprio perché la storia c’era e l’attrice che ci credeva pure lui ha lavorato di cesello: con precisione e niente Sgarbi.
1C. Un grande operatore insomma. Poi neanche quello perché le scelte sulla fotografia lasciano molto a desiderare
2C. Con quel che c’è in giro nel cinema corrente questa (osservazione) mi pare proprio uno sproposito.
1C. Cos’è? Ce l’avete con me voi due stasera? Chi ha voluto a tutti i costi andare a Bellaria a vedere il film: io o voi due? Io! Quindi o discutiamo sapendo tutti che parliamo di un cinema su cui vale la pena discutere o giochiamo a beccaccino Insisto nel dire che Benvenuti o perché non se l’è sentita, o per scelta di fronte ai materiali – quella sceneggiatura “dal vivo” già così forte di per sé – o perché intimidito, insomma ha finito col trasformarsi in un documentarista
3C. Documentarista? Sì, come Rossellini nella Prise de pouvoir par Louis XIV
1C. Se volete metterla così solo che Rossellini col sonoro ci faceva i conti cosa che mi pare che Benvenuti abbia dimenticato di fare No, dico, caro Benvenuti ma cosa credi che non ci fossero rumori naturali all’epoca?
2C. Manco ti sfiora a te che quella sia una precisa scelta.
1C. Certo! Rinunciataria però!

Il mestiere delle armi, regia Ermanno Olmi.
(Più che una discussione questa è una tesi che gli altri avventori ascoltano garbatamente dato che a loro il film non è “piaciuto molto”).
– E’ chiaro come il sole. Se non sei un imbecille lo capisci subito. Quello è un film che Olmi non ha mai montato, voglio dire mai finito. L’avrà montato il produttore o i produttori. Ci avevano buttato 15 miliardi e mica lo potevano lasciare andare (dà un’occhiata in giro per rendersi conto se hanno capito bene, poi riprende con foga) al macero. Olmi ha girato delle cose splendide ma il film proprio non c’è. Dico non c’è il film di Olmi. C’è l’astuzia della produzione. Quella sì. Olmi non è mica un patacca che si accontenta delle belle inquadrature e delle belle scene per giunta legate da un casino di sottotitoli e di voci fuori campo che alla fine ti pare più La cumégia d’la fantésma (La commedia del fantasma) che il rovello di un gran capitano d’armi che deve lasciare, quasi ragazzo, questo mondo. In tutto quel vagolare per le stanze del Palazzo Ducale di Mantova l’unica cosa che si sente veramente è la disperazione di Olmi che non riesce a cavarci più di tanto i zampetti tra la faccia convincente ma inespressiva dell’attore e il suo rovello metafisico, altro che quella di Giovanni de’ Medici! (Prende fiato poi riparte a bomba). Dico: li avete gli occhi per vedere e la testa per ragionare? Giovanni è già al terzo giorno d’agonia o giù di lì ed è ancora bello fresco in faccia. Vi pare che se l’avesse chiuso Olmi avrebbe passato un simile strafalcione? E questo solo per dirne uno, madornale. Insomma, è inutile che si sbraccino tutti a gridare al gran ritorno del vecchio leone. Sarà pure vecchio ma non certo privo di quella coscienza artigiana che ne ha fatto un grande e allora io dico che per chi segue Olmi da 40 anni, come faccio io, questo è un film a cui Olmi ad un certo punto ci ha dato su. Ha buttato tutto là e ha detto ai produttori: “Fate quel che cazzo volete: io non ci credo più ma non voglio neanche rovinarvi, la colpa è mia ma il film è vostro”. E quelli l’hanno montato come hanno potuto, non avevano neanche i raccordi! Si vede benissimo! (Esausto quanto inascoltato va dalla barista e si fa dare un birra media, alla spina, poi esce fuori al fresco, guarda la luna e dice a se stesso: mò che senso avrà parlare con quelli lì? Di cinema non capiscono un’acca).

La stanza del figlio, regia Nanni Moretti.
è il film oggetto della prossima discussione ma ricordatevi di quel che scrive T.W. Adorno in Minima moralia: Ogni opera d’arte è un delitto mercanteggiato, e cioè ridotto a proporzioni più ragionevoli.

DALLA BIBLIOTECA
Ogni libro è una confessione. Gene Tierney in Femmina folle.(Leave Her to Heave), USA 1945 di J.M. Stahl. ” Una G.Tierney bella da mozzare il fiato e una splendida fotografia di Leon Shamroy, premiato con l’Oscar” dice M. Morandini.

A proposito
della disperazione
e del coraggio di
individuare e aprirsi
a un’utopia.

Di Rainer Werner Fassbinder in I film liberano la testa a cura di G. Spagnoletti, Ubulibri, Milano, 1998.

Non si può parlare del senso della vita senza ricorrere a parole fallaci. Inadeguate. Ma non ce ne sono altre. Se qualcosa esiste, allora è il movimento. Un bel giorno si è voluto dar credito a una cosmologia irrigidita, un sistema solare che muovendosi in maniera preordinata, in realtà non si muove più. Per farlo rimettere in moto bisogna scompaginarlo. Questo è il compito dell’uomo, fin dalla sua creazione, ma non c’è alcun oggetto che lo fondi. Non ci è più consentito affermare che la nostra esistenza ha uno scopo preciso. Il progetto, ma è quello dei potenti, si realizza nel nostro pensiero causale, che è sempre instradato a erigere esclusivamente sistemi di valori, a produrre senso. La storia intera, tutte le mitologie sono il risultato di quella serie pianificata di concatenazioni causali. Ma se noi disarticoliamo le rispettive rotazioni di questo sistema, allora l’equilibrio dei baricentri non tiene più, e tutto il sistema va a rotoli. All’improvviso si crea il movimento, qualcosa esiste. L’effetto sarà paralizzante, per noi che partoriamo sempre valori. Non riusciamo ad accettare ciò che, rispetto all’esistente, vi si contrappone. Ragion per cui siamo ben lontani dalla libertà. Noi non saremo mai liberi finché non saremo disposti ad accettare la distruzione. Così come accogliamo quel ben regolato sistema solare che testimonia del nostro irrigidimento. E la nostra situazione è dovuta al fatto che l’individuo non percepisce il suo essere estinguibile. Non mi riferisco a un sapere intellettuale, bensì a quella certezza del corpo in ogni sua azione. All’uomo, l’opportunità di capire la finitezza gli viene a lungo negata, ci penserà la sua natura corporea a supplire a questa carenza, e però molto tardi. Se la certezza corporea di dover morire fosse tangibile in ciascuno di noi il più presto possibile, nessuno patirebbe più sofferenze esistenziali – l’odio, la gelosia. Niente più paure. I nostri rapporti interumani sono giochi crudeli per il semplice fatto che noi, nella nostra fine, non intravediamo alcunché di positivo. Ma c’é il positivo, perché è il reale. La fine rappresenta la vita concreta. Il corpo deve capire la morte. A Brema, dopo un mio spettacolo, passai una notte terribile. Un sogno di morte. Che mi colse assolutamente impreparato. Dopodiché mi venne la cardionevrosi e corsi dal medico. Ovviamente non ero malato. Questa esperienza della finitezza mi ha raggiunto in sogno a ventisei anni, anche troppo tardi. Non potevo più sfruttarla nella mia relazione. Ed è diventata l’argomento della mia nuova pièce: Ende endlos (t.l.: Fine senza fine). Però la distruzione non è il contrario dell’esistenza. La distruzione, come idea, si ha quando questo stesso concetto non esiste più, quando non ha più senso, quando si trasforma in realtà che lo fa dissolvere.
Quello che si potrebbe inventare dopo, sarebbe entusiasmante.
Giugno 1977

IL REGISTA FLORESTANO VANCINI
di Fabrizio Varesco

Ci sono alcuni fotogrammi di film che ho visto da ragazzo che sono sempre rimasti impressi nella mia memoria: la porta che si chiude alle spalle di John Wayne nel finale di Sentieri Selvaggi, lo sguardo disperato di Lamberto Maggiorani che cerca suo figlio in Ladri di biciclette, lo stupore di Janet Gaynor quando capisce che George O’Brien vuole ucciderla in Aurora, la bottiglia appesa al filo fuori della finestra in Giorni Perduti, Nadine Nortier che rotola verso l’acqua in Mouchette, Keir Dullea che è costretto ad abbandonare nello spazio il suo compagno Gary Lockwood in 2001, le nocche tatuate di Robert Mitchum nella Morte corre sul fiume e ancora molti altri che adesso non voglio stare a citare. Una specie di film personale fatto di immagini tratte da grandi e piccoli film, documentari, sceneggiati televisivi, telefilm, telegiornali, quadri, libri, cartoni animati che hanno sempre rappresentato un archivio di informazioni per il mio lavoro. Una di queste immagini è tratta dal film di Florestano Vancini La lunga notte del ’43 . Esterno giorno, prime luci dell’alba. I corpi di alcuni uomini fucilati dai fascisti durante la notte sono riversi contro il muro del castello di Ferrara. I corpi sono abbandonati uno sopra l’altro, i cappotti, le giacche, i cappelli, i piedi, le mani, le teste, le pietre del selciato e i mattoni del muro, sullo sfondo i portici e i palazzi del centro storico di Ferrara avvolti nella nebbia. Un intenso campo lungo in cui tutti gli elementi di composizione sono perfettamente a fuoco e i corpi di quegli uomini fanno parte del paesaggio, immobile e muto. E’ nella precisione dello spazio e nella creazione del tempo che quell’immagine si trasforma e diventa indelebile, diventa storia. Non ha avuto bisogno di dettagli e primi piani e nemmeno di particolari movimenti di macchina, ha lasciato che l’inquadratura si facesse e accumulasse energia, ha lasciato che la casualità di un oggetto, un cappello rovesciato o di una mano chiusa determinassero il contenuto, ha lasciato che il suo amore e il suo rispetto diventassero coscienza per gli spettatori, che l’assenza di movimento si trasformasse in disagio per chi guarda. Un Vancini diciassettenne vide realmente quella scena passando in bicicletta davanti al Castello di Ferrara il 15 novembre del 1943. Il punto di vista dell’inquadratura deve essere lo stesso del ragazzo che anni addietro aveva bloccato la bicicletta a pochi metri di distanza dai corpi, era lì fermo, non osava avvicinarsi di più, per un lungo attimo la sua mente assorbiva quell’immagine e produceva in lui la coscienza di quello che quell’immagine rappresentava. La strada e i palazzi e la nebbia e quel muro e i corpi riversi sul selciato diventavano cinema in quel momento. Quegli uomini massacrati avevano la sola colpa di essere antifascisti o di origine ebraica. La lunga notte del ’43 è un film del 1960 ed è l’esordio di Vancini nel lungometraggio, un esordio straordinario con Pasolini e De Concini alla sceneggiatura, Carlo Di Palma alla fotografia, Nino Baragli al montaggio, Carlo Rustichelli per le musiche e attori come Enrico Maria Salerno, Gabriele Ferzetti, Gino Cervi e Belinda Lee. Vancini inizia la sua carriera artistica negli anni Ô50 come documentarista e il documentario rimane una presenza costante nella sua filmografia. I titoli dei suoi primi documentari sono : Uomini della pianura, Alluvione, Camionisti, Delta Padano, Al filò, Uomini della palude, Asfalto, L’isola d’acciaio, Dove il Po scende e molti altri che danno immediatamente l’idea dove si fermasse lo sguardo di Vancini. Le foto di set di quel periodo ritraggono Vancini con delle piccole troupe sugli argini del Po o nei cortili delle case di campagna, con il mitico Cartoni ancorato fra le pietre e cineprese 16 mm. che assomigliavano a delle scatole da scarpe e lo stile neo realista che ancora spingeva il cinema italiano fra quelli più importanti nel mondo. Erano documentari che servivano ai gestori delle sale cinematografiche che per legge dovevano proiettarli prima dei lungometraggi ed erano firmati da registi come Antonioni, Zurlini e Vancini appunto. E’ in questi documentari impressi su 300/400 metri di pellicola che Vancini costruisce il suo stile rigoroso, sceglie le storie, i punti di vista per le inquadrature, le panoramiche, decide il taglio per il montaggio, costruisce le basi e rafforza quel cinema di memoria che sarà il punto di forza dei suoi lungometraggi. Memoria personale e memoria storica sono le chiavi giuste per avvicinarsi al cinema di Vancini come ricorda Guido Fink nell’introduzione alla biografia del regista. Una memoria che non è ricordo ma elemento vitale per capire il presente, una costante ricerca della verità attraverso i dubbi e le sofferenze, la non accettazione di regole e dogmi imposti da un potere o da un partito e in primo piano sempre l’individuo con la coscienza di sé e degli altri. E’ questa coscienza libera da compromessi mai accettati che fa di Vancini uno dei registi più importanti del nostro cinema.
Una figura femminile avvolta in un cappotto nero si avvicina ai corpi abbandonati sul marciapiede.
Si ferma.
La nebbia avvolge tutta la scena.
Azione.

(Filmografia minima)
I LUNGOMETRAGGI
1960. La lunga notte del ’43.
1961. La separazione legale, episodio de Le italiane e l’amore.
1962. La banda Casaroli. 1964.La calda vita. 1966. Le stagioni del nostro amore.
1967.I lunghi giorni della vendetta. 1969. Violenza al sole – Un’estate in quattro.
1972. La violenza: quinto potere.
1972. Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato.
1973. Il delitto Matteotti.
1974. Amore amaro.
1979. Un dramma borghese.
1980. La baraonda.
1984. La neve nel bicchiere.

Premi 1960. La lunga notte del ’43. Premio “Opera Prima”, Mostra di Venezia. Premio “Mario Gromo”, Saint Vincent. Nastro d’argento a Enrico Maria Salerno.
1966. Le stagioni del nostro amore. Premio della critica internazionale (FIPRESCI), Festival di Berlino. Premio speciale, XII Settimane del Cinema di Valladolid. Grolla d’oro a Enrico Maria Salerno, Saint Vincent.
1973. Il delitto Matteotti. Globo d’oro della Stampa estera in Italia. Premio speciale della giuria, Festival di Mosca.
1974. Amore amaro. Nastro d’argento a Lisa Gastoni.
1979. Un dramma borghese. Efebo d’oro al miglior film dell’anno tratto da un’opera letteraria. Agrigento.
1984. La neve nel bicchiere. Prix OCIC, Mostra di Venezia.
Florestano Vancini è stato insignito, nel 1999, del Premio Vittorio De Sica alla carriera.

Per una filmografia più puntuale: Giacomo Gambetti, Florestano Vancini, Cremese editore, Roma, 2000.

Ravenna dedicherà a Florestano Vancini, lui presente, un ciclo di manifestazioni a fine ottobre-primi novembre di quest’anno. Informazioni presso il sito del comune di Ravenna

AL MARGINE Bestiario dell’Impiegatto
di Khip Mercuri

Il Bestiario dell’Impiegatto (Gianni Zauli, VACA ed., 2001, pp. 112, L. 16.000), è un ampio e godibilissimo strumento di ricognizione surreale in ambito zoologico. Solo qui si possono incontrare, tra gli altri, l’ocalunnia, che non sa trattenersi dallo spifferare dicerie e maldicenze, l’emulo, un quadrupede teso a eguagliare le altrui virtù…. e ovviamente l’impiegatto (che assurge a simbolo generale dell’intero serraglio) che, insieme al suo collega ranagrafe, piccolo anfibio comunale, presiede e sorveglia la vocazione classificatoria del testo. Davide Reviati (scheda in Nick n°1/2000) lo ha illustrato con l’umorismo e la vena poetica che contraddistinguono i suoi personaggi d’inchiostro e che potete giudicare dalle figure qui attorno, mentre Paolo Albani ne ha firmato la prefazione dove scrive: “…Una nuova disciplina, o meglio una branca vitale dell’ormai affermata “zoologia parallela”, si affaccia dignitosamente all’orizzonte: la zoogiocologia”.
Ciò che vedete e quel che vi ho detto vi hanno incuriosito?
Allora sfogliate un po’ qui.

DIGITALE
Di Masi

Ci siamo interrogati lo scorso numero sul video digitale in rapporto a quelli che riteniamo gli elementi fondanti del cinema (supporto, sala/schermo, linguaggio) individuando una piena compatibilità tra il cinema tradizionale (pellicola, proiezione tradizionale) e nuove tecnologie (video digitale e videoproiezione). Un supporto nuovo con le medesime modalità di fruizione con un linguaggio che si evolve a livello stilistico ma non grammaticale per lo meno in maniera non ancora sostanziale. Dove allora il nuovo supporto influisce ed agisce nel corso della creazione, produttiva e artistica, cinematografica? Nel corso della storia del cinema una grossa conflittualità nasce sovente tra le esigenze artistiche e le esigenze produttive, queste ultime pesano come un macigno e fanno la differenza tra il cinema e le altre arti per le quali i costi di produzione non sono un elemento tanto determinante. Il sogno, l’utopia di molti cineasti, oggi come nel passato, è spesso la ricerca di tecnologie “leggere” che liberino dai “pesanti” fardelli della produzione finalizzata al mercato. Neorealismo, nouvelle vague, free cinema, New American Cinema, Junger Deutscher Film, Dogma ’95, tutti i movimenti che hanno innovato e rifondato il cinema hanno dovuto distaccarsi, per scelta o necessità, dalle istituzioni cinematografiche per liberarsi dal bisogno di inseguire studios, produttori, ricettari precotti. Sentite cosa dice Cocteau nel 1948 in un saggio a favore del 16 millimetri: “(…) l’arte non ha mai vissuto di opuscoli venduti poco inizialmente, di piccoli periodici distribuiti a mano, di riviste con tirature minime. Ma è lì che poi ritroviamo i nomi che tutti rispettano e amano. è da lì che spuntano i semi che cadono un po’ ovunque e che germinano. è da questa musica da camera creata nell’ombra che il mondo trae le sua grandi rapsodie. (…) Considerare il cinema alla stregua di una fabbrica di lusso, invece di tentare di mettere nelle mani di tutti la sua arma capace di infondere la vita equivarrebbe a non riconoscerne l’importanza, a non capire che è un’arte che si avvia a diventere l’arte completa. Un’arte alla quale i giovani non possono partecipare liberamente è condannata in partenza. è fondamentale che ognuno impari a sceneggiare, a girare, a montare, a sonorizzare, a non specializzarsi solo in un ramo di questo duro mestiere, insomma a non essere una rotella di uno degli ingranaggi della fabbrica, ma un corpo libero che si getta in acqua e che da solo inventa il nuoto.” (J. Cocteau, En faveur du seize millimètres [1948]; ora in Du cinématographe, Paris, Belford, 1973, tratto da Utopia e Cinema a cura di Andrea Martini, Marsilio Editori, Venezia 1994.).
L’aria di queste parole si respira in molti manifesti, saggi, dichiarazioni, che attraversano la storia del cinema e laddove le tecnologie sembrano offrire opportunità straordinarie sempre, dietro, c’è un’industria attenta che compra, sfrutta, rigenera in fotocopia le suddette “rapsodie”, muove denaro, materia sensibile. Il digitale però, a differenza delle precedenti tecnologie “leggere”, 8 – 16mm, video analogico, presenta nel rapporto qualità d’immagine/costo, vantaggi impensabili in passato, il mondo del cinema lo sa e si muove. Si muove in alto offrendo al grande business camere iperprofessionali e sistemi di montaggio e proiezione mirabolanti e costosissimi, ma si muove anche in basso con camerine che lasciano di stucco per i risultati, sistemi di montaggio a costi sostenibili e videoproiettori luminosissimi. Questa volta sembra più difficile creare le dighe di distinzione che separano i due mondi dell’high e low budget, questa volta forse è possibile spostare l’asse dai contenitori ai contenuti e finalmente “gettarsi in acqua, inventare il nuoto”. Grandi innovazioni però spesso provocano grandi smarrimenti che sfociano in dure opposizioni da un lato o in sperimentalismi puerili dall’altro. L’interrogativo oggi diventa allora come utilizzare le nuove tecnologie, non semplicemente in sostituzione delle vecchie ma cercando il senso profondo che soggiace nelle nuove immagini e nei nuovi sistemi di produzione che le creano. Così Deleuze in L’immagine-tempo (Ubulibri, Milano 1997): L’immagine elettronica, cioè l’immagine televisiva o video, l’immagine numerica nascente, doveva o trasformare il cinema, o sostituirlo, segnarne la fine (…) Il nuovo automatismo non vale a nulla per se stesso se non è al servizio di una potente volontà d’arte, oscura, condensata, desiderosa di dispiegarsi con movimenti involontari che non per questo la costringono. (…) Cosicché le immagini elettroniche dovranno fondersi ancora in un’altra volontà d’arte (…) L’artista è sempre nella condizione di dire nello stesso tempo: reclamo nuovi mezzi e temo che i nuovi mezzi annullino ogni volontà d’arte, o ne facciano un commercio, una pornografia, un’hitlerismo… I tentativi non mancano ma è il senso di ibrido che predomina. La paura di infettare le immagini pellicola con l’elettronica è stata la cifra stilistica dei primi tentativi di commistione, dal Wenders di Nick’s Movie al Cronenberg di Videodrome fino ai titoli di testa dell’Odio di Kassovitz infezione ed informazione si sono scambiati i ruoli giustificativi di ingresso delle nuove immagini. Poi il DOGMA ha sdoganato nella fiction l’elettronica, nuda e cruda, divenuta digitale ma a patto di renderla “credibile” attraverso la trasposizione in pellicola, un passo necessario e ancora determinante per il pubblico senso cinematografico, lo dimostrano i molti festival che ancora escludono i video dai concorsi ufficiali. Paura e meraviglia. Giovani e vecchi filmaker in balìa del vento non prendono il volo, esattamente come il foglio di carta, filmato (in digitale) dal giovane figlio del marines, in American Beauty. Semplicità ed emozione. Si inseguono (forse) nuovi/altri orizzonti, una tecnologia leggera, una “caméra stylo”, un mercato parallelo o altrove, sogni che hanno attraversato l’arte cinematografica e la sua storia, “utopie possibili” grazie al digitale? Forse ma non basta. Se una videocamera è una penna per scrivere o un pennello se si allargano i margini di libertà, le falde che si aprono spesso aumentano, invece di diminuire, il vuoto di idee e contenuti: il mondo, il cinema, rimane un foglio bianco, una tela bianca, uno schermo bianco.

CALEMBOUR. Il cinema ha dei numeri…
di Giz

Il Cinumero è un neo gioco letteral/cinematematico che si basa su regole matematiche da applicare alle forme numeriche presenti nei titoli dei film, per ottenere, dall’unione di due o più di essi, un ulteriore nuovo titolo. La regola matematica da utilizzare è l’addizione, ma nulla toglie ad esperti matematici manipolatori di parole e di idee, nonché esperti cinefili, di utilizzarne altre a propria scelta. Il gioco consiste nel risolvere la somma dei numeri presenti nei due (o più) titoli di partenza e formularne un terzo (contenente il nuovo numero risultato) ed inventandone una sintesi narrativa del contenuto: sintesi che dovrà avere riferimenti espliciti ai film di partenza, essere consona al nuovo e contenere ovviamente una certa dose di ironia.
Ad esempio, se prendiamo in considerazione Un (1) mercoledì da leoni e Salò e le 120 giornate di Sodoma, potremmo ricavare 121 (1+120) sadici sulla cresta dell’onda, un film ambientato nel periodo della Repubblica di Salò che narra la storia di 4 fascisti che sodomizzano tre innocui surfisti californiani (o viceversa).
Oppure:
La carica dei 101 + I 3 giorni del Condor = Il Condor e i suoi 104 Dalmata. Joe Turner lavora alla CIA. Un giorno si assenta per pochi minuti dall’ufficio, dove aveva lasciato il suo cane Pongo, la compagna ed i loro 102 cuccioli, quando un commando guidato da Crudelia Demon li rapisce. Joe scopre che Crudelia è un dirigente della CIA. Sarà grazie a Pongo ed alla compagna che i cuccioli riescono a fuggire. Joe decide di spedire un memorial della vicenda al New York Times, ma gli viene fatto notare che probabilmente non gli verrà mai pubblicato.
Ed ancora:
Una poltrona per 2 + 8 e 1/2 = 10 poltrone e 1/2 sul set. Guido è un regista in crisi d’ispirazione. Fugge dal suo set e, dedicatosi all’accattonaggio, viene “raccolto” da due vecchietti sadici imprenditori che lo mettono al posto del brillante direttore della loro azienda, da loro ridotto sul lastrico. Il nuovo ed il vecchio direttore si coalizzano. Una volta vendicatisi dei due vecchietti, Guido si ritrova sul set del suo film dove si unisce al girotondo dei suoi personaggi che si muovono ritmati da una musica da circo.
Ecc., ecc.
Con minor rigore e più facilità ed immediatezza (credo anche con più divertimento), si possono far anche dei semplici cocktails di titoli ignorandone le trame:
I 4 dell’oca selvaggia + I 3 giorni del Condor + 1 mercoledì da leoni= 8 animali fra oche, condor e leoni.
I 7 samurai + 4 matrimoni e 1 funerale = 11 samurai si sposano, e 1 muore.
Una poltrona per 2 + Una su 13= In 15 sulla poltrona.
I 4 cavalieri dell’Apocalisse – I 3 Moschettieri + Le 4 giornate di Napoli= 1 Moschettiere a cavallo insorge a Napoli per 4 giorni.
7 spose per 7 fratelli – 3 scapoli e 1 bebè= 4 fratelli sposati con 1 figlio.
Ma per tornare al gioco del n° precedente di Nick… mi stavo chiedendo:
Cosa farà a settembre Agosti?
Dove tiene le frecce colorate Arcopinto?
Che rapporto c’è tra Asia Argento ed i cercatori d’oro americani?
E tra un torero e Lello Arena?
Nel karatè, che Dan avrà Aykroyd?
E con un pizzico di dislessia:
Che carattere ha Marlon Blando?
Quale operazione a sorpresa fa, in Chi ha paura di Virginia Woolf, Blitz Taylor?
Di che colore diventa, quando si vergogna, Brigitte Bordeaux?
Mah!

Notti insonni (lettere dagli amici)

Sono molti quelli che hanno il maledetto problema delle notti estive calde, troppo calde.
C’è chi cerca rimedio andando giù peso di psicofarmaci e chi si fa docce su docce, chi fa all’amore e chi tiene i piedi nel bidet per un’ora e passa. Poi ci sono quelli come me che si affidano agli incontri. Me l’ha insegnato un’amica che vedo ogni tanto e non ho mai capito bene cosa faccia. Comunque il sistema degli incontri funziona così:
A) Devi mollare il cane
B) Il cane deve cercare
C) Il cane scova la preda
D) La preda viene portata in primo piano.
Quest’amica mi ha raccontato di un francese del ‘700 che non le dava pace. Lei gli ha mollato contro il cane dei suoi istinti. Dice lei che ne sono successe di tutti i colori. Te credo: il francese in questione si chiamava La Mettrie e aveva il demone della Causa prima.
Per conto mio soffrivo nelle notti scorse solo di un malessere legato alla più banale delle passioni: il cinema!
Non dormivo. Ho mollato il cane. Accidenti! Me l’ha portato in un minuto il mio “nemico”.
Un tipo alto, sui cinquanta. Il tipo stecco, culo di pietra col tappeto volante a forma di “pass” che lo porta da un festival a un convegno e di qui a una riunione poi di nuovo ad un festival e via a una presentazione. Di quelli che un intervento non hanno bisogno di ascoltarlo e un film di vederlo, gli basta l’incipit, a volte anche meno: vedi il cognome del relatore o i titoli di testa. Insomma il cane l’ha scovato e questo mi si piazza davanti e di sotto la folta chioma chiazzata in cui caccia continuamente la mano sinistra (la destra gli serve a tenere uno zampirone che è perennemente acceso), con aria sprezzante mi dice: “chi l’ha scritto quel pezzo sul festival di Cattolica? Eh, chi l’ha scritto? Uno che non ne sapeva un cazzo, ecco chi l’ha scritto perché le cose non sono assolutamente andate così!”
Lo guardo e gli dico:”Già! Quando mai le cose sono andate così?”
Che giallo questa storia dei tre festival (Bellaria, Cattolica, Rimini) diventati uno poi di nuovo due più un’appendice semiclandestina. Chissà quanti anni dovranno passare prima che si sappia com’è andata veramente.
Accidenti al cane e agli incontri!

Per il 2001 ci dobbiamo accontentare qui in Romagna. La parola d’ordine è: IN TONO MINORE. Così Bellaria era un festival di transizione in tono minore, il festival teatrale di Santarcangelo era talmente in tono minore che le cose maggiori succedevano tutte nei paesi vicini; di Ravenna Festival non diciamo niente, però ci è sembrato che anche lì stiano rimescolando le carte e che la partita seria si giocherà prossimamente, A Cattolica Micucci s’è incazzato quando ha saputo che non c’erano i soldi per invitare qualcuna di grido e allora niente festival; stiamo aspettando Imola corto… A Cesena resistono gli infaticabili del Cineforum Fuoriquadro che fanno anche rassegne di corti a Cesenatico: bravi di cuore! A Ravenna, ha fatto i suoi primi passi un concorso piccolo piccolo che avevamo segnalato nel precedente numero di Nick. Rimini si muove ormai nella semi-clandestinità per cui è inutile che cerchiate da noi notizie. Se dura così cambieremo il sottotitolo di Nick e invece di scrivere: fare cinema in Romagna vi informeremo delle Marche, dove persino a Fano hanno tirato su un festival e già c’era Pesaro che non è una cosa da poco e giù via via sino a San Benedetto… ma poi, vuoi mettere avere una città dove Moretti ci gira un’intero film che vince pure la Palma d’Oro? Tutti ad Ancona!